legge
Il diritto prodotto dal parlamento e obbligatorio per tutti i cittadini
La legge, in senso tecnico, è il diritto che gli organi legislativi dello Stato producono nel rispetto di determinate procedure. In Italia, l’organo legislativo è il parlamento e il procedimento di formazione di una legge si svolge in cinque fasi successive. Queste fasi, ognuna delle quali può iniziare soltanto dopo che è terminata la precedente, sono: l’iniziativa legislativa; l’istruttoria; la deliberazione; la promulgazione; la pubblicazione
Con il termine legge possiamo indicare due cose diverse, a seconda del linguaggio che impieghiamo, tecnico e specialistico in un caso e comune e generico nell’altro. In questo secondo caso, esso sta per diritto e indica tutte le regole giuridicamente obbligatorie che vigono in un determinato Stato. E quindi è legge tanto l’ordinanza con cui il sindaco proibisce di circolare con il ciclomotore nel centro storico della città, quanto l’atto deliberato dall’assemblea regionale; tanto la sentenza con la quale il giudice mi obbliga a risarcire il danno che ho cagionato alla controparte, quanto la norma approvata dal parlamento nazionale.
Tecnicamente, invece, con la parola legge si designano non tutte le regole dell’ordinamento giuridico ma soltanto alcune di esse; solamente quelle, quindi, e non altre. Legge, perciò, è il nome giuridico di precisi e ben determinati atti normativi: leggi costituzionali; leggi regionali; leggi ordinarie dello Stato. Bisogna notare però che mentre per le leggi costituzionali e per le leggi regionali i due aggettivi seguono sempre il sostantivo (tanto è vero che vengono abbreviate in l. cost. e l. reg.), nel caso delle leggi ordinarie, delle leggi cioè approvate dal parlamento nazionale, si discorre puramente e semplicemente di legge, di legge senz’alcun aggettivo (e non a caso esse vengono citate con la sola iniziale l.). Quasi a voler dire che la legge, la legge delle leggi, la legge per eccellenza, insomma, è sempre e soltanto quella del parlamento. Concludendo: la legge è, sì, diritto ma è quel particolare e specifico diritto che viene prodotto dall’organo legislativo dello Stato (il parlamento, appunto).
Intendiamoci, non è che ogni deliberazione del parlamento sia perciò stesso una legge: le Camere, per esempio, organizzano i loro lavori mediante regolamenti; e i regolamenti sono appunto regolamenti, non leggi. Le leggi, invece, si producono quando le Camere deliberano in un certo modo, nel rispetto cioè di certe forme che sono poi le forme della legge. Quali sono queste forme? Quali sono cioè i caratteri formali che elevano la decisione del parlamento al rango di una legge veramente e propriamente detta?
La questione è controversa, e a renderla ancora più complicata c’è una dottrina che ha tenuto la scena per lungo tempo ma che, pure, bisogna esaminare criticamente. È la dottrina secondo cui c’è il varo della legge quando, e soltanto quando, l’assemblea legislativa disciplina una determinata materia con norme che sono generali e astratte.
Si dice che una norma è generale quando è rivolta non a un singolo individuo, non a questa o quella persona, ma a una classe, a una categoria intera di persone (che può essere volta a volta la categoria del proprietario, dell’omicida, del venditore e co;sì via), sicché tutti coloro che appartengono alla medesima categoria, tutti senza eccezione, sono investiti degli stessi diritti e gravati dagli stessi doveri. Qui veramente vale il principio per cui «la legge è eguale per tutti».
Si dicono astratte quelle leggi che comandano o proibiscono azioni-tipo (per esempio, la locazione, il furto, la compravendita), azioni cioè descritte nei loro caratteri tipici e che per essere così tipizzate opereranno sempre, vale a dire opereranno nei confronti di tutti quei comportamenti concreti che d’ora innanzi e per un periodo indeterminato di tempo rientreranno nel loro modello, nello schema-tipo appunto. Ecco perché la legge astratta è una legge, per così dire, longeva, che ha la vita lunga. L’ha lunga perché non nasce e finisce lì, come sarebbe per esempio nel caso in cui mi venisse ordinato: «Smetti di fumare quella sigaretta». Se io obbedisco, nel preciso istante in cui spengo la cicca, esaurisco anche l’efficacia del comando che perciò non si rinnova nel tempo.
Altra cosa, evidentemente, è leggere nei locali del cinema il cartello con su scritto «è vietato fumare». In questo caso no, l’efficacia del comando è continua e non è più istantanea perché so, tutte le volte che vorrò andarci, di dovermi astenere dal fumare nel cinema e so anche che, se non mi asterrò, sarò punito con un’ammenda. Con la legge astratta, dunque, io ho la possibilità di calcolare in anticipo le conseguenze dell’azione che ho in animo di compiere. Mi è sufficiente individuare il ‘tipo’ di schema che la richiama e gli effetti che vi sono collegati. Ora, dare ai cittadini la possibilità di conoscere in anticipo le conseguenze giuridiche delle loro azioni è la funzione tipica del diritto certo. Certezza del diritto significa possibilità pratica di conoscere, prima di agire, quali sono le azioni permesse e quali, invece, quelle vietate.
E dunque, così come la legge generale garantisce l’eguaglianza, allo stesso modo la legge astratta assicura la certezza del diritto.
Il difetto di questa dottrina è che pecca per eccesso perché estende a tutte, ma proprio a tutte le leggi, quello che invece vale per una parte soltanto di esse, e sia pure per la parte maggiore. Ci sono norme alle quali nessuno contesta la qualifica di leggi e che, tuttavia, difettano ora del requisito della generalità e ora del requisito dell’astrattezza (e a volte, addirittura, sia della generalità sia dell’astrattezza).
Quando, per esempio, il parlamento deve eleggere il giudice della Corte costituzionale non c’è dubbio che vi provvede con una legge. Ma è legge che si indirizza a un soggetto particolare, ben determinato, con tanto di nome e cognome. Dov’è la generalità? Pure, siamo al cospetto della legge. Così come siamo al cospetto della legge quando il parlamento, per far fronte – mettiamo il caso – al rischio di una guerra ordina la mobilitazione generale; ordina cioè un’azione che non si ripete indefinitamente ma che vale solo per quel particolare periodo di tempo. Dov’è l’astrattezza? Dove la longevità della legge?
Un altro caso da esaminare è quello delle leggi di bilancio, delle leggi cioè con le quali il parlamento decide come spendere il danaro dei cittadini. Il più delle volte le spese vengono effettuate in vista di obiettivi circoscritti e ben definiti (qui la costruzione di un ponte, lì il potenziamento di una metropolitana); e sono obiettivi che una volta raggiunti consumano tutt’intera l’efficacia della norma. Da cui la concretezza (e non l’astrattezza) del provvedimento. Il quale provvedimento, peraltro, specie negli Stati contemporanei che intervengono massicciamente nella vita economica, si rivolge a singole aziende, a singole imprese, la cui sorte viene spesso decisa dopo essere state nominate una per una. Da cui la singolarità (e non la generalità) del bilancio.
Ecco perché né la generalità né l’astrattezza sono requisiti essenziali della legge, a dispetto, perciò, di quanto insegna la dottrina che stiamo esaminando. La verità è che questa dottrina più che indagare le leggi reali comanda le leggi ideali; non dice cioè quali sono le leggi che vigono nella realtà; dispone invece che per onorare l’ideale della giustizia le leggi debbano essere generali e astratte (posto che per la nostra sensibilità è giusto tutto ciò che garantisce l’eguaglianza tra gli uomini e la certezza dei loro diritti). Più che descrivere le leggi vigenti, qui si prescrivono le leggi giuste; e dunque, a rigore, questa dottrina è una dottrina della giustizia e non una dottrina della legge. La dottrina della legge, invece, è quella enunciata dalla sentenza della Corte costituzionale, quando nel 1957 ha scritto così: «La funzione legislativa non consiste esclusivamente nella produzione di norme giuridiche generali ed astratte».
Ma allora: posto che la legge si caratterizza per la sua forma, e che la forma della legge non necessariamente è generale e astratta, posto tutto questo bisogna chiedere: quali sono veramente gli attributi formali della legge? In virtù di quali caratteri esteriori noi la riconosciamo come tale? Ebbene, quale che sia il suo destinatario, quale che sia l’azione disciplinata e qualunque sia la disciplina dell’azione, diciamo che un atto normativo è legge quando viene adottato nel rispetto di determinate procedure.
In altri termini, ciò che caratterizza la legge è il suo procedimento di formazione, il cammino della sua approvazione, l’iter legislativo come si dice (in latino iter significa «cammino»), che naturalmente varia da paese a paese e che nel nostro ordinamento è scandito dalla Costituzione in cinque tappe successive: a) l’iniziativa legislativa; b) l’istruttoria; c) la deliberazione; d) la promulgazione; e) la pubblicazione. Esaminiamole separatamente.
Il primo passo nel cammino delle leggi viene mosso con l’iniziativa, vale a dire con la presentazione a una delle due Camere di un progetto di legge. Questo progetto deve essere articolato; articolato nel senso preciso che va chiuso e concluso in ogni sua parte mediante la redazione di articoli i quali non lascino nulla all’approssimativo e al generico. Ed è qui una delle differenze con la petizione popolare la cui redazione, al contrario, consente di formulare solo i principi o solo le direttive alle quali deve ispirarsi la (eventuale) legge del parlamento.
Inoltre, mentre la petizione compete a tutti i cittadini, il diritto di iniziativa è riservato ai seguenti soggetti giuridici: al governo, a ciascun parlamentare, a ogni Regione, al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e a 50.000 elettori.
Giunto che sia al suo cospetto, il presidente dell’Assemblea (che può essere indifferentemente il presidente della Camera o del Senato) decide se il progetto debba proseguire per la strada normale o ‘svoltare’ invece per la procedura speciale. Nel primo caso, il presidente trasmette il progetto a una commissione che si dice referente perché, per l’appunto, deve riferire all’assemblea le conclusioni alle quali essa perviene dopo aver esaminato il progetto. Ultimato il loro lavoro, talune commissioni si sciolgono (sono le cosiddette commissioni speciali); altre rimangono in carica e attendono di esaminare le ulteriori proposte che tocchino la sfera delle loro competenze (e queste sono le commissioni permanenti, come per esempio la Commissione trasporti, la Commissione giustizia e così via). In ogni caso, speciali o permanenti, le commissioni sono composte dai parlamentari eletti dai rispettivi gruppi in proporzione alla propria consistenza numerica. Istruiti dalla relazione della commissione, tocca poi ai parlamentari, i quali, prima sottopongono a una discussione generale il progetto di legge (che essi possono modificare con emendamenti scritti), poi lo votano articolo per articolo (e votano altresì gli emendamenti che vi hanno apportato), e quindi procedono alla votazione finale dell’intero testo. Successivamente, il tutto viene trasferito all’altra Camera dove, di nuovo, il progetto sarà discusso, eventualmente emendato e finalmente approvato o respinto.
Poiché nel nostro ordinamento vige il principio che comanda alle due Camere di pronunciarsi su un progetto del tutto identico (identico fin nelle virgole, come si dice), nel caso la seconda Camera lo abbia emendato, il testo torna indietro alla prima Camera per una nuova deliberazione; e così per più e più volte finché entrambe le assemblee non promuovano una risoluzione assolutamente concorde.
Questo procedimento, come si vede, è lento e macchinoso e più volte per la verità ci si è proposti di sveltirlo. A ogni modo, quando l’urgenza preme, il presidente della Camera che ha ricevuto la proposta di legge può incamminarla per la via breve della procedura speciale. La procedura speciale consiste in ciò, che la commissione a cui viene trasmesso il testo può discuterlo, emendarlo e quindi approvarlo o respingerlo, senza perciò doverne riferire all’assemblea. E dunque, da referente la commissione muta in deliberante.
Ma perché questo mutamento possa prodursi, occorre soddisfare alcune condizioni: intanto che la Camera non si opponga alla scelta, diremo così, ‘velocizzatrice’ del suo presidente; e poi che la materia consegnata alla commissione deliberante non rientri tra quelle sulle quali l’assemblea e soltanto l’assemblea può decidere. Esistono materie riservate, infatti; riservate, appunto, alla decisione ultima delle Camere e sulle quali nessun altro e per nessuna ragione può intervenire a regolarle. Queste materie, che, come dicono i giuristi, sono coperte da «riserve di assemblea» vengono elencate nell’articolo 72 della Costituzione e comprendono, tra gli altri, i progetti di legge in materia costituzionale ed elettorale. In ogni caso, anche una materia non riservata può ritornare in assemblea ed essere sottratta così alla delibera della commissione: è sufficiente che lo richieda il governo, un decimo della Camera o un quinto della stessa commissione.
Torniamo ora al procedimento normale. Una volta che anche la seconda Camera abbia approvato il progetto di legge, spetta al presidente della Repubblica promulgarlo entro trenta giorni. La promulgazione è un atto dovuto, mediante il quale con una formula solenne e immutabile egli attesta l’esistenza della legge (ed è quando la formula recita così: «La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica hanno approvato; il presidente della Repubblica promulga la seguente legge...»); e poi, dopo averla attestata, il presidente ne comanda l’ubbidienza (e allora la formula si chiude così: «È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato»).
La promulgazione, si diceva, è un atto dovuto. Con una precisazione, però: che il presidente può rifiutarsi di compierlo, ma solo per una volta e soltanto quando egli tema che la legge possa entrare in contrasto con la Costituzione o quando dubiti della sua opportunità politica. Dubbi e timori che egli dovrà esprimere in un messaggio motivato col quale richiede alle Camere una nuova deliberazione. Tuttavia, se le Camere non se ne danno per inteso e approvano la legge nello stesso identico testo che aveva suscitato le perplessità del presidente, allora non c’è più nulla da fare: il presidente dovrà inchinarsi e promulgarla senz’altro.
La promulgazione segna l’atto di nascita della legge: è a partire da questo preciso istante che essa viene agli onori del mondo giuridico. Pure, è muta e nessuno ancora può udirne i comandi.
Perché la legge parli, bisogna prima pubblicarla sulla Gazzetta ufficiale e poi lasciar passare un tempo ragionevole perché i cittadini possano ‘ascoltarla’, e cioè possano conoscerla. Ecco perché la legge entra in vigore il quindicesimo giorno successivo alla sua pubblicazione (salvo che la legge stessa non disponga un termine diverso, che può essere maggiore o minore di trenta giorni).
In conclusione: quando sulla Gazzetta ufficiale leggiamo un testo preceduto dalla parola «Legge», le cui norme – non necessariamente generali e astratte – sono promulgate dal presidente della Repubblica, allora possiamo star certi: quella è una legge!