Legislazione e codificazione
Dall’invasione longobarda del 568, con l’unità politica della penisola era venuta meno anche quella giuridica tramandata dal mondo romano. Se le leggi dell’antico Impero simboleggiate dalla codificazione giustinianea, recepita in Italia al termine della guerra greco-gotica, erano ancora parzialmente in vigore, le antiche norme germaniche e in specie longobarde e franche, gli editti e le costituzioni del Sacro Romano Impero, le norme emanate nel tempo dai sovrani degli ordinamenti particolari, la legislazione statutaria di comuni e di corporazioni si affiancavano al diritto romano e al canonico, pur considerati dai giuristi il fulcro del sistema normativo. Di qui il generarsi di una notevole confusione perdurata attraverso i secoli e aggravata dall’operato della giurisprudenza, libera nelle sue interpretazioni, anche per l’assenza o le carenze di legislazioni statali capaci di controllare o almeno di coordinare le varie opiniones doctorum, tra loro spesso discordi.
Tali quindi le basi giuridiche sulle quali si doveva regolare la vita sociale del paese in quella che viene definita l’età del diritto comune, un’età che non pochi, già dalla fine del Seicento, consideravano al tramonto. Gian Vincenzo Gravina, pur imbevuto di venerazione per il diritto e la lingua romana, aveva sottolineato l’opportunità di giungere a una sistemazione razionale del diritto applicato. Il cardinale Giambattista De Luca nel suo Dottor volgare (1673) aveva propugnato insieme l’utilizzazione della lingua parlata da tutti e una semplificazione delle normative vigenti. Ludovico Antonio Muratori non aveva esitato nel suo libro Dei difetti della giurisprudenza (1742) a condannare princìpi e metodi di un sistema giuridico che tanto spazio lasciava all’opinio doctorum, da lui ritenuta contrastante con un vivere civile ben ordinato.
La diffusione delle idee razionaliste dell’Illuminismo, favorita anche dai contatti col mondo d’oltralpe – dove la monarchia francese d’antico regime con le Ordonnances royales aveva avviato, sia pur con difficoltà, un’opera di sistemazione di alcune branche del diritto nel tentativo di semplificarne la cognizione e l’applicazione –, rese ancor più forte nella seconda metà del Settecento l’insofferenza per il sistema normativo vigente nelle diverse aree della penisola italiana. Di qui lo scatenarsi di una forte polemica contro quel sistema e contro il diritto romano che ne era il fulcro essenziale. Gli scritti dei fratelli Verri, di Cesare Beccaria, di Giacomo Ugo Botton di Castellamonte, di Melchiorre Delfico e di non pochi altri testimoniavano l’insofferenza generalmente diffusa verso la tradizione giuridica recepita. Costoro al tempo stesso auspicavano l’avvento di un nuovo sistema normativo fondato su criteri semplici, chiari e razionali, e comprensibile al popolo che non conosceva il latino del diritto romano e dei suoi interpreti.
La rivoluzione francese e il crollo dell’antico regime nella nazione d’oltralpe portarono all’integrale mutamento della legislazione vigente in quel paese, rapidamente sostituita dal droit intermédiaire, ossia dalle nuove normative via via emanate dalle assemblee rivoluzionarie susseguitesi dalla Costituente del 1789 alla Convenzione del 1793 al Corpo legislativo del 1795, e implicarono anche in Italia la crescita e la diffusione delle aspirazioni a una radicale riforma del diritto vigente.
Tale aspirazione, anche se non poté realizzarsi nel triennio rivoluzionario per la precarietà della vicenda delle repubbliche giacobine e la brevità della loro esistenza, contribuì fortemente alla diffusione dei nuovi princìpi in materia giuridica. La presa di coscienza di quanto avveniva in Francia, la pubblicistica dell’epoca e soprattutto i dibattiti nelle assemblee, specie della Cisalpina, fecero sentire alla parte dell’opinione pubblica intellettualmente più dotata la necessità e l’urgenza di ottenere una nuova legislazione capace di favorire il progresso civile e la crescita sociale.
Dopo il 18 brumaio e l’avvento al potere di Napoleone Bonaparte, che con la vittoria di Marengo aveva iniziato la riconquista della penisola italiana, la Francia cominciò ad avviare il processo di razionalizzazione e di costruzione della nuova legislazione che sarebbe culminato con la formazione del Code civil e degli altri codici che lo affiancavano. Fu questa, come è universalmente riconosciuto, un’opera immane, paragonabile per la sua portata, il suo valore e il suo significato soltanto a quella che nell’Impero d’Oriente del VI secolo aveva realizzato Giustiniano con la compilazione del Corpus iuris civilis.
Le tecniche normative elaborate nella preparazione dei diversi codici, la sistematica usata per l’inserimento in essi dei contenuti giuridici più rispondenti ai tempi e gli itinera procedurali seguiti non solo nella stesura ma anche, e soprattutto, per il controllo dei loro dettati, li elevavano al rango di un’opera di fatto ineguagliabile, non paragonabile quindi ad altre opere legislative concepite o anche realizzate in altri ambienti. La modernità del Code civil, fulcro e simbolo dell’intero sistema legislativo introdotto dal governo napoleonico, appariva infatti in tutta evidenza e rifletteva i princìpi essenziali che ispiravano le sue norme.
Questi erano essenzialmente tre: l’autonomia negoziale dei singoli, ovvero la loro libertà di contrarre a tutti i livelli; la libertà dei beni, ossia la loro illimitata possibilità di circolazione; e infine, chiaramente garantita nella sua formulazione, la tutela di ogni diritto personale e patrimoniale. Gli altri codici emanati successivamente, il Code de procédure, il Code pénal, il Code de commerce e il Code d’instruction criminelle contribuivano a dare completezza e organicità all’intero ordinamento giuridico della Francia moderna, ormai protesa, in nome dell’ideologia rivoluzionaria recepita dall’Impero, all’espansione oltre il Reno e le Alpi.
In pochi anni, dopo la vittoria di Marengo, l’intera penisola italiana, a eccezione delle isole di Sardegna e di Sicilia, venne conquistata dalle armate francesi che cancellarono gli antichi poteri conferendole un nuovo assetto politico che, pur non eliminando completamente il particolarismo statale preesistente, diede alle sue diverse regioni un ordinamento fondato sui modelli realizzati oltralpe. La Francia della rivoluzione e dell’Impero infatti, nell’opinione di quegli italiani che avevano lungamente auspicato la trasformazione in senso moderno della società in cui vivevano, era apparsa più che mai la nazione guida in materia giuridica e politica. La prassi di governo del suo regime autoritario ma non dispotico, gli istituti della sua amministrazione centralistica ed efficiente, i contenuti della sua legislazione fondata sulla codificazione del diritto apparivano esemplari e imitabili nell’interesse delle popolazioni sottratte all’antico regime.
Di qui la loro recezione nelle aree della penisola variamente soggette all’egemonia francese, sia in quelle direttamente annesse all’Impero, sia in quelle formalmente indipendenti come il Regno d’Italia o il Mezzogiorno continentale, strettamente legati però al potere napoleonico dal cui volere derivavano le decisioni del potere.
Nella sua visione di un impero more geometrico ordinato Napoleone riteneva del tutto logico che anche le varie aree della penisola italiana fossero soggette, almeno di massima, ai canoni legislativi sui quali si reggeva la società francese, e che pertanto legislazione e codici vi dovessero essere recepiti. Ciò avvenne senza grandi contrasti, con le sole riserve di quella parte dell’ambiente cattolico che non accettava i princìpi laici del Code civil e degli abitanti dei territori dell’Alto Adige che risentivano dell’influsso della resistenza germanica all’introduzione di una legislazione sentita come straniera ed estranea alle loro tradizioni.
L’impatto della recezione della legislazione e dei codici francesi fu, comunque, assai forte e il paese, o meglio quella parte della società più aperta e meno legata al passato, li considerò un veicolo di progresso e di crescita civile. Fatto, questo, che contribuì non poco, dopo la caduta dell’Impero napoleonico, ad alimentare sentimenti di nostalgia e di rimpianto per le sue realizzazioni legislative.
Di questa atmosfera nostalgica, prima o dopo, si resero conto anche i sovrani restaurati sui loro troni dal Congresso di Vienna. Ciò avvenne anche per l’esempio e le pressioni esercitate dall’Austria di Metternich, di fatto egemone nella penisola grazie al controllo esercitato direttamente o indirettamente sulle varie regioni e sui diversi Stati nei quali era suddivisa l’Italia dopo il 1815. Come è noto, il dominio diretto austriaco si esercitava sul Lombardo Veneto, sul Trentino, sul Goriziano, su Trieste e sul litorale Adriatico, territori questi nei quali la legislazione asburgica era stata reintrodotta e con essa la vigenza dei codici che Vienna aveva emanato, anche per una certa suggestione esercitata sugli ambienti dei giuristi austriaci dalla codificazione napoleonica.
Quei giuristi, infatti, pur di formazione culturale diversa in quanto maggiormente legati alla tradizione romanistica, avevano compreso quanto fosse ormai necessario il ricorso a un sistema normativo moderno che desse ai sudditi il senso della totale rispondenza di ogni atto giuridicamente rilevante, che fosse compiuto dal potere o che venisse posto in essere da un privato, a un principio di stretta legalità. Si tendeva a realizzare così anche in Austria, dopo l’esperienza francese, un’immagine che anticipava per molti aspetti quella dello Stato di diritto, di un ordinamento la cui vita era soggetta soltanto alla legge.
I codici austriaci, quello penale del 1803 che aveva risentito l’influsso della cultura giuridica illuministica, quello civile del 1811 che, pur nella diversità del suo contenuto e della sua articolazione, era considerato un’alternativa valida rispetto a quello francese, e quello processuale penale del 1816, sembravano indubbiamente aderire a quel principio di stretta legalità, e di ciò Metternich poteva vantarsi esaltandoli come i migliori allora vigenti negli Stati italiani.
In realtà, al di là del giudizio del cancelliere austriaco, anche in altri Stati italiani si era riconosciuta la superiorità del diritto codificato rispetto a quello vigente prima del periodo napoleonico, dai più ritenuto non recuperabile. Così, infatti, si vide nel Mezzogiorno con l’emanazione nel 1819 del Codice per lo Regno delle Due Sicilie, che in un unico testo seguiva da presso la sistematica normativa francese, ovviamente emendandola delle parti ritenute contrastanti con i principi della Restaurazione, specie in materia di famiglia. Così pure nel Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla i quattro codici emanati tra il 1820 e il 1821 parvero imitare il contenuto dei testi napoleonici, pur con le solite modifiche imposte dall’ideologia dominante, laddove nel Ducato di Lucca quei testi, anche se egualmente emendati, restarono in vigore.
Più tardivo ma sicuramente più incisivo fu invece il recupero del diritto codificato da parte del Regno di Sardegna, recupero che avvenne soltanto sotto il regno di Carlo Alberto, non senza incertezze, superando le resistenze degli ambienti più conservatori. Il sovrano infatti giunse a promulgare nel 1837 un codice civile, nel 1839 un codice penale, nel 1842 un codice di commercio e nel 1847 un codice di procedura penale. Si trattava di codici per qualche aspetto qualitativamente inferiori sia, come è ovvio, agli insuperati testi franco-napoleonici, sia a quelli austriaci, napoletani e parmensi, in quanto nel Piemonte sabaudo sussisteva ancora qualche perplessità nei confronti dei modelli francesi e dei testi predisposti dagli Stati che quei modelli avevano mostrato di seguire.
Nel Regno di Sardegna, come peraltro anche in altre aree della penisola italiana, la scelta di restare aderenti al modello legislativo rappresentato dal diritto codificato era ormai inequivocabile, come dimostrava tra l’altro lo scarso successo ottenuto dalle tesi anticodificatorie espresse da Friedrich Karl von Savigny e recepite da larga parte della cultura tedesca. Si trattava di tesi non accettate in Italia dai giuristi e contro le quali aveva assunto una netta posizione in Piemonte soprattutto Federico Sclopis.
Non v’è dubbio comunque che l’esperienza legislativa subalpina del periodo carlo-albertino, per il ruolo che il Regno di Sardegna avrebbe assunto nel Risorgimento, era destinata ad essere un referente fondamentale al momento della formazione della legislazione unitaria. Altrove invece, come nel Ducato di Modena, nello Stato pontificio e in certo senso nella stessa Toscana granducale, ancorché forte fosse in molti ambienti la nostalgia per il diritto codificato introdotto durante la dominazione francese, non si giunse prima dell’unificazione a un suo effettivo recupero, limitandosi i governi locali ad attuare soltanto riforme legislative parziali, non sempre incidenti sull’intero sistema normativo.
I codici degli Stati preunitari avevano salvaguardato, almeno nelle grandi linee – anche se con alcune spesso non molto apprezzabili eccezioni –, l’unità della vita giuridica italiana che la penisola aveva conosciuto nel periodo napoleonico. Quei codici, infatti, ispirandosi al modello francese o, nei territori soggetti agli Asburgo, a quello austriaco, non avevano alterato almeno di massima i fondamentali caratteri della disciplina legislativa impressa a tutte le aree del paese dalla dominazione napoleonica. Questa aveva significato il definitivo abbandono del diritto comune, che anche romanzieri famosi come Alessandro Manzoni e Ippolito Nievo avevano giudicato lontano dalla civiltà moderna e oggettivamente contrastante con le necessità della popolazione, specie della più umile, incapace di difendersi dagli arbitrii dei potenti.
Nel decennio seguito alla prima guerra d’indipendenza, mentre le aspirazioni del patriottismo nazionale si diffondevano sempre più fortemente, il richiamo al significato unitario e liberale della codificazione napoleonica si manifestava con maggiore intensità, come testimoniava l’affermazione programmatica di Giuseppe Montanelli «Italia e codice Napoleone», che coniugava la lotta per l’indipendenza con il recupero di quella codificazione. Tale affermazione indicava la volontà di eliminare insieme il particolarismo politico e il pluralismo normativo ripristinati dalla Restaurazione. A questo obiettivo tendevano le diverse componenti del movimento risorgimentale, consapevoli che il raggiungimento dell’indipendenza e dell’unità dello Stato avrebbe dovuto implicare la costruzione di un’effettiva unificazione legislativa, non concependosi l’idea di un ordinamento nel quale sussistessero leggi e normative diverse.
L’esempio offerto dalla Francia, agli occhi dei patrioti italiani e in specie di quelli che nel loro esilio vi avevano trovato asilo, come Pellegrino Rossi, era al riguardo assolutamente da imitare in quanto la nazione d’oltralpe, dalla rivoluzione in poi, era assurta al ruolo di Stato guida in materia giuridica e politica. In effetti sarebbe stato difficile, se non addirittura impossibile, per costoro, che avrebbero costituito la classe dirigente risorgimentale, al momento in cui si accingevano alla costruzione dello Stato unitario, il distacco da quel modello che avevano considerato per decenni ottimo e al quale avevano rivolto sempre la loro attenzione.
Peraltro, sul finire degli anni Cinquanta, i governanti del Piemonte, soprattutto Cavour e Rattazzi, si erano impegnati a fondo con la loro attività normativa a completare e a perfezionare l’ordinamento subalpino, sempre tenendo presente l’esperienza francese sia nella materia amministrativa che in quella legislativa.
Ne sono prova i codici, penale, di procedura penale e di procedura civile che, pur redatti con estrema fretta nel 1859 ed emanati da Rattazzi in virtù dei pieni poteri concessi al governo per la condotta della guerra all’Austria, si mantenevano pur sempre di massima aderenti ai modelli d’oltralpe. Uno degli scopi che il legislatore subalpino voleva realizzare era l’aderenza di questi testi ai dettami statutari, in quanto i primi codici, come quello penale e quello di procedura penale, erano stati emanati da Carlo Alberto prima della concessione dello Statuto e, quindi, secondo l’opinione degli elementi più liberali, dovevano essere aggiornati per adeguarli al regime costituzionale, anche in vista delle future annessioni al Regno di Sardegna. Tale aggiornamento al momento non era richiesto per il codice civile, anche per la maggiore complessità della materia privatistica rispetto alle altre.
La seconda guerra d’indipendenza, ancorché interrotta dall’armistizio di Villafranca, portò all’annessione della Lombardia, costituì la premessa della liberazione dei ducati di Parma, di Modena, di Lucca, dell’annessione dell’Emilia, della Romagna, delle Marche, dell’Umbria e aprì così la via a quella del Mezzogiorno continentale e insulare dopo la spedizione dei Mille.
L’estrema rapidità degli eventi che si susseguirono nel biennio 1859-60 parve trovare il governo del Regno di Sardegna piuttosto impreparato a fronteggiare la somma dei problemi amministrativi e legislativi derivanti dalle annessioni. La causa di ciò non derivava soltanto dalla carente conoscenza delle diverse realtà normative e istituzionali caratterizzanti l’assetto dei territori annessi, realtà alle quali erano da decenni assuefatte le loro popolazioni, ma anche dall’incertezza sulle soluzioni da adottare, o meglio, forse, da imporre, in virtù dei pieni poteri che nell’eccezionalità della situazione erano stati concessi al governo.
Le conseguenze di ciò si manifestarono ben presto negli sconvolgimenti e nelle disarmonie che si verificarono in conseguenza delle prime decisioni prese in materia legislativa dalle autorità subalpine che, nella fretta del loro operare, vennero accusate di imporre una «unificazione a vapore» suscitando, come sovente accade nei repentini mutamenti delle normative giuridiche, le inevitabili e spesso fondate reazioni delle opinioni pubbliche dei territori annessi.
Lo si vide subito in Lombardia ove il governo di Torino, che pur a malincuore aveva dovuto mantenere in vigore il codice civile austriaco, decise di introdurre i codici subalpini penale e processuale, rendendo così il sistema disarmonico e incongruente per la mancanza di una saldatura tra quel codice e i nuovi testi recepiti dal Piemonte. Ciò incideva negativamente a causa dei riflessi della tutela penale dei rapporti civili e dell’organizzazione delle materie processuali, repentinamente fondata su criteri sconosciuti ai più e quindi non bene accetta. Questa disarmonia e questa incongruenza, secondo i loro molti critici, finivano col creare qualche problema interpretativo nei giudizi, rendendo meno agevole sul piano pratico l’andamento dei processi per quel legame che in ogni sistema giuridico sempre dovrebbe unire il diritto all’azione, la norma che lo crea a quella che lo garantisce.
Nei territori fino allora pontifici dell’Emilia, delle Marche e dell’Umbria venne estesa con estrema rapidità la codificazione piemontese senza suscitare critiche da parte della popolazione che aveva sofferto, più di quella delle altre regioni italiane, le conseguenze dell’abbandono del diritto codificato imposto dal governo pontificio durante la Restaurazione, in odio al sistema legislativo introdotto da Napoleone. A giudizio unanime, quelle popolazioni dovevano considerare un grande progresso la recezione dei codici subalpini, che si accompagnava all’abrogazione della legislazione pontificia, farraginosa e antiquata, fino allora vigente.
Meno positiva, invece, quella recezione doveva apparire nella sua portata pratica negli antichi ducati di Modena e di Parma, nei quali fino a quel momento erano stati applicati codici piuttosto moderni, non inferiori a quelli subalpini. Il governo piemontese, in analogia a quanto aveva deciso per la Lombardia, vi mantenne in vigore soltanto i codici civili sostituendo con la consueta fretta quelli penali e processuali, provocando però critiche e suscitando polemiche, le une e le altre analoghe a quelle suscitate in Lombardia. Tali critiche e polemiche alimentavano qualche nostalgia per la legislazione abrogata.
Lo stesso affrettato mutamento normativo fu deciso anche per il Mezzogiorno, ove fu mantenuta in vigore solo la parte relativa alle leggi civili del Codice per lo Regno delle Due Sicilie. Ciò suscitò qualche reazione nel numeroso ceto di giuristi napoletani assuefatti ad esso e di conseguenza assai poco inclini ad accogliere le nuove norme subalpine che non ritenevano migliori di quelle fino allora vigenti.
Soltanto in Toscana il governo subalpino, preoccupato delle reazioni che le sue decisioni potevano suscitare, si astenne dall’imporre una recezione anche solo parziale dei suoi codici. Evidentemente consapevole della totale differenza tra il sistema normativo granducale e quello piemontese, e preoccupato, tra l’altro, delle conseguenze che anche nel settore criminale avrebbe potuto provocare l’abolizione del codice penale toscano del 1853 – da tutti considerato tra i migliori del tempo – decise di soprassedere temporaneamente a qualsiasi mutamento legislativo.
La fase dell’«unificazione a vapore», dettata dal desiderio di creare rapidamente un ordinamento giuridico comune a quello piemontese nelle terre annesse, si esaurì così senza risolvere i problemi legislativi posti dalla nascita dello Stato nazionale.
Nell’opinione prevalente, l’unificazione politica doveva comportare anche la parallela realizzazione di una normativa unitaria, realizzando così quanto nel periodo napoleonico non era stato conseguito. Allora, infatti, l’intera penisola aveva avuto la stessa legislazione e la medesima amministrazione recepite dalla Francia, sopravvivendo però il particolarismo politico.
Era difficile pertanto per l’intera classe dirigente risorgimentale impegnata nella costruzione dello Stato unitario, e quindi non solo per quella subalpina, abbandonare l’idea di quella unificazione legislativa che l’egemonia francese aveva di fatto realizzato cinquant’anni prima e che era stata allora da molti esaltata. Il fatto, poi, che con le sole pur rilevanti eccezioni del Lombardo Veneto e della Toscana, gli Stati preunitari avessero per lo più modellato la propria legislazione e la propria codificazione su quelle francesi – e che, dove da queste non avevano tratto ispirazione, come nella Roma pontificia, fossero ritenuti arretrati dal punto di vista civile – rafforzava l’idea della necessità di procedere a una unificazione legislativa che riflettesse l’immagine della raggiunta unità nazionale, eliminando le diversità normative ancora sopravvissute.
Di qui l’apertura di un notevole confronto di opinioni sulle diverse vie da seguire per la realizzazione di quell’obiettivo, considerato ormai essenziale dalla classe politica e da quanti si rendevano conto della necessità di una legislazione comune a tutto il paese riunificato. Era una necessità affermata in modo inequivocabile in una delle tante relazioni che andavano caratterizzando il dibattito in corso sull’argomento: «Quando una nazione, raccolte le sparse membra, si ricompone a Stato uno e indipendente, primo suo bisogno si è estrinsecare la sua nuova esistenza, riducendola in atto a completare l’unità dello Stato con l’unità delle leggi» (Relazione del ministro Cassinis al progetto di revisione del Codice civile albertino, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura VII, Documenti, sessione 1860, n. 71).
In questo contesto ideologico, derivante dalla visione statualistica e insieme formalistica ereditata dal periodo napoleonico, emergeva la consapevolezza del primato del codice civile, delle norme cioè che regolamentavano la vita del privato. Era appunto al codice civile, considerato il più importante dei codici, che si volgevano soprattutto l’interesse e l’impegno dei legislatori del nuovo Regno d’Italia. Ciò non significava evidentemente che non si riconoscesse la necessità di predisporre a lato della codificazione civile anche quella delle procedure civile e penale, del codice penale e di quello commerciale. Si riteneva soltanto che la centralità del sistema giuridico, peraltro secondo una tradizione risalente al mondo romano e convalidata nel corso dei secoli, riposasse sulla disciplina civilistica. Ad essa, infatti, si sarebbe dedicato il maggiore impegno dei politici, o meglio dei giuristi-politici impegnati a costruire l’ordinamento del nuovo Stato.
Allora sembrò che si diffondesse vieppiù la consapevolezza della necessità di abbandonare l’idea dell’applicazione dei vigenti testi subalpini nelle province annesse per non alimentare le critiche e le polemiche, peraltro già abbastanza diffuse, contro l’eventuale «piemontesizzazione» dell’ordinamento dello Stato unitario. Erano critiche e polemiche che soprattutto nella Lombardia già austriaca erano state estremamente forti già prima dell’Unità, trovando una vigorosa eco in Carlo Cattaneo.
Ai legislatori di allora, comunque, sembravano aprirsi diverse vie. La prima di queste, ma sicuramente la meno apprezzata, era quella, secondo la prassi seguita alla vigilia dell’unificazione per gli altri testi legislativi, di procedere alla revisione del codice civile albertino adeguandolo alle necessità della società italiana finalmente riunificata. Via, questa, non facile in quanto il codice civile albertino, ancorché modificato, avrebbe sempre rievocato agli occhi degli abitanti delle province annesse l’immagine non gradita di una conquista subalpina delle altre parti d’Italia e non quella invece dell’unificazione nazionale ormai in atto. Il codice albertino peraltro rispondeva soprattutto alle idee della parte più avanzata della classe politica e del ceto forense subalpino, e la sua modifica, proposta dal ministro Giovanni Battista Cassinis, che aveva tenuto presenti sia l’archetipo napoleonico sia il codice austriaco e gli altri della Restaurazione, appariva modernizzarne alcuni contenuti. Fatto, questo, che incontrava la forte opposizione degli ambienti cattolici preoccupati, come Sclopis ed Emiliano Avogadro della Motta, soprattutto per alcuni suoi aspetti laicizzanti specie in materia di diritto di famiglia. Tale opposizione si aggiungeva alle riserve di altri che, ispirati da postulati patriottici e in certa misura anche storicistici, deploravano essere il testo predisposto da Cassinis troppo aderente a un modello straniero e quindi non adatto al nuovo Stato nazionale.
Un nuovo progetto del ministro Cassinis, elaborato dopo i contrasti suscitati dal primo, incontrò altre critiche che indussero il ministro a non presentarlo al Parlamento per la discussione, nella consapevolezza che sarebbe stato respinto, sia per l’opposizione dei magistrati delle corti timorosi di ogni novità sia per motivazioni di ordine tecnico-normativo che investivano non pochi dei suoi contenuti.
Questo progetto fu invece ripreso, ovviamente emendato, dal successore di Cassinis, Vincenzo Miglietti, che si sforzò di dare un carattere nazionale e unitario al testo, sottoponendolo a varie commissioni di giuristi delle diverse parti d’Italia, magistrati e avvocati, i quali peraltro non ne completarono l’esame lasciando al nuovo ministro Giuseppe Pisanelli il compito di portare a termine la redazione del codice.
In realtà nelle diverse fasi che caratterizzarono la preparazione del nuovo codice civile del Regno d’Italia si notava il recupero sempre più accentuato del modello napoleonico e il distacco da quello subalpino del 1837, in quanto sia il testo di Cassinis sia quello di Miglietti mostravano di tener presente prevalentemente l’archetipo francese, che Miglietti aveva però integrato successivamente con taluni emendamenti tratti dal testo vigente nel Regno delle Due Sicilie, al fine evidente si sottrarre la sua opera alle ricorrenti accuse di «piemontesizzazione» della legislazione unitaria.
A tali accuse rispose definitivamente e in modo inequivocabile con le sue scelte, dopo un breve interregno del ministro Raffaele Conforti, Giuseppe Pisanelli, uno dei maggiori esponenti di quel ceto di giuristi-politici del Risorgimento che costruirono la legislazione del nuovo Stato.
Obiettivo di Pisanelli, che mostrava di prendere formalmente le distanze del prestigioso Code Napoléon, pur quasi universalmente riconosciuto dagli esponenti liberali come ancora il più adatto alla società italiana, era la rivendicazione ormai richiesta dalla coscienza nazionale di quel carattere nuovo e autonomo della codificazione unitaria che derivava ad essa dall’indipendenza da ogni archetipo prefissato. Questa indipendenza avrebbe infatti dato all’opinione pubblica la sensazione dell’avvenuto superamento delle soluzioni gradite solo a una parte della popolazione italiana, ma sostanzialmente estranee al resto di essa. Ciò invece non sarebbe avvenuto con un testo elaborato per il nuovo Stato e destinato all’intera società della penisola, che avrebbe dovuto apprezzarne il distacco da ogni altro codice precedentemente vigente negli Stati preunitari.
Pisanelli si illudeva che il testo redatto sotto la sua guida – e presentato prima alle corti giudiziarie che l’avrebbero dovuto far esaminare da alcune commissioni di magistrati e poi al Senato che l’avrebbe dovuto discutere articolo per articolo rinviandolo quindi alla Camera dei deputati per il varo definitivo – potesse essere approvato rapidamente. Questa illusione era però destinata a cadere ben presto, in quanto né le commissioni di giudici designate al suo esame seppero espletare il loro lavoro né il Parlamento riuscì a portare avanti la discussione del complesso articolato.
Non era possibile riferirsi all’esempio dell’iter legislativo seguito nella redazione del Code Napoléon, che era stato sottoposto a suo tempo all’esame di molteplici organi giudiziari e legislativi. Allora infatti il carattere autoritario ed efficientistico di quegli organi li aveva portati facilmente ad allinearsi alle scelte normative fatte dal potere. Neanche era accettabile il confronto con la vicenda del codice processuale subalpino del 1854 per la materia limitata e specialistica dei suoi contenuti normativi che non avevano rallentato la sua formazione.
Il Senato, comunque, ad opera di una commissione incaricata dell’esame del testo nominata il 17 luglio 1863, visionò completamente il nuovo testo, apportandovi alcune modifiche dal contenuto tendenzialmente conservatore, che in certa misura sembravano alterare il carattere più aperto e innovatore di qualche scelta del Pisanelli, politico e giurista di sicura formazione laica e liberale. Le sue idealità politiche e culturali comunque si riflettevano pienamente sia nella relazione che accompagnava il testo, dalla quale trapelava nettissima l’ideologia giuridica che l’ispirava, sia nella sistematica e nell’articolazione del codice.
Pur ribadendo infatti, sulla scia della tradizione napoleonica, che oggetto essenziale del codice civile dovessero essere il diritto di proprietà e la materia dei beni, riteneva che la disciplina giuridica delle persone e della famiglia, per la sua peculiare natura, dovesse collocarsi in una posizione intermedia tra il codice civile e lo Statuto del Regno, perché la società familiare e quella politica gli apparivano sul piano pubblicistico intimamente legate. Di qui la collocazione da lui decisa delle norme sul diritto personale e familiare in un primo libro del codice che precedeva quindi gli altri: il secondo sui beni, la proprietà e le modificazioni di essa, il terzo infine sui modi di acquisto e di trasmissione della proprietà e degli altri diritti sulle cose.
La materia delle persone e della famiglia era stata indubbiamente quella sulla quale aveva maggiormente inciso la Restaurazione, in nome della ideologia cattolica e conservatrice, imponendo di cancellare non poche norme liberali e laicizzanti del Code Napoléon. Pisanelli aveva cercato nel suo progetto di recuperarne alcune, appoggiato peraltro da larga parte della classe politica, favorevole alle scelte separatiste nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa che dalle leggi Siccardi (1850) in poi avevano caratterizzato la politica ecclesiastica del Regno subalpino. Tra queste, la più importante era quella del matrimonio civile, la cui introduzione in Piemonte era stata fortemente osteggiata dagli ambienti clericali. Essa ebbe la sua disciplina nel codice, anche se accompagnata, per non aggravare il contrasto in atto col Vaticano, dalla affermazione della indissolubilità del vincolo, già presente nei codici della Restaurazione.
L’introduzione del matrimonio civile, pur nella reiezione del divorzio, istituto difficilmente accettabile in una società dove forte era il peso della Chiesa cattolica, parve una grande conquista del codice. Nonostante le intenzioni chiaramente progressiste di Pisanelli, altri aspetti del diritto familiare restarono ancorati alla visione conservatrice e, per certi aspetti, piuttosto anacronistica di larga parte della Commissione senatoria. Così, ad esempio, la scelta del regime dotale imposto in luogo di quello francese della comunione dei beni tra i coniugi, e soprattutto il mantenimento dell’istituto della autorizzazione maritale, che poneva la donna sposata in evidente condizione di inferiorità rispetto al marito. Né il progetto Pisanelli sembrava alterare la disciplina della materia della proprietà e dei beni tradizionalmente legata all’eredità napoleonica, che in linea di massima era stata recepita dai codici degli Stati preunitari, in questo per lo più aderenti alla normativa del testo francese.
Come spesso è stato rilevato, alla mentalità dell’epoca, evidente nel modo di pensare e di atteggiarsi della grande maggioranza della borghesia dell’Europa occidentale, e quindi non soltanto italiana, essenziali apparivano gli assetti liberali dell’economia, i valori legati alla proprietà dei beni e gli strumenti per la loro trasmissione fondati sulla libertà della loro circolazione e sull’autonomia negoziale dell’individuo. Il progetto rifletteva da presso tutto ciò nell’articolazione e nel disposto dei due primi libri del codice, libri il cui contenuto in un avvenire non troppo lontano sarebbe stato talvolta contestato da quanti avrebbero voluto precorrere i tempi, senza rendersi conto della mentalità e degli ideali dell’epoca che vide la redazione del testo.
L’estrema lentezza dell’iter seguito fino a quel momento nell’esame del testo e la consapevolezza della necessità di venire rapidamente incontro alle attese sempre più pressanti della società italiana imponevano al governo un’accelerazione dei lavori per la preparazione dei codici e, più in generale, per l’approntamento della nuova legislazione. Così, dopo la Convenzione di settembre che di fatto garantiva al nuovo Stato un effettivo riconoscimento internazionale e la conseguente decisione di trasferire la capitale da Torino a Firenze, il governo fu indotto ad accogliere il famoso ordine del giorno Boggio del 19 novembre 1864 che lo invitava «a presentare un progetto di legge che provvederà alla più pronta unificazione legislativa ed amministrativa del Regno, in quanto è urgentemente richiesto dal trasferimento della capitale».
Solo quattro giorni dopo, e cioè il 23 novembre, il Consiglio dei ministri, accolto l’ordine del giorno Boggio senza alcuna riserva da parte dei suoi componenti, decideva di richiedere al Parlamento l’autorizzazione a pubblicare e rendere esecutivi con semplice decreto i codici e le diverse leggi in corso di esame davanti all’una o all’altra delle due camere, introducendovi le modificazioni necessarie al loro coordinamento, le opportune norme transitorie e le altre idonee per la loro attuazione.
Non mancarono reazioni negative, in realtà più evidenti nella stampa che nel Parlamento, alla richiesta del governo di pubblicare e rendere esecutive le diverse leggi. Erano reazioni motivate per lo più dall’affermazione della pretesa incostituzionalità di una procedura che sottraeva alle assemblee legislative la loro normale funzione normativa. Questa era però un’affermazione piuttosto astratta, che non teneva conto della pratica impossibilità per le due assemblee di discutere e di approvare articolo per articolo le migliaia di norme che costituivano il contenuto dei codici in esame da parte della Camera dei deputati e del Senato.
Il Parlamento però, sia con l’approvazione dell’ordine del giorno Boggio, sia poi con l’assenso delle commissioni incaricate di riferire sul testo della legge sull’unificazione legislativa, sia infine con l’approvazione della stessa da parte delle due camere, aveva mostrato chiaramente di aderire all’iniziativa governativa. Accettava così l’impostazione data da Pisanelli nella sua relazione, che giustificava l’iter legislativo seguito non soltanto con le evidenti ragioni di urgenza reiteratamente ribadite nelle diverse sedi impegnate nell’unificazione dell’ordinamento del nuovo Stato, ma anche e soprattutto con la necessità di porre definitivamente fine al particolarismo giuridico che aveva caratterizzato nei secoli la storia d’Italia.
Nella relazione, Pisanelli sottolineava peraltro come ben otto dei nove uffici della Camera incaricati dall’assemblea, secondo la vigente prassi regolamentare dell’esame preliminare del provvedimento, avessero approvato l’iniziativa governativa considerandola l’unica idonea per dotare il paese di una codificazione e di una legislazione adeguata ai tempi e alle necessità della risorta nazione.
Tra il 9 febbraio e il 29 marzo le due assemblee discussero e approvarono il provvedimento, autorizzando il governo a includere tra i testi legislativi da pubblicare e rendere esecutivi anche il codice di commercio, sul cui inserimento, per la specialità della materia, si erano avute talune perplessità. Queste furono superate con la scelta, sia pure in via provvisoria, del testo vigente nel Regno subalpino, tendenzialmente simile alle normative in materia commerciale applicate negli altri Stati della penisola e che tutte erano derivate dal Code de commerce napoleonico. Era una scelta di fatto obbligata perché imposta dall’urgenza e dalla difficoltà di affrontare in un tempo assai breve la redazione di un testo capace di far fronte alle esigenze di una società civile che vedeva trasformarsi le strutture della sua economia.
Così, il 2 aprile 1865, venne promulgata la legge sull’unificazione legislativa del Regno d’Italia che, insieme a quella sull’unificazione amministrativa, diede vita all’ordinamento del nuovo Stato.
Non fu molto quindi il tempo dedicato dalle due camere all’esame della legge sull’unificazione legislativa del Regno d’Italia, sia per il prevalere dell’interesse nella classe politica e nel paese per l’altra legge sull’unificazione amministrativa, considerata di maggiore importanza, sia per la consapevolezza largamente diffusa dell’estrema difficoltà di un esame dettagliato della materia contenuta nelle migliaia di articoli dei diversi codici. Il Parlamento così non riuscì a innalzare il suo ruolo di fronte all’iniziativa governativa che l’aveva privato della possibilità di legiferare in materia di codificazione, né poté recuperare l’immagine di organo preposto al potere legislativo teorizzata dai classici del costituzionalismo, e alla quale sembravano riferirsi taluni parlamentari che dissentivano dalla procedura imposta dal governo.
Al di là comunque delle questioni sulla legittimità costituzionale di quella procedura e sull’opportunità dell’operato governativo, non v’è dubbio che nel corso del dibattito parlamentare vi furono interventi di un livello piuttosto elevato, rivelatori dell’impegno e della preparazione di una rappresentanza politica che deve essere considerata tra le migliori della nostra storia nazionale.
Si trattava di interventi riguardanti talune disposizioni contenute nei singoli codici che venivano talvolta poste a confronto con altre inserite nei testi normativi degli Stati preunitari o anche in quelli napoleonici, ai quali spesso si faceva logicamente riferimento. Tale confronto, nella generalità dei casi, finiva col confermare la validità delle scelte compiute da Pisanelli e l’effettiva necessità dell’iniziativa governativa. Quelle scelte e quell’iniziativa, ancorché da taluno talvolta contestate e anche disapprovate, allora e successivamente, consentirono alla classe politica di superare le possibili divergenze che un dibattito parlamentare avrebbe potuto evidenziare su tanti temi, sia di carattere ideologico e politico sia di particolare natura legislativa.
Fra i primi vale la pena di segnalare il grave problema della titolarità dei diritti civili prevista dal codice per i regnicoli e non per gli italiani delle regioni non ancora annesse, o quello relativo alla vexata questio, aggravata dal contrasto in atto con la Chiesa, dell’introduzione del matrimonio civile, con le sue notevoli conseguenze di carattere personale e familiare. Fra i secondi, i complessi temi della successione del coniuge superstite o della sopravvivenza dell’istituto dell’enfiteusi, che molti ritenevano obsoleto. Erano problemi e temi che avrebbero potuto rappresentare alcuni dei possibili ostacoli all’espressione da parte del Parlamento di una sintesi normativa non equivoca delle esigenze espresse dalla variegata e allora non ancora integrata società civile. Quelle esigenze infatti erano destinate ad essere soddisfatte dal pressoché generale apprezzamento riservato al codice dall’opinione pubblica, o almeno da quella parte di essa in grado di valutare e comprendere il significato delle disposizioni che il codice Pisanelli conteneva.
Tali disposizioni mostravano come la titolarità dei diritti, fatto essenzialmente personale, fosse del tutto garantita. La famiglia, contrattualmente costituita e protetta dalla indissolubilità del vincolo matrimoniale dai più allora considerata necessaria, specie per ragioni sociali, appariva anche, e forse soprattutto, una comunità gerarchica capace di operare sul piano patrimoniale. La proprietà si poneva come un diritto praticamente illimitato e concorrente solo con qualche altro diritto reale di portata e di contenuto inferiore. Il contratto si rivelava come un atto privato, sempre più riconducibile agli amplissimi schemi normativi che lo tutelavano. La successione esaltava al massimo la libertà del soggetto di disporre dei propri beni, proteggendo peraltro i suoi familiari più stretti. Gli strumenti di tutela dei diritti, in parte previsti dal testo, in parte, invece, ricavabili dal puntuale raccordo con gli istituti e le norme del codice di procedura civile emanato e introdotto contestualmente, davano il senso della completa protezione giuridica dei beni e degli interessi presi in considerazione dal codice Pisanelli.
La protezione di quei beni e di quegli interessi rifletteva da presso il modo di pensare e di vivere della società borghese dell’epoca, non ancora colpita se non marginalmente dalle contestazioni e dai moti di carattere sociale di quanti ritenevano necessaria la realizzazione di un nuovo assetto dei rapporti proprietari e di lavoro in seno alla comunità nazionale. Allora non erano ancora del tutto emerse né avevano assunto particolare rilevanza le idee e le istanze in favore di un nuovo diritto, propugnate poi da quella che verrà definita la scuola del socialismo giuridico; neanche fino a quel momento si era concepita in forma organica e definita quella legislazione in materia di lavoro, di assistenza e di previdenza per gli appartenenti alle classi più umili, la cui realizzazione si avvierà qualche decennio più tardi, cercando così di colmare una lacuna legislativa ben presto ritenuta assai grave.
La sintesi normativa che il codice Pisanelli aveva saputo realizzare venne apprezzata dall’opinione pubblica del paese, e specialmente larga parte della magistratura e del ceto forense mostrarono ben presto di accettarla senza frapporre difficoltà né mostrare troppe incertezze nell’applicazione dei suoi contenuti normativi. Anche se non mancavano talvolta tra i giudici degli Stati preunitari alcuni conservatori nostalgici del passato e della sua legislazione, ben presto le loro voci dissenzienti dovettero tacere. È noto, comunque, come il governo nazionale, sulla scia di una prassi introdotta da oltre un decennio in Piemonte per rimuovere dalle loro funzioni i giudici ostili al regime statutario e avversi alle sue riforme, non avesse esitato a procedere a una sorta di ulteriore epurazione dei quadri della magistratura al fine di garantire l’appoggio totale dell’ordine giudiziario nell’applicazione delle nuove leggi dello Stato unitario.
Peraltro molti tra gli esponenti della scienza giuridica italiana, fondamentalmente legati agli ideali unitari e liberali del Risorgimento, contribuirono decisamente all’accettazione e all’esaltazione della nuova codificazione. Costoro, nell’approccio patriottico che li distingueva, tendevano a interessarsi ben più dei problemi della politica legislativa, che involgeva allora ovviamente i temi dello ius condendum, ovvero dell’ordinamento e della legislazione necessari al nuovo Stato, anziché di quelli maggiormente legati alla tradizione dello ius conditum, ovvero dell’interpretazione e dell’applicazione delle normative vigenti. La rivoluzione nazionale alla quale avevano partecipato con impegno e passione li aveva trasformati, come è stato efficacemente detto (Ungari 1967, pp. 118 sgg.), in conditores iuris, del tutto consapevoli dell’importanza del compito che era loro affidato.
Ancorché talvolta criticata da coloro che, mossi da un’ottica tradizionale, hanno voluto sminuire il suo ruolo ritenendolo inferiore per apporto culturale a quello di altre epoche della nostra storia giuridica, in un’evidente esaltazione della funzione dei giuristi interpreti del passato, si deve ritenere la scienza del diritto risorgimentale una delle più elevate, attribuendo ai conditores iuris dell’unificazione una posizione qualificante nello sviluppo della sapienza civile e della giurisprudenza.
Uno dei problemi maggiori che essi dovettero affrontare era evidentemente quello del raccordo tra lo Statuto del Regno e la nuova codificazione, un problema che in realtà nel Piemonte preunitario non era stato discusso se non marginalmente. Tale problema si pose infatti solo nell’ideologia liberale definitivamente recepita al tempo dell’unificazione dalla maggioranza della classe politica risorgimentale. Da questa la costituzione, identificata nell’Italia riunificata nello Statuto albertino da tutti ormai accettato, era considerata la tête de chapitre dell’intero ordinamento giuridico, mentre il codice civile, effettivo statuto dei privati, veniva ritenuto, per la vastità dei suoi precetti, come la base fondamentale dell’intera codificazione, sulla scia della tradizione inaugurata dal Code Napoléon.
Il raccordo tra la costituzione del Regno e le norme della codificazione, e non solo quindi di quelle del codice civile, era fissato in forma assai netta dalle disposizioni preliminari sulla pubblicazione, interpretazione e applicazione della legge, collocate come premessa a quel codice. Tali norme, per il loro carattere generale e per la centralità in cui si ponevano nell’intero ordinamento giuridico, assurgevano a una dimensione pubblicistica che logicamente andava ben oltre le disposizioni particolari di quel codice e degli altri testi legislativi, assumendo i loro dettati un contenuto sostanzialmente costituzionale. Lo comprovavano tra l’altro quella che affermava il principio della irretroattività della legge, posto a tutela dei diritti acquisiti dai singoli, o quella sull’efficacia delle norme nello spazio, basata sul contemperamento dei criteri della nazionalità dei soggetti, della loro autonomia privata e della sovranità dello Stato.
Tali disposizioni erano quindi di carattere fondamentale e danno il senso della peculiarità del lavoro svolto da Pisanelli e da quei conditores legum che, con lo sguardo volto allo Statuto, vollero legare ad esso la codificazione unitaria, esaltando la natura liberale dell’intero ordinamento nazionale.
Convinti, sin dall’età napoleonica, della necessità di affiancare al codice civile quello di procedura civile, al fine della tutela giudiziale dei diritti privati e delle obbligazioni convenzionali, gli autori dell’unificazione legislativa guidati da Pisanelli procedettero rapidamente ad emanarlo, sulla scia della tradizione inaugurata dal Code de procédure civile francese e rispettata di massima dai testi vigenti negli Stati preunitari e in particolare dal testo subalpino del 1859, vigente in via provvisoria in molte regioni poi annesse allo Stato sabaudo.
Nel quadro dell’ideologia liberale che lo ispirava, Pisanelli si sforzò di fare del processo civile lo strumento nel quale la libertà del privato, la sua iniziativa mediante l’esperimento dell’azione e la tutela della sua posizione processuale fossero rispettati e garantiti al massimo. Ciò anche a scapito della stessa funzione del giudice, il cui intervento e il cui operato apparivano del tutto sussidiari e subordinati rispetto a quelli delle parti presenti in giudizio (attore e convenuto).
Quindi, l’iniziativa delle parti appariva prevalente, nelle più importanti fasi del processo, su quella del giudice, cui restava il compito fondamentale di assisterle quando fossero stati necessari prima il suo intervento, poi la sua decisione. Ciò non implicava, però, la passività della funzione del giudice rispetto a quella dei privati perché ad esso il codice riconosceva pur sempre un certo, anche se limitato, ruolo di guida nelle diverse fasi del giudizio.
L’esistenza di un rito sommario accanto a quello formale per snellire e alleggerire il procedimento nei casi di urgenza; l’istituzione del conciliatore, giudice monocratico laico operante nei singoli comuni; la possibilità di definire il giudizio col ricorso a un compromesso; la dettagliata regolamentazione della materia delle prove e delle impugnazioni, sia in grado di appello che in quello di cassazione, concepito quest’ultimo per far prevalere un giudizio finale di diritto su quello precedente di fatto, e la puntuale definizione dei procedimenti esecutivi davano il senso della completezza e della positività del codice di procedura civile del nuovo Stato italiano.
È vero, però, che più tardi non sarebbero mancate critiche al testo predisposto nel 1865 per i suoi eccessi di formalismo rituale, per la sovrabbondanza di scritture processuali rispetto ai mezzi orali nel corso del giudizio e per gli scarsi poteri riconosciuti al giudice. Erano critiche che, pur nella loro validità, non tenevano conto del fatto essenziale che la scienza italiana del diritto al momento dell’unificazione era ancora legata ai princìpi e agli schemi introdotti dalla codificazione napoleonica nella cui tradizione essa si era formata.
Con l’introduzione del codice di procedura civile a lato del codice civile, il quadro normativo disegnato al momento dell’unificazione appariva di fatto pressoché compiuto. Tale quadro normativo ben presto sarebbe stato applicato anche al Veneto dopo l’annessione avvenuta nel 1866 e a Roma dopo la sua liberazione nel 1870.
Nella consapevolezza, infatti, del primato del civile sulle altre materie giuridiche, molti ritenevano che il più fosse stato realizzato. Non a caso l’assenza di un nuovo moderno codice della marina mercantile, la cui prima ispirazione risaliva a un’idea di Cavour del 1859 di raccogliere in un unico testo la congerie di disposizioni che riguardavano la navigazione, sembrava infatti ai più scarsamente qualificante al fine della formazione di un giudizio complessivo sull’unificazione. Ciò, però, non avrebbe distolto i legislatori del nuovo Regno dall’impegnarsi per colmare quella che pure a molti sembrava una lieve lacuna in paragone dell’intera opera di codificazione. Tale lacuna sarebbe stata colmata nel 1877, poco dopo la caduta della Destra.
D’altra parte il permanere del testo subalpino di procedura penale del 1859, esteso nella sua applicazione a tutto il Regno, e la mancata redazione di un nuovo codice di commercio, sostitutivo di quello piemontese tuttora in vigore anche nelle province annesse, appariranno motivi sufficienti per affrontare successivamente quelle che in realtà costituivano notevoli lacune dell’opera di unificazione legislativa. Mentre, però, per la formazione di un nuovo codice di procedura penale si dovrà attendere fino al 1913, in quanto fino ad allora si realizzarono soltanto misure parziali per migliorare la disciplina normativa del processo penale, strettamente legata a quella del diritto penale sostanziale, diverso sarà l’impegno per la redazione di un nuovo codice di commercio.
Si era, infatti, in un momento in cui era necessario porre maggiore attenzione alla materia della produzione e dello scambio, per le progressive trasformazioni della struttura economica del paese dovute alla sua incipiente industrializzazione e ai riflessi che questa avrebbe esercitato su una società fino allora dedita prevalentemente all’agricoltura. Gli autori del nuovo codice di commercio, emanato nel 1882 dopo una lunga preparazione, erano consapevoli che alla visione della tradizionale staticità della società propria dei legislatori del 1865 si dovesse ormai affiancarne un’altra più moderna e dinamica, adeguata ai rapporti scaturenti da un’economia più diversificata.
Il nuovo codice, pur non alterando la fondamentale unità del diritto privato, riconosceva col complesso delle sue disposizioni quella autonomia e quella fisionomia proprie della materia commerciale che non erano state fino allora del tutto comprese. Ciò faceva ravvisare in questo testo il tentativo, peraltro formalmente riuscito, di dare una più salda base al rapporto tra il liberalismo politico, difeso e realizzato sul terreno normativo dallo Statuto albertino e dalle altre fonti del diritto pubblico, e il liberalismo economico, tutelato negli aspetti essenziali da un diritto privato ammodernato dalla nuova codificazione commerciale.
La modernità di questa si rifletteva in moltissime sue norme riguardanti fattispecie e problemi fino allora non presi in considerazione dal legislatore. Tra queste, ad esempio, la disciplina del contratto tra assenti, la definizione più esatta dello strumento monetario per i pagamenti, l’accettazione del telegramma come mezzo di prova, l’introduzione del contratto di trasporto dovuta essenzialmente alla crescita di quell’eccezionale rete ferroviaria che ha rappresentato una delle più grandi conquiste dello Stato liberale, e il miglioramento della normativa sulle società di capitale più che mai necessaria all’industrializzazione del paese.
Più grave, comunque, restava il problema della mancata redazione di un nuovo codice penale per l’intero Regno d’Italia, la cui assenza a molti appariva non giustificabile né coerente con le intenzioni espresse dalla classe politica in vista del compimento dell’unità nazionale.
Le cause di questa mancata redazione derivavano per lo più dalle sostanziali divergenze circa il modo di concepire la materia dei reati e delle sanzioni penali che caratterizzavano il dibattito nella scienza penalistica dell’epoca e che si riflettevano nelle differenti opinioni di coloro che avrebbero dovuto predisporre la nuova regolamentazione della legge penale. Non a caso, infatti, alle difficoltà di uniformare il testo subalpino del 1859 esteso alle regioni annesse con quello toscano del 1857, mantenuto in vigore nelle antiche province granducali, si aggiungeva anche il drammatico contrasto sul mantenimento o sulla soppressione della pena di morte che, mentre a molti nella sua crudeltà appariva un retaggio di tempi arcaici e meno civili, ad altri sembrava invece ancora necessaria come strumento deterrente di difesa sociale.
Tali contrasti e difficoltà provocarono l’abbandono di ben quattro progetti di codice penale, risalenti al governo della Destra, i primi due dovuti rispettivamente all’iniziativa dei ministri Giovanni De Falco nel 1866 e Michele Pironti nel 1868, il terzo nel 1873 nuovamente a De Falco e il quarto, infine, nel 1874 a Paolo Onorato Vigliani. Pasquale Stanislao Mancini, divenuto ministro nel 1876 con l’avvento della Sinistra al potere, volle riprendere in esame il progetto Vigliani che, confrontato con altri testi predisposti dai ministri Bernardino Giannuzzi Savelli, Enrico Pessina e Diego Tajani, costituì la base sulla quale operò Giuseppe Zanardelli nel redigere il nuovo codice penale dell’Italia unita promulgato nel 1889.
Tale testo fu ben presto celebrato per la sua razionalità e per la sua sostanziale umanità, non soltanto perché cancellava la pena di morte dalle sanzioni per i più gravi reati, ma anche perché, poco indulgendo alle elucubrazioni dei teorici del diritto e dei cultori della sociologia criminale, risolveva il complesso problema della imputabilità nella concreta valutazione della volontarietà del fatto definito come reato. Liberale nelle sanzioni previste riducendone la misura, concedeva al giudice una certa discrezionalità tra il minimo e il massimo nella determinazione concreta di queste, definendo inoltre l’emenda del reo il vero obiettivo dei sistemi penitenziari e prevedendo in certe ipotesi la liberazione condizionale del condannato.
Dalle disposizioni della parte speciale del testo appariva in tutta evidenza il rapporto logico che legava i diritti, gli interessi e i beni tutelati in sede penale alla enunciazione e alla disciplina prevista per questi dal codice civile, mostrando la sostanziale unità e omogeneità dell’opera legislativa compiuta dallo Stato italiano dopo l’Unità.
Al fine di superare la faticosa e procrastinante lentezza di un dibattito parlamentare, come già aveva fatto la Destra per i codici del 1865, anche il governo allora guidato da Francesco Crispi chiese e ottenne a larga maggioranza dalle due camere l’approvazione di una legge di delegazione legislativa che lo autorizzò a emanare il testo. Il codice Zanardelli poté entrare in vigore il 1° gennaio 1890. La Sinistra al potere completò così l’opera di codificazione e di unificazione legislativa intrapresa dalla Destra storica.
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