AGRARIE, LEGGI
. Le leggi di Roma antica, chiamate agrarie, contengono norme giuridiche emanate dal popolo e regolanti: 1° la nascita, l'esercizio, la fine dei diritti di uso e di possesso attribu, ti a singoli o a comunità su terreni appartenenti al demanio terriero dello stato romano in Italia; 2° la cessione in proprietà di terreni del demanio italico a singoli o ad enti collettivi.
La trattazione che segue non comprende in genere le leggi per la fondazione di colonie che, pur avendo alcuni caratteri comuni con le agrarie, ciò non ostante conservano sempre, attraverso i secoli, una fisionomia propria e inconfondibile. Si farà tuttavia cenno di alcune poche leggi coloniarie che sono strettamente connesse con altre agrarie, o hanno contribuito a decidere le sorti di tutto il demanio italico.
Il territorio pubblico romano (ager populi romani) trae probabilmente la sua origine dalla proprietà collettiva del suolo, che prevale nei popoli primitivi; si estende via via con le terre strappate ai vinti in varia misura, ma di regola, secondo la prassi romana, in quantità non superiore a un terzo del territorio conquistato; cresce enormemente con la seconda guerra punica, per le confische a danno di città ribelli, e giunge a comprendere, all'epoca dei Gracchi, la parte migliore, e forse anche la maggiore, del territorio d'Italia.
Dalla legislazione che regolava il territorio pubblico dipesero quindi per secoli le fortune economiche dei cittadini romani, come singoli o come appartenenti all'una o all'altra classe sociale, e, poiché Roma ebbe esteso il suo imperio nel Lazio e nella penisola, anche quelle dei Latini e degli Italici.
Ciò spiega l'importanza fondamentale assunta dalle leggi agrarie nella storia di Roma, i dissidî interminabili, i tumulti, talvolta i massacri che ne accompagnarono la presentazione. La lotta per il possesso della terra è combattuta prima fra patrizî e plebei, poi tra oligarchi e democratici, tra Romani e Italiani, tra i ricchi di tutta la penisola contro tutti i nullatenenti, ed infine, nel crepuscolo della repubblica, tra gli antichi possessori e i veterani o i favoriti dei condottieri che si contendono il potere supremo.
Dai possessori degli agri occupatorii, cioè dell'ager publicus lasciato occupare a singoli o a comunità, lo stato aveva facoltà di esigere il quinto dei frutti degli alberi e il decimo dei frutti del suolo (decuma) se i terreni erano coltivati, e una tassa sul bestiame (scriptura) se erano invece adibiti a pascolo.
Abbiamo poi, fra i singoli come fra le comunità, possessori legittimi e illegittimi.
L'occupazione di terreni di proprietà pubblica era pienamente valida e giustificata (ex iusta causa), quando si poteva dimostrare di averla effettuata in virtù di compera regolare del diritto di perpetuo possesso o in base a un editto per mezzo del quale i magistrati invitavano chi volesse ad possessionem vacuam occupandam, cioè permettevano a chiunque di procedere all'occupazione, sempre revocabile, di terreni diventati di proprietà del popolo romano in seguito a guerre, confische, ecc. Valide e giustificate erano, ben inteso, le occupazioni autorizzate da leggi speciali; da plebisciti; da decreti del Senato; da trattati con città latine o italiche, in virtù dei quali gli antichi occupanti venivano mantenuti o riammessi nel possesso del territorio divenuto proprietà del popolo romano, oppure premiati, coll'assegnazione in possesso di nuovi territorî, della fedeltà serbata in gravi momenti, della valorosa condotta in guerra, ecc. Occupazioni legittime erano infine considerate quelle di coloro che nessuna concessione avevano ricevuta dallo stato, ma ai quali un legittimo possessore aveva trasmesso nelle dovute forme, per eredità, donazione o vendita, il suo valido diritto di possesso. Tutte le altre occupazioni venivano giudicate illegittime (sine iusta causa), e al tempo dei Gracchi erano, per numero e per estensione, molto più notevoli di quelle ritenute legittime.
Le leggi agrarie, abbiamo detto, hanno lo scopo di regolare il diritto di uso e di possesso sul territorio pubblico, e molte di esse si propongono di alterare, a vantaggio o a svantaggio di determinate categorie di cittadini o di alleati, le condizioni di uso o di possesso del territorio pubblico già venduto, affittato, occupato e distribuito; mirano spesso ad ottenere che le terre siano coltivate il più intensamente possibile; talvolta stabiliscono limitazioni all'impiego del lavoro servile nell'agricoltura.
Ogni proposta di legge agraria doveva essere esaminata dal Senato, sia perché questo d'ordinario voleva dare il suo consenso alle proposte di legge prima che esse fossero presentate al popolo, sia perché le leggi agrarie contenevano disposizioni di carattere amministrativo sulla destinazione del territorio pubblico, e il Senato era il più alto potere amministrativo dello stato. Potevano presentare (rogare) proposte di leggi agrarie tutti i magistrati investiti del diritto di convocare i comizî e di promuovere da essi una deliberazione (ius agendi cum populo). Ma non tutti fecero uso di questo diritto; i magistrati che svolsero la loro attività nel proporre le leggi agrarie furono principalmente i tribuni della plebbe, che negli ultimi secoli della repubblica omisero sovente di chiedere il consenso senatorio; due delle numerose rogazioni che ci tramandarono gli storici vennero proposte da consoli (Sp. Cassio e Cesare: per Sp. Cassio tuttavia non è da escludere che egli fosse, anziché console, tribuno); una soltanto da un pretore (Lelio).
Nei primi anni della repubblica le leggi agrarie dovettero essere presentate ai comizî centuriati, che soli possedevano potere deliberante in materia di legislazione. Poi ai concilî della plebe, che erano composti, ben inteso, da soli plebei, e che potevano essere convocati e presieduti dai tribuni e dagli edili della plebe; le proposte formulate sul declinare della repubblica da consoli e da pretori furono probabilmente votate nei comizî tributi, composti di patrizî e plebei.
Le leggi agrarie, quando importano assegnazioni demaniali, vengono eseguite quasi sempre non dai magistrati ordinarî, ma per mezzo di un'apposita commissione di magistrati eletta secondo le norme costituzionali e composta di tre, o di cinque, di sette, di quindici e persino di venti persone; magistrati che sono chiamati agris dandis adsignandis se incaricati di assegnazioni viritane, o coloniae deducendae, se invece dovevano provvedere alla fondazione di una colonia: ad essi è talvolta attribuito anche il potere giurisdizionale delle controversie inerenti all'espletamento del compito esecutivo loro affidato.
Le proposte di leggi agrarie delle quali ci è pervenuta notizia sono registrate nella tabella seguente.
Daremo ora qualche notizia particolare sulle leggi più importanti fra quelle elencate.
Cassia. - Spurio Cassio, console o tribuno, nel 268 dalla fondazione della città (486 a. C.), presentò una legge per dividere il territorio conquistato agli Ernici, per una metà tra i Latini alleati di Roma, e per l'altra metà ai plebei. Poiché il territorio pubblico non assegnato veniva, se non di diritto, di fatto, riservato tutto dai magistrati patrizî in godimento alla loro casta attraverso i sistemi dell'occupazione e della vendita, i patrizî si sentirono colpiti in pieno dalla proposta di Cassio. Tuttavia il Senato, per sedare l'agitazione popolare, che diventava minacciosa, se rifiutò di fare alcuna concessione ai Latini, mostrò invece di accondiscendere a dividere fra i plebei una metà del territorio Ernico. Il senatoconsulto relativo fu probabilmente trasformato in proposta di legge, presentato ai comizî, e approvato, mentre la rogatio di Cassio nel suo testo integrale venne ritirata o respinta.
Non appena Cassio fu uscito di carica (269-485 a. C.), i patrizî lo misero a morte, dopo averlo fatto condannare per l'accusa di aver preso l'iniziativa di una legge agraria allo scopo di diventare re con l'aiuto della plebe. Il senatoconsulto emanato l'anno prima non fu applicato, e i plebei restarono senza le assegnazioni promesse. Il racconto delle fonti (Livio e Dionigi d'Alicarnasso) è stato impugnato dal Mommsen, che, con ragioni non da tutti accettate, ha negato l'esistenza di questa legge.
Sicinia. - Presentata nel 359-395 a. C. da T. Sicinio, tribuno della plebe, proponeva che il territorio di Veio servisse a fondare una nuova città, di costituzione identica a quella di Roma, e che nella nuova città dovessero emigrare, per costituirne la cittadinanza, metà dei patrizî e metà dei plebei. Per due anni non fu potuta sottoporre alla votazione popolare, per il veto opposto da altri tribuni. Nel 361-393 a. C., scaduti e non rieletti i tribuni opponenti, fu respinta dai comizî per un voto solo, probabilmente d'accordo con lo stesso presentatore, il quale era riuscito frattanto ad ottenere dal Senato che ad ogni famiglia plebea bisognosa fossero effettuate assegnazioni di ventotto iugeri nel territorio di Veio.
Licinia Sextia. - Redatta nel 377-377 a. C. dai tribuni della plebe C. Licinio Stolone e L. Sestio Laterano; durante otto anni essi non riuscirono a presentarla ai comizî per il veto di altri colleghi. Nel 386-368 a. C. nessun tribuno osò più opporsi alla proposta, ma il Senato, che non voleva fosse approvata, nominò dittatore M. Furio Camillo: questi riuscì ad impedire la votazione, ma dovette lasciare la carica. Il nuovo dittatore, M. Manlio Capitolino, tentò con scarso successo di conciliare patrizî e plebei e si dimise; finalmente nel 387-367 a. C. la legge venne approvata senza contrasti, avendo il Senato ritenuto necessario di dare soddisfazione ai plebei nell'imminenza di un'invasione dei Galli, per fronteggiare la quale Camillo era stato ancora nominato dittatore.
La legge, allo scopo di ottenere il terreno necessario a nuove assegnazioni e al mantenimento del bestiame appartenente ai meno abbienti, disponeva, a quanto sembra, che nessuno potesse possedere terre demaniali in misura superiore ai cinquecento iugeri, e far pascolare sui terreni demaniali destinati a questo uso più di cento capi di bestiame grosso e cinquecento di minuto. Imponeva inoltre di non impiegare schiavi nella coltivazione dei terreni, se prima non si fosse dato, in misura proporzionale, conveniente lavoro ai contadini liberi.
I passi degli antichi scrittori (Livio, Plutarco, Velleio Patercolo, Varrone, Appiano), che ci tramandarono notizia della legge e del suo contenuto, hanno dato luogo ad infinite discussioni. Basti qui accennare che alcuni storici moderni hanno negato perfino l'esistenza della legge, sostenendo trattarsi, in sostanza, delle disposizioni della legge Sempronia agraria, proiettate indietro nell'antica storia allo scopo di dare a Tiberio Gracco l'appoggio della tradizione. Altri affermano che le disposizioni attribuite alla legge Licinia non appartengono alla Sempronia, ma a una legge intermedia posteriore al 387-367 a. C.
Sempronia I. - Fu proposta da Tiberio Sempronio Gracco (v.), eletto tribuno nel 621-133 a. C. Egli mirava principalmente:
1. a rafforzare le finanze dello stato, col pretendere da tutti i possessori di terreni pubblici l'effettivo versamento della decuma che occupanti legittimi ed illegittimi facevano a gara per non pagare, tanto più se oligarchi e, come tali, spalleggiati dalla connivenza dei magistrati;
2. a salvare il medio ceto agricolo e, con esso, la possibilità di continuare ad arruolare l'esercito fra gli abbienti, e non fra i proletarî, che sarebbero divenuti necessariamente soldati di professione e, come tali, perpetui insidiatori della libertà cittadina;
3. a trasformare in contadini i piccoli possessori, i nullatenenti disoccupati, faziosi e corrotti per necessità, diventati facile strumento di tutti gli avventurieri della politica;
4. a riportare lo stato romano sulle basi economiche originarie, per ritrovare con esse la purezza e la dignità del costume civile.
Egli compilò la sua legge, valendosi dei suggerimenti di alcuni uomini eminenti dei suoi tempi, dal celebre amico di Scipione Emiliano, C. Lelio, che aveva anni prima presentato anch'egli una proposta agraria, ritirata di fronte all'opposizione del Senato, al console Appio Claudio, al giureconsulto Crasso Muciano. La legge Sempronia agraria, attraverso un intricato labirinto di punti controversi, può essere oggi riassunta nelle disposizioni seguenti:
a) ritiro da parte dello stato, sembra senza alcun indennizzo, di tutti i possessi illegittimi, e della parte dei possessi legittimi che eccedeva i cinquecento iugeri, se il possessore non aveva figli, i settecentocinquanta iugeri se aveva un figlio, i mille iugeri se aveva due o più figli;
b) trasformazioni in possesso perpetuo della parte dei terreni pubblici occupati legittimamente nei limiti prima indicati;
c) divisione in lotti e distribuzione ai cittadini poveri, dietro pagamento di un'imposta (vectigal) e sotto la condizione dell'inalienabilità, di tutti i terreni già a libera disposizione dello stato, tranne poche eccezioni, e di tutti gli altri terreni dei quali lo stato sarebbe rientrato in possesso per il ritiro stabilito dalla legge;
d) divieto di far pascolare gratuitamente sul territorio pubblico destinato a pascolo comune più di dieci capi di bestiame grosso e cinquanta di minuto;
e) esecuzione della legge da parte di una magistratura triumvirale di nuova creazione, con pieni poteri, anche giudiziarî.
La legge fu approvata nonostante l'opposizione violenta degli oligarchi e dei finanzieri; gli Italici, pur essendo gravemente danneggiati dalle disposizioni che stabilivano il ritiro dei possessi illegittimi, sostennero Tiberio, nella speranza di ottenere da lui, in cambio dell'appoggio prestatogli, l'agognata concessione della cittadinanza romana.
Tiberio, eletto triumviro con il suocero Appio Claudio e il fratello Caio, iniziò subito l'applicazione della legge; la difficoltà e la delicatezza della materia portarono a una infinità di proteste, di reclami, di liti, sì che Tiberio, presentatosi ai comizî per essere rieletto, fu assassinato, con trecento suoi partigiani, in un tumulto provocato dagli oligarchi.
Dopo la morte del tribuno, le rivendicazioni vennero sospese, ma le assegnazioni proseguirono con i tratti del territorio pubblico destinato a pascolo (ager compascuus) che furono giudicati suscettibili di coltivazione. A Tiberio, nel triumvirato, successe il giureconsulto P. Crasso Muciano, suocero di Caio Gracco e uno fra gl'ispiratori più autorevoli della legge Sempronia. Nel 624-130 a. C., Crasso, che era stato eletto console, fu ucciso in Asia; nel frattempo era morto anche Claudio. Al loro posto vennero eletti triumviri M. Fulvio Flacco e C. Papirio Carbone che, a fianco di Caio Gracco, esaurite le risorse dell'ager compascuus e volendo ottenere altro terreno per le nuove assegnazioni, ripresero le rivendicazioni interrotte dopo la morte di Tiberio.
Gli Italici protestarono con particolare veemenza: Scipione Emiliano prese le loro difese, ottenendo che il Senato togliesse ai triumviri, per affidarla ai consoli, la giurisdizione in materia agraria, ciò che praticamente portava a sospendere sine die l'applicazione della legge Sempronia.
Fulvio Flacco cercò di disarmare l'opposizione degli Italici, proponendo nel 629-125 a. C. che venisse loro concessa la cittadinanza, ma non ebbe l'approvazione dei comizî.
Sempronia II. - Toccava a Caio Gracco, eletto tribuno nel 631-123 a. C., il compito di salvare dall'incombente naufragio l'opera agraria del fratello. Ciò che egli fece presentando una nuova legge Sempronia agraria, la quale sembra riproducesse nel suo testo quasi integralmente la legge di Tiberio; restituiva, fra l'altro, la giurisdizione ai triumviri, ma stabiliva che prima di effettuare altre rivendicazioni ed assegnazioni, si procedesse a una verifica minuziosa e generale dell'estensione del territorio pubblico trascrivendone i risultati sui libri catastali depositati nell'erario.
A tale ricognizione, che fu compiuta, doveva seguire la creazione di numerose colonie, ma Caio non riuscì a farsi nominare per la terza volta tribuno, per le ostilità suscitategli contro dalla proposta di concedere la cittadinanza agli Italici, proposta che anch'egli, come Fulvio Flacco, aveva creduto necessario di presentare, data la connessione inestricabile tra la questione agraria e quella italica. Caio fu ucciso in circostanze analoghe a quelle del fratello, poco dopo il suo insuccesso elettorale (633-121 a. C.), quando una sola delle colonie da lui sognate (Neptunia presso Taranto), aveva potuto essere fondata.
Livia II. - Il più accanito avversario di Caio fu un suo collega nel tribunale, Marco Livio Druso. Questi, per impedire l'approvazione della legge sull'estensione della cittadinanza, si era mostrato anche più favorevole del suo antagonista alla plebe romana; aveva ampliate le proposte circa le colonie italiche, ed aveva esonerato dal pagamento del tributo stabilito nella legge Sempronia gli assegnatarî dei lotti dei terreni demaniali.
Poco dopo, forse nel 634-120 a. C., un'altra legge, della quale ignoriamo il proponente, tolse il divieto di alienare i terreni assegnati.
Boria? Thoria? - Tra il 636-118 a. C. e il 643-111 a. C. abbiamo ancora una legge. Essa abolì le assegnazioni e sancì la rinunzia definitiva alle rivendicazioni volute dalla legge Sempronia, dietro corresponsione di un vectigal supplementare da pagarsi per tutti i possessi che avrebbero dovuto essere ritirati. Il provento di questa tassa doveva essere distribuito tra la plebe romana, in compenso della perduta possibilità di ottenere assegnazioni. Ne fu proponente, secondo Appiano, uno Spurio Borio che il Mommsen vorrebbe si correggesse in Spurio Torio, fondandosi su un passo enigmatico di Cicerone in De Oratore, 11, 70, che era già stato messo innanzi dal Rudorff, ma per dare il nome di Thoria alla legge immediatamente posteriore.
Thoria? - Tra il 643-111 a. C. e il 646-108 a. C. un'altra legge abolì anche il vectigal supplementare a favore della plebe. Il Rudorff (Ackergesetz des Spurius Thorius, Berlino 1839) ne attribuì, come dicemmo, la paternità a uno Spurio Torio.
A questa legge, secondo l'opinione dominante, messa in dubbio dal compilatore di questa voce (v. i lavori citati nella nota bibliografica), dovrebbero attribuirsi i frammenti di una legge agraria tramandataci dal Monumento epigrafico farnesiano (tavola di bronzo trovata a Roma a in altra città italica in un tempo anteriore al 1521 e che apparteneva alla collezione Farnese). Il contenuto di questi frammenti, interpretando alla luce degli studî più recenti la ricostruzione e l'integrazione fattane dal Rudorff nella prima metà del sec. XIX e accettata con poche varianti dagli editori successivi, può essere così riassunto:
In virtù della legge:
"diventano proprietà privata nella forma legale più assoluta (optumo iure), quindi completamente liberi e non gravati da alcuna servitù, i terreni che lo stato ha concessi ai privati in cambio di terre di loro avita proprietà;
"diventano proprietà privata, se non iure optumo, col diritto di essere venduti, lasciati in eredità, ecc., esentati dal pagamento delle imposte e tasse di qualsiasi specie, ma iscritti nel censo e perciò sottoposti al tributum, contribuzione straordinaria per sopperire a spese eccezionali rese necessarie da gravi avvenimenti minaccianti la vita dello stato:
"1. i terreni occupati legittimamente nei limiti della legge Sempronia;
"2. i terreni divisi e assegnati dai triumviri a cittadini romani che andarono a formare colonie di nuova creazione;
"3. i terreni divisi e assegnati dai triumviri a cittadini che vennero inviati, a scopo di popolamento, a far parte di municipî e colonie preesistenti;
"4. i terreni distribuiti dai triumviri senza procedere alla divisione razionale secondo i metodi dell'agrimensura romana, quando l'assegnazione risulti dai libri catastali;
"5. i terreni occupati coll'intenzione di coltivarli, in misura non superiore ai 30 iugeri, senza regolare permesso, quando non appartengano ai possessi che la legge Sempronia considerava legittimi, e perciò garantiva a un precedente occupante, e questi ne sia stato invece spossessato irregolarmente;
"6. i terreni assegnati dai triumviri in cambio di altri che erano proprietà privata o possessi legittimi.
"Sono riconosciuti validi tutti i possessi che leggi precedenti dichiararono leciti alle condizioni da esse stabilite, fra gli altri, quelli di terreni lasciati in godimento a colonie, a municipî, ai creditori della guerra annibalica (la repubblica aveva dato terre in cambio del denaro prestatole), o concessi ai frontisti delle strade pubbliche (viasii vicani). Agli effetti della legge non importa se i terreni dei quali essa si occupa siano per un modo lecito d'acquisto caduti in mani diverse da quelle del primo possessore; la legge si basa unicamente sulla posizione giuridica di questi per fissare la destinazione dei terreni.
"Sono rimessi in possesso coloro i quali furono espulsi ingiustamente con la forza da terreni che essi occupavano a buon diritto.
"Chiunque può nutrire il bestiame nel territorio destinato a pascolo pubblico, che rimane dello stato romano dopo l'applicazione della legge. L'occupazione di questo territorio è proibita; è proibito pure l'impedire a chiunque di farvi pascolare il proprio bestiame. Il pascolo è gratuito fino a dieci capi di bestiame grosso e a cinquanta di minuto, coi loro nati nell'anno. È permesso di pascere gratuitamente il bestiame nelle vie pubbliche, al solo scopo di sostentarlo durante il suo trasferimento da una località a un'altra.
"Nelle controversie relative all'agro pubblico le norme stabilite per i cittadini romani si estendono anche ai Latini, e a coloro che non sono cittadini né romani né latini.
"Sono di competenza dei consoli e dei pretori tutti i giudizî e le disposizioni riguardanti il territorio pubblico dello stato romano che, in seguito all'approvazione della legge, diventa proprietà privata; sono di competenza dei consoli, dei pretori, dei censori tutti i giudizî riguardanti il territorio che dopo l'approvazione della legge rimane ancora pubblico dello stato romano. I giudizî fra gli appaltatori delle imposte sul territorio pubblico e i contribuenti saranno presieduti dai consoli, dai pretori, dai proconsoli e dai propretori. Ai magistrati che rifiutarono di prestare giuramento a leggi precedenti, le quali dispongano altrimenti di questa, sono condonate le pene loro comminate. I magistrati che prestarono giuramento a leggi precedenti, ove queste dispongano altrimenti della presente, sono dispensati dall'osservanza del giuramento stesso".
Appuleia. - Nel 654-100 a. C., L. Appuleio Saturnino, il celebre tribuno democratico, propose che venissero distribuite ai soldati della guerra cimbrica, romani e italici, le terre che nella Gallia transpadana erano state annesse al demanio pubblico, e altre pure demaniali, in Sicilia, in Macedonia. Ove questi terreni non fossero stati sufficienti alle ampie assegnazioni progettate, ne dovevano essere acquistati, a spese dello stato, altri appartenenti a privati. Per tali acquisti sarebbe stato impiegato il cosiddetto Tesoro di Tolosa, ossia le ricchezze predate a Tolosa da Q. Servilio Cepione. La legge fu approvata fra gravi tumulti, e nonostante l'opposizione vivissima del Senato. Qualche mese dopo, Saturnino fu trucidato col collega Glaucia, e la legge fu abrogata prima che ne fosse stata iniziata l'applicazione.
Titia. - Proposta nel 655-99 a. C. da Sesto Tizio, tribuno della plebe, allo scopo di distribuire terre al popolo. Fu presentata ai comizî e approvata, nonostante il veto di altri tribuni e l'opposizione di Antonio, console in carica. Il Senato l'annullò, pare senza gravi resistenze del presentatore e del popolo, valendosi di un pretesto di carattere religioso.
Livia II. - Fu presentata nel 663-91 a. C. dal tribuno della plebe M. Livio Druso, figlio di Druso, l'oppositore di Caio Gracco, d'accordo con la frazione progressista del Senato. Contemplava la fondazione di colonie da crearsi in Italia e in Sicilia:
a) coi terreni pubblici occupati sine iusta causa da cittadini romani e italici;
b) coi terreni pubblici affittati dai censori, fra i quali il famoso ager campanus (territorio di Capua). Una commissione di decemviri doveva provvedere all'esecuzione della legge.
La legge fu votata nei comizî, ma annullata dal Senato per difetto di forma. Druso tentò di applicarla lo stesso, fece nominare la commissione decemvirale, ma poco dopo venne ucciso da mano ignota.
Corneliae. - Emanate negli anni 672-82 a. C., 673-81 a. C. da L. Cornelio Silla, in base ai pieni poteri conferitigli con la lex Valeria. Il dittatore aveva proceduto ad immense confische di terre nella guerra sociale e nella guerra civile. Parte le fece vendere per un prezzo irrisorio ai suoi partigiani, o le lasciò addirittura occupare da persone a lui gradite senza alcun corrispettivo a vantaggio dello stato. Altri terreni assegnò invece ai suoi veterani, circa 120.000, in parcelle inalienabili.
Servilia. - Proposta nel 690-64 a. C. dal tribuno P. Servilio Rullo, ispirato dai democratici, e principalmente da Cesare, che volevano con essa intimidire l'aristocrazia e procacciarsi maggior seguito fra il popolo, fu combattuta da Cicerone, allora console, in tre discorsi che ci sono stati conservati in grandissima parte. La legge riconosceva pienamente valide tutte le vendite effettuate dallo stato, quindi anche le Sillane, e tutte le occupazioni permesse dallo stato; stabiliva poi la vendita di tutte le terre restate ancora in possesso dello stato, tranne alcune eccezioni.
Coi proventi di questa vendita, con quelli di un vectigal supplementare da imporsi sulle terre rimaste ancora in possesso del demanio, e con altre entrate pubbliche, lo stato avrebbe provveduto all'acquisto di terre da assegnarsi a cittadini poveri. La legge doveva essere applicata da una commissione decemvirale, con poteri amplissimi.
Rullo, mal sopportando gli strali dell'eloquenza ciceroniana e prevedendo una sconfitta inevitabile, ritirò la sua proposta prima che fosse messa in votazione.
Iulia. - Fu presentata nel 695-59 a. C. da Caio Giulio Cesare, eletto console con l'aiuto di Pompeo e di Crasso. Essa conferma le vendite e le occupazioni Sillane; delibera assegnazioni inalienabili per venti anni a favore di cittadini poveri con almeno tre figlioli, e da effettuarsi con tutte le terre italiche ancora in possesso del demanio e che erano principalmente costituite dall'ager campanus e dal campus stellatis (tra il Volturno e il Savone). Ove queste non fossero bastate, la commissione esecutrice della legge era autorizzata a fare acquisti di terreni dai privati a un prezzo conforme alla stima dell'ultimo censo, e a spese pubbliche, cioè con le nuove rendite acquistate dallo stato, grazie alle conquiste asiatiche di Pompeo. La legge fu approvata non ostante l'ostilità del Senato. Nel solo ager campanus vennero fatte 20.000 assegnazioni in lotti di 10 iugeri; nel campus stellatis i lotti furono invece di 12 iugeri, sembra per la minor fertilità del terreno.
In seno alla commissione esecutrice, composta di venti membri, si costituirono forse sub-commissioni di quinqueviri, una delle quali, secondo il Mommsen, sarebbe l'autrice della legge Mamilia, Roscia, Peducaea, Alliena, Fabia, un frammento della quale è riportata negli scritti degli agrimensori romani, legge che, a quanto pare, avrebbe contenuto soltanto un elenco di regole pratiche da seguirsi nel fondare colonie e procedere ad assegnazioni.
Il Fabricius (Über die Lex Mamilia, ecc., Heidelberg 1924), crede invece che questa legge debba attribuirsi a C. Mamilio, tribuno nel 645-109 a. C., e che concerna la sistemazione agrimensoria del territorio italico dopo i rivolgimenti dell'epoca graccana.
Antonia. - Quando morì Cesare, Marco Antonio, che era console, propose subito una lex Antonia de coloniis deducendis allo scopo di quietare i veterani del defunto dittatore che si trovavano nell'Urbe in attesa che si provvedesse alla loro sorte.
Per iniziare l'esecuzione della legge coloniaria, esecuzione che i veterani imponevano sollecita, Marco Antonio fece presentare dal fratello Lucio e approvare dai comizî una lex Antonia agraria, la quale stabiliva che le assegnazioni si sarebbero effettuate:
1. con i pochi terreni demaniali ancora disponibili;
2. con il territorio delle Paludi Pontine, che avrebbero dovuto essere bonificate in modo da rendere possibile la coltivazione;
3. con le terre demaniali occupate illegittimamente o acquistate da privati per un prezzo inadeguato, ossia con le terre vendute o lasciate occupare da Silla, che Cesare nella sua lex Iulia non aveva voluto toccare.
All'applicazione della legge doveva provvedere una commissione di septemviri presieduta da Lucio Antonio, a far parte della quale fu nominato Marco. La legge Antonia agraria fu abolita l'anno seguente 711-43 a. C. Anche la coloniaria subì la stessa sorte.
Fonti: Gli storici del periodo repubblicano, principalmente Livio e Dionigi d'Alicarnasso per le leggi più antiche, Appiano Alessandrino (Delle guerre civili dei Romani), per le posteriori. Notizie sull'una o sull'altra legge si trovano disseminate nelle vite di Plutarco, nelle opere di Cicerone, di Varrone, di Sallustio, di Diodoro Siculo, di Velleio Patercolo, nelle fonti dell'antico diritto romano anteriore a Giustiniano (Riccobono, Baviera e Ferrini, Fontes iuris romani anteiustinianei, Firenze 1909), nel Digesto e, in genere, in tutti glì scritti politici, giuridici ed economici dell'età romana che sono pervenuti sino a noi. Luce particolare sull'intricata materia portano le regole degli antichi agrimensori romani (Schriften der röm. Feldmesser, ed. da Blume, Lachmann, Mommsen, Rudorff, Berlino 1848, 1852), e i monumenti epigrafici raccolti nel Corpus Inscriptionum Latinarum (Berlino 1863): primo fra tutti la tavola farnesiana.
Bibl.: Degl'innumerevoli scrittori moderni che si sono occupati dell'argomento crediamo necessario indicare, fra gli stranieri, almeno i seguenti: T. Mommsen, Römische Geschichte, Berlino 1888-89 (traduzione italiana di L. Di San Giusto con note di E. Pais, Torino 1902-05); B. Niese, Grundriss der römischen Geschichte nebst Quellenkunde, Monaco 1910 (traduzione italiana e note di Carlo Longo, Milano 1921); M. Weber, Agrargerschichte, Stoccarda 1891 (versione italiana in Pareto, Biblioteca di storia economica, Milano 1907, II, 2); Frank Tenney, An economic history of Rome, 2ª ed., 1927 (traduzione italiana di B. Lavagnini sulla 1ª ed., Firenze 1923); G. Bloch, La république Romaine: Les conflits politiques et sociaux, Parigi 1913; E. G. Hardy, Roman laws and charters translated with introduction and notes, Oxford 1912; W. E. Heitland, The Roman republic, Cambridge 1909. Fra gli scrittori italiani che in questi ultimi anni dedicarono la loro attività allo studio delle leggi agrarie romane troviamo: E. De Ruggiero, autore di un'ampia monografia pubblicata nella Enciclopedia giuridica italiana alla voce Agrariae leges, considerata tuttora come fondamentale; altre preziose notizie sull'argomento si trovano nel suo Dizionario epigrafico di antichità romane, Roma 1886; P. Bonfante, Storia del diritto romano, 3ª ed., Milano 1923; G. Cardinali, Studi Graccani, Genova 1912; E. Ciccotti, Antiche leggi e lotte agrarie, in Rivista d'Italia, 1922, fasc. 2; G. De Sanctis, Storia dei Romani, Torino 1907; G. Ferrero e C. Barbagallo, Roma antica, Firenze 1921; P. Fraccaro, Studi sull'età dei Gracchi, Città di Castello 1914; E. Pais, Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli, Roma 1913-1920; id., Storia di Roma durante le guerre puniche, Roma 1927; P. Terruzzi, La legislazione agraria in Italia all'epoca dei Gracchi, in Rivista d'Italia, 1926, fasc. V; id., Studi sulla legislazione agraria di Roma. Enigmi graccani, e post-graccani,in Archivio giuridico, 1927, fasc. i.