LEGISLAZIONE ARTISTICA nell'antichità
Con questa espressione si intendono tutti i provvedimenti adottati nell'antichità dai detentori del potere normativo statuale nel vasto campo dell'arte; perciò in essa rientrano (nn. 1; 2) non solo i provvedimenti intesi alla tutela dell'interesse artistico quale è sentito dalla collettività sia nell'opera in sé, sia nella sua funzione di decorazione ed ornamento dell'edificio, sia come elemento del decoro urbanistico in generale; ma vi rientrano altresì (n. 3) i provvedimenti intesi alla disciplina dell'esecuzione dell'opera e alla tutela del diritto dell'autore dell'opera d'arte nei riguardi delle copie e delle imitazioni.
1. - Per quel che riguarda la prima categoria di provvedimenti normativi che costituiscono la parte più importante della legislazione artistica nell'antichità, si deve fin d'ora mettere in evidenza che questa legislazione si differenzia sostanzialmente da quella moderna in cui si articola la tutela delle cose di interesse artistico e storico.
Nell'antichità l'opera sorge funzionalmente nel senso che l'artista la crea per una sua destinazione decorativa di edifici pubblici o privati o commemorativa di avvenimenti e di fatti importanti nella vita dello Stato, ed i provvedimenti normativi hanno lo scopo prevalente di assicurare alla collettività l'opera d'arte nella sua funzionalità. Si prescinde quindi da una valutazione astratta dell'opera in relazione a quello che può essere l'interesse artistico sentito dalla collettività in base all'apprezzamento critico dell'autore o al decorso del tempo secondo una valutazione storico-artistica.
Non si può dire quindi che nell'antichità questo concetto della tutela dell'interesse artistico, così come è nell'attuale legislazione, fosse ancora formulato, anche perché vi sono elementi che possono essere valutati solo in una società con particolare sviluppo sociale, culturale e giuridico. Si può anzi dire che questa prospettiva storica, per la quale l'oggetto o il monumento antico si vedono con distacco, come testimonianza del passato, e se ne opera la selezione e si giudica in base a un criterio estetico che ha canoni proprî, sia un prodotto dell'età rinascimentale.
Si possono tuttavia trovare negli ordinamenti giuridici delle antiche organizzazioni statuali disposizioni che riguardano la disciplina relativa alla costruzione, manutenzione e restauro di edifici di culto o civili, e alla posizione e spostamenti di elementi decorativi, soprattutto statue. Non si riscontra mai, anche nel sistema giuridico più evoluto, quello romano, una valutazione degli immobili e mobili dal punto di vista puramente artistico, come è oggi invece prevista dalle moderne leggi in materia; ma il criterio del decoro e della dignità delle costruzioni è quello che prevale.
Naturalmente tali preoccupazioni sono estranee a società organizzate in modo primitivo; non si ritrovano presso popoli organizzati su base feudale (come la Cina o l'India), né si ritrovano nelle poche norme rimaste a testimonianza degli ordinamenti del popolo ebreo, che era organizzato come società agricola; più tardi gli esegeti del diritto ebraico risentirono di quello romano e quindi è a questo che conviene riferirsi.
Si direbbe che questa legislazione sia un prodotto della organizzazione cittadina, e non è da escludere che se fossero giunti a noi gli ordinamenti interni delle antiche città orientali, delle quali si suppone che godessero di una certa autonomia, avremmo trovato anche in quelli spunti per una disciplina edilizia e per la protezione dell'aspetto estetico della città.
Come criterio generale c'è da osservare che essendo il diritto presso gli antichi popoli confuso con la religione e con la morale, ed essendo molto spesso il potere politico rivestito di religiosità, il rispetto che si doveva avere per i templi, per le grandi costruzioni (mura, acquedotti, palazzi signorili) era basato soprattutto su di un principio di inviolabilità che prescindeva completamente da ogni valutazione, sia pure approssimativa, dell'aspetto estetico e del valore artistico dei monumenti.
Soltanto con i Greci si ha una scissione fra il valore simbolico religioso e morale dei monumenti e degli edifici; si cominciano a considerare non tanto da un punto di vista estetico, quanto dal punto di vista dell'uso che il pubblico ne poteva fare.
La organizzazione delle città greche, con il popolo che prendeva parte diretta al governo della cosa pubblica, creò la condizione più favorevole perché si ristabilissero misure di vigilanza per la conservazione dei monumenti cittadini.
Inoltre anche in occasione delle gare artistiche che accompagnavano le grandi feste religiose del popolo greco si istituivano gallerie di opere d'arte, spesso temporanee, ma talora permanenti, come quella galleria di pittura che esisteva sull'Acropoli nel V sec. a. C.
È noto che presso i Greci non si formò una legislazione elaborata come presso i Romani. Le fonti per la conoscenza dei loro ordinamenti sono gli scritti di storici, di oratori ed anche commedie e opere di filosofia. Ma poiché le molte città greche finirono per rendere relativamente omogenee le loro strutture amministrative, si può ritenere che ogni città avesse particolari magistrati ai quali spettava la vigilanza e la tutela dell'aspetto della città (manutenzione di strade, di edifici pubblici, vigilanza sui privati). La magistratura cui erano attribuiti questi compiti si chiamava in genere con il nome di ἀστυνόμοι; questi possono essere paragonati, come gli ἀγορανόμοι (essenzialmente polizia dei mercati) agli edili di Roma. Li troviamo ad Amyros, Atene, Cnido, Eraclea di Bitinia, Olbia, Rodi, Sinope, Tino, Teutramia, ecc. Aristotile (Polit., vi, 5, 3) ci dice quali erano in genere le loro attribuzioni; vigilavano affinché nella città tutte le proprietà sia dello Stato sia dei privati, fossero in buon ordine, facevano consolidare e riparare gli edifici che minacciavano di crollare, presiedevano alla manutenzione delle vie pubbliche, facevano rispettare i limiti delle proprietà prevenendo le liti.
Anche Platone (Leg., vi) nella sua repubblica, in cui universalizza le istituzioni più efficienti dell'ordinamento giuridico ateniese, attribuisce agli astynòmoi la pulizia degli edifici, delle vie pubbliche ed altri compiti simili; fra l'altro dice che gli astynòmoi obbligheranno i cittadini a conformarsi alle leggi nella costruzione dei loro edifici (v. anche platone).
Anche nella codificazione giustinianea che estende il suo vigore a tutto l'Impero si parla di questa magistratura (Papiniano, D. 43, 10, De via publica, 1).
Né presso i Romani, e nemmeno con Giustiniano, si giunge a formulare in principî giuridici quel che oggi viene inteso come interesse artistico; però si crea tutta una serie di disposizioni in cui si riconosce la proprietà pubblica dei monumenti, si limita il potere di disposizione dei privati, si disciplinano le modalità di restauro e ricostruzione di antichi edifici, chiedendone il rispetto. Si formano in sostanza molti di quei presupposti giuridici che anche oggi sono a fondamento della disciplina relativa alla protezione del patrimonio artistico.
2. - Noi ci atteniamo alle fonti normative documentate, per cui prescindiamo dalle testimonianze come quella di Dionigi di Alicarnasso (Storie, ii, cap. 28) da cui si desume che nell'epoca dei re mancassero magistrature preposte alla conservazione degli edifici, delle vie e del loro decoro. Tuttavia è opportuno distinguere nei riguardi della legislazione romana tra le grandi codificazioni del V e VI sec. d. C. e il complesso normativo della Repubblica e del primo Impero che possianio ricavare in parte dagli storici e dalla conoscenza di singoli testi legislativi e dalla ricostruzione consentita dalle grandi codificazioni sopra ricordate.
Nell'epoca repubblicana troviamo gli aediles che insieme con i tribuni della plebe vigilavano sulla riparazione e la costruzione degli edifici pubblici, dei templi, ecc. come anche in certe feste dovevano ornare forum (Liv., ix, 40, 46, xxiv, 37); Cicerone (Actio in Verrem II, iv, 3, 6) parla di un edile "cuius aedilitas tam magnificentissima scimus fuisse" e dice che Verre prendendo motivo da feste pubbliche "ornamenta ablata ex urbibus sociorum atque amicorum per simulationem aedilitatis domum deinde ad suas villas auferebat".
E lo stesso Cicerone, nell'Actio in Verrem sopra citata, anche se dichiara di essersi occupato soltanto per ragioni di processo di cose attinenti all'arte e alla letteratura greca, forse per espediente curialesco, tuttavia lascia intendere che esisteva anche un patrimonio artistico privato che "erat non domino magis ornamento quam civitati" e la cui tutela era oggetto appunto degli edili.
Gli edili provvedevano anche, secondo quanto si legge in Varrone (De lingua Latina, v, 81), a che fosse assicurato l'allineamento delle case sulla via pubblica. Successivamente questo istituto viene esteso e adeguato all'ordinamento delle colonie e dei municipî, con le stesse attribuzioni, che si riassumono nella cura urbis con la lex Julia municipalis (45 a. C.) e si hanno aediles coloniarum et municipiorum.
Al principio del III secolo l'edilità romana era in piena decadenza poiché si ha un accentramento da parte del governo centrale per cui gli aediles tendono ad essere sostituiti dai curatores. Tuttavia nel IV secolo Papiniano scriveva un trattato De cura urbium dai frammenti del quale si deduce che l'edilità, pur esistendo ancora come istituzione, era svuotata di quasi tutto il suo contenuto di attribuzioni.
Attraverso il logorarsi degli istituti originarî con l'estendersi dell'ordinamento dell'Impero, si giunge alle grandi codificazioni nelle quali la disciplina artistica trova espressione o in interi titoli o in frammenti sparsi che solo incidentalmente riguardano questa materia.
Così nel Codice Teodosiano troviamo un titolo dedicato alle opere pubbliche (15, 1 De operibus publicis); in esso è previsto il divieto di asportare dalla città gli ornamenti e risulta altresì che vi erano dei giudici per decidere circa la destinazione degli ornamenti stessi (Cod. Th., id., 1).
Risulta inoltre che Valente Graziano e Valentiniano disposero che in materia di tutela del decoro cittadino non potessero valere né la prescrizione di diritto pubblico e nemmeno i rescritti imperiali; e che pertanto dovevano essere demolite tutte quelle cose che nelle città, nel Foro o in qualunque pubblico luogo sono state costruite "contra ornatum et commodum atque decoram faciem" (Cod. Th., id., 22).
Inoltre è detto che "turpe est publici splendoris ornatum privatarum aedium adiectione corrumpi ut ea quae conspicuae urbis decori vei nostri temporis vel prioris saeculi aetate creverunt" (Cod. Th., id., 25), donde l'obbligo della rimozione di costruzioni abusive a vantaggio di costruzioni considerate indispensabili per la conservazione del civico decoro. In altre parti dello stesso titolo è prevista la proibizione dello spostamento di materiali e, in particolare, di marmi ornamentali dagli edifici pubblici (God. Th., id., 36 e 43).
Tutta questa legislazione che è di un'epoca di trapasso, trova la sua giustificazione nel fatto che con il decadere della civiltà pagana anche le cose immobili e mobili che di questa civiltà erano l'espressione, diventano oggetto di avido impossessamento da parte di cittadini senza scrupolo che vengono a trovarsi favoriti dagli stessi cristiani i quali rimangono indifferenti, quando addirittura non favoriscono la demolizione e la dispersione di tutto quello che rappresenta la paganità. Già con un suo editto Onorio, mentre proibiva i sacrifici, vietava che fossero atterrate, sotto il pretesto di distruggere gli idoli ed i loro templi, anche le statue che costituivano ornamento dei pubblici edifici (Cod. Th., 16, 10 De paganis sacrificis et templis, 15).
Dopo Teodosio, particolarmente importante è la Novella Divi Maiorani (Post Theod. Novellarum Divi Maiorani, vi, De aeduificiis publicis) nella quale si pongono limitazioni ai privati di costruire con materiale ricavato fraudolentemente dalla demolizione di edifici sacri e profani particolarmente decorati.
Già in queste norme contenute nel Codice Teodosiano noi possiamo renderci conto come la proprietà privata incontrasse particolari limitazioni tutte le volte che motivi di pubblico interesse richiedevano la protezione di quelle opere che, pur prescindendo da una loro valutazione artistica vera e propria, si consideravano elementi di pubblico decoro e di civico ornamento.
Questi principî che noi abbiamo colto nel Codice Teodosiano li troviamo ripetuti nel Codice giustinianeo e nel Digesto.
Nel Codice le disposizioni in materia si trovano in due titoli del libro ottavo: 8, 10, De aedificiis privatis e 8, 11 De operibus publicis. Nel titolo De aedificiis privatis (8, 10) è ricordato l'editto di Vespasiano in base al quale era fatto divieto di demolire edifici e trarne marmi a scopo di lucro, anche se il trasferimento fosse fatto a vantaggio di altro edificio dello stesso proprietario, perché sia salvaguardato publicus adspectus (C. id., 2); è poi disposto che debba essere espropriata la casa nella quale siano stati trasportati marmi ed ornamenti di altro edificio pubblico o privato (C. id., 6); e in ogni caso è vietata l'esportazione di marmi ornamentali fra le province dell'Impero (C. id., 7). Nel titolo De operibus publicis (8, 11) sono ripetute molte delle disposizioni contenute nel Codice Teodosiano; fra le più interessanti è quella in cui è sancito il divieto di sovrapporre le immagini e i dipinti onorarî in "basilicam inauratam et marmoribus decoratam".
Nel Digesto dato il carattere sostanzialmente diverso della compilazione rispetto al Codice e la sua prevalente impostazione privatistica, i frammenti riguardanti questa materia non si trovano riuniti in titoli particolari, ma nei titoli relativi all'acquisto della proprietà, alle alienazioni, ai legati, ecc.; cioè in sostanza le limitazioni poste nell'interesse pubblico sono prese in considerazione sotto il profilo della manifestazione di volontà del proprietario o del possessore.
Si trova il divieto di tenere le case in condizioni non decorose (Dig., 1, 18, 7) e si impone ai proprietari di ripristinarle etiam inviti; è fatto altresì divieto ai privati di demolire i proprî edifici, per alienarne i marmi e le statue sotto pena della nullità della vendita per il venditore e della multa corrispondente al doppio del valore della cosa comprata per l'acquirente (Dig., 18, 1, 52). Si trova poi il divieto di staccare dagli edifici pubblici e privati, di Roma e delle altre città, marmi e colonne per venderle, di disporne disgiuntamente dagli edifici che li contenevano, di alienare e legare biblioteche, statue, dipinti anche non aderenti alle pareti, quando siano stati destinati ad uso perpetuo dal padre di famiglia (Dig., 30, 1; 41, 4) in due soli casi il proprietario poteva separare le statue, i dipinti, le biblioteche dagli edifici in cui si trovavano e precisamente quando il distacco avvenisse per destinare gli oggetti stessi ad uso dello Stato o della collettività o comunque ad opera pubblica (Dig., 30, 41, 4 ss.).
Se una statua fosse stata esportata vi aut clam da un luogo pubblico, i cittadini avevano l'actio furti essendo considerata la statua come publicata (Dig., 43, 24, 11, 1, 2).
Di notevole importanza è inoltre il principio che si trova affermato, secondo il quale una cosa che fosse stata una volta di pubblico interesse non potesse tornare al privato, come è detto in Dig., 44, 1, 23: "Paulus: si quis statuam in municipio ea mente posuit, ut ea municipii esset, et eam petere vult: excludi eum oportet praescriptione in factum data". E ciò perché "quod publicum fuit aliquando, minime sit privatum".
È infine importante mettere in evidenza, anche per i suoi riflessi nel diritto moderno, l'istituto del legato ad patriam così come risulta dal frammento Dig., 34, 2, 6, 2: "Lucius Titius in testamento ita scripsit: Haeredem meum volo, fideique eius committo, ut in patriam meam faciat porticum publicam; in qua poni volo imagines argenteas, item marmoreas. Quaero an legatum valeat.
Marcellus respondit, valere: et operis ceterorumque, quae ibi testator poni voluerit legatum ad patriam pertinere intellegi: enim potuit aliquod civitati accedere ornamentum".
3. - Per quel che riguarda la tutela dell'esecuzione dell'opera e del diritto di autore, dobbiamo anzitutto rilevare che nell'antica Grecia l'artista si trovava in una condizione che è molto difficile delineare: situazione confusa perché cambia non soltanto in relazione alle diverse fasi della vita politica anche nello stesso periodo, ma altresì con gli usi e con le norme così diverse da città a città e soprattutto con lo stato libero o di schiavo dell'individuo. E questa varietà di situazioni spiega anche le divergenze che si riscontrano a questo riguardo, negli scrittori, in merito alla valutazione degli artisti nella società (Plut., Pericl., 2; Aristot., Polit., iii, 3, 2; Plato, Leg., viii; Lucian., Somn., 9). Non è questa la sede per soffermarsi su questo aspetto dell'argomento; quello che importa rilevare è che per l'artista greco tutto si riduceva alla proprietà materiale per cui una volta venduta egli perdeva ogni possibilità di guadagno da eventuali riproduzioni le quali peraltro potevano essere liberamente fatte oltre che dall'autore, da chiunque, specialmente se l'originale era di bronzo. Tuttavia valeva il principio che l'opera una volta creata doveva essere goduta da tutti e quindi l'autore non poteva onestamente trarne profitto sotto forma di un diritto di entrata imposto al pubblico.
L'epiteto sprezzante di "cortigiana", attribuito all'opera di Zeusi rappresentante Elena, perché il suo autore aveva preteso un tributo pecuniario da coloro che volevano ammirarla, dimostra l'avversione popolare per questa retribuzione che, se da un lato può apparire legittima, contrastava con le idee del tempo. D'altra parte presso i Greci erano frequenti sotto i portici, nei teatri, ai giochi olimpici, le esposizioni artistiche che costituivano godimento estetico offerto gratuitamente a tutti. Al di fuori di talune prescrizioni intese a reprimere la riproduzione dei sigilli delle monete come reato contro lo Stato non vi è nulla presso i Greci che indichi l'esistenza del diritto di autore.
Poiché la maggior parte delle opere d'arte greche era destinata all'uso pubblico, non è senza interesse ricordare che lo Stato o la città attribuiva agli artisti l'esecuzione delle opere nella forma del concorso, dell'ordinazione e in una forma più vicina a quella che modernamente si chiama l'appalto. Con il concorso lo Stato proponeva il soggetto e acquistava l'opera scelta da una commissione popolare; con l'ordinazione l'artista scelto dall'assemblea popolare dopo discussione nell'agorà, riceveva le indicazioni relative all'esecuzione dell'oggetto; infine l'appalto, usato soprattutto per i grandi monumenti, che veniva assegnato secondo piani e progetti e che si assumeva o per atto di sottomissione o per nomina ufficiale. L'artista così incaricato di un'opera era sottoposto alle stesse obbligazioni di un contabile pubblico: cioè versamento di una cauzione, rendimento del conto (Strab., Geogr., ix, 395).
Per quel che riguarda i Romani, la legge non ha avuto occasione di occuparsi dell'arte sotto il profilo dell'esecuzione dell'opera poiché questa attività era considerata incompatibile con la romana gravitas ed era ritenuta come limitata agli schiavi ed agli stranieri; non si può fare a meno di rilevare una certa assenza di sentimento artistico presso i Romani. Il loro amore per le opere d'arte, quando si sviluppa, si rivela come passione di collezionisti per cui essi sentivano allora il possesso dell'opera come un segno di ricchezza; in mancanza dell'originale una copia ben imitata era per loro sufficiente ed apprezzata come un'opera nuova. D'altra parte poiché da ogni regione conquistata affluivano opere d'arte, i Romani non erano necessariamente portati a norme di tutela di un'arte nazionale. Anche per i Romani tuttavia quando l'opera veniva eseguita, l'autore lavorava generalmente su ordinazione assoggettandosi alle norme della locazione di opera o di servizi. Quando l'autore impiegava la sua capacità mediante salario e per conto dell'imprenditore per la decorazione di uffici (affreschi, pitture decorative) o alla produzione di oggetti d'arte, si aveva una locatio o condutio operarum mentre si aveva una locatio operis faciendi quando l'artista si impegnava a compiere un'opera determinata. Ma oltre al prezzo di vendita non era previsto alcun beneficio in caso di riproduzione e nemmeno era proibita la contraffazione. Anzi diremmo che per le arti plastiche la contraffazione a Roma era una regola e rientrava nella legalità. Plinio (Nat. hist., xxxiv, 47) ci parla di due coppe di Kalamis imitate da Zenodoros così perfettamente che non si potevano distinguere dagli originali.
Bibl.: Gairal de Serézin, Les oeuvres d'art et le droit, Parigi 1900 e le opere ivi citate; U. E. Paoli, in Novissimo Digesto Italiano, I, Torino 1957, s. v. ᾿Αστυνόμοι.