Legislazione imperiale
Un'adeguata trattazione del tema postulerebbe una previa ricognizione di tutto il materiale legislativo disseminato nelle diverse raccolte e uno studio ricostruttivo delle linee portanti del complesso, impresa a dire il vero non facile e non affrontata finora in un'indagine storiografica di ampio respiro, tanto più che occorre fare anche chiarezza sul concetto di legge nel Medioevo che, da patto tra il popolo e il re, venne sempre più ad attrarre nel suo ambito la volontà regia, trovando una base dottrinale nella massima ulpianea "quod principi placuit legis habet vigorem", parole queste che miravano ad assimilare alla 'legge' anche le costituzioni imperiali (Fassò, 1973). Si potrebbe forse utilmente fare tuttavia impiego, con accorta cautela, della moderna nozione di legge, in senso formale e sostanziale (Astuti, 1973), per ricomprendere nella 'legislazione' solo quelle norme emanate (nel caso di specie) dall'imperatore, generali e astratte, munite dell'obbligo di osservanza, e normalmente di sanzioni in caso di trasgressione, in sostanza del requisito della coercibilità, escludendo perciò dall'ambito di attenzione in particolare i privilegi rivolti ai singoli, le istruzioni destinate ai diversi titolari degli uffici imperiali, statuizioni tese a disciplinare singoli casi, mandati, sentenze, investiture, quantunque provenienti dalla massima autorità dell'Impero. Come pure non può essere considerato espressione del potere normativo di Federico II imperatore il Liber Augustalis o Liber Constitutionum Regni Siciliae (v. Liber Constitutionum), esemplare e monumentale raccolta emanata dal sovrano svevo in qualità di rex Siciliae.
Ciò premesso, si deve constatare che in questo campo le ricerche si sono circoscritte per lo più a singole leggi, di cui si sono approfondite le origini, le ragioni contingenti di emanazione e talora l'influenza a vario livello nelle epoche successive. Del resto, dei più di duecento documenti pubblicati nel 1896 da Ludwig Weiland nel tomus secundus delle Constitutiones et acta publica imperatorum et regum nei Monumenta Germaniae Historica ne rimangono solo assai pochi, secondo la selezione operata da Armin Wolf (1973, pp. 566 ss., 586 ss.), che possiedano le caratteristiche prima sinteticamente indicate per essere sussunti nella categoria 'legislazione imperiale': di questi alcuni furono indirizzati al Regnum Italiae, che allora occupava l'area dell'antico Regno longobardo, estendendosi dalle regioni settentrionali dell'attuale territorio della Repubblica Italiana fino ai confini dello Stato pontificio; altri al RegnumGermaniae, che si allargava, secondo un'approssimativa descrizione riferita all'oggi, dall'Austria al Nord-Est della Francia, da una parte della Svizzera al Belgio e all'Olanda, dal Lussemburgo al territorio quasi completo dell'attuale Repubblica Tedesca.
In questa sede ci si limiterà perciò molto più modestamente a fare riflessioni minime con lo scopo di tracciare un rapido schizzo e lo sguardo rivolto soprattutto ad alcune costituzioni che, per svariati motivi, emergono dall'insieme e si impongono alla nostra attenzione. Proprio perché l'argomento non appare circoscritto all'area italiana dell'Impero, sarà opportuno dedicare qualche cenno alla legislazione imperiale federiciana destinata in particolare all'area tedesca: il raffronto con le norme emanate per il territorio italiano si rivela assai utile ai fini di un bilancio finale e per cercare di mettere a fuoco la trama intricata di un disegno politico-legislativo che si svolse nel tempo e non riuscì a realizzarsi compiutamente secondo il progetto e le aspirazioni del suo ideatore.
Per l'area italiana un riferimento quasi d'obbligo va fatto alla Constitutio in basilica beati Petri, della quale appare indispensabile in questo lemma fornire ugualmente una sommaria trattazione, vista l'assoluta sua rilevanza quale cospicua testimonianza dell'attività legislativa dispiegata da Federico II nella veste di legislatore dell'Impero.
Essa fu emanata da Federico II il 22 novembre 1220 in occasione della sua incoronazione a imperatore per mano di papa Onorio III. Le leggi note sotto questo nome (perché sono piuttosto una serie di leggi anziché una sola), promulgate ad Dei et ecclesie sue honorem, si occupavano dei più svariati argomenti: se alcuni erano di incontestata attualità a quei tempi, altri risultavano di minore presa, ma si rivelano per lo più tutti comunque legati a obiettivi e interessi della Chiesa, desiderosa di ottenere da parte imperiale una normativa a validità universale di cui avvalersi per combattere i suoi oppositori e proteggere certe categorie di soggetti deboli spesso abbandonati a se stessi dall'ordinamento e impotenti a difendersi. In prevalenza erano disposizioni volte alla difesa delle libertà ecclesiastiche e a combattere gli eretici, tanto che un appassionato indagatore delle stesse, Giovanni De Vergottini, poteva scrivere a metà del secolo scorso che rappresentavano la "magna charta delle libertà ecclesiastiche e della repressione dell'eresia" (1952, p. 175). In effetti ben quattro o cinque su dieci delle norme di cui si componeva la Constitutio, secondo il calcolo fatto dai suoi vari editori, erano dedicate alla protezione della ecclesiastica libertas che stava particolarmente a cuore al pontefice, vivamente preoccupato per gli episodi di ribellione verificatisi nel passato e ansioso di avere il potere imperiale al fianco, pronto a intervenire in aiuto nell'evenienza del ripetersi delle violazioni. Un uguale soccorso ci si aspettava nella lotta agli eretici, contro cui la Chiesa andava combattendo da tempo una battaglia strenua senza conseguire risultati soddisfacenti: al desiderio papale corrispondeva perciò il secondo gruppo di norme volto a perseguire gli eretici e i loro fiancheggiatori, mentre la terza serie di disposizioni era diretta a stabilire un regime più favorevole rispetto a quello che vigeva al momento per naufraghi, stranieri e agricoltori.
La complessa normativa rispondeva senza dubbio ad esigenze ben avvertite dalla Chiesa; anzi, ricerche recenti e meno recenti hanno dimostrato con prove più che attendibili che i provvedimenti emanati riflettevano precise indicazioni trasmesse al futuro imperatore per il tramite dei delegati papali: Onorio III, infatti, scriveva in data 10 novembre 1220 ai suoi nunzi dando loro puntuale mandato perché si adoperassero a far trasformare i capitoli annessi alle lettere loro inviate in leggi imperiali. Lo scopo era quello di dispor-re poi di leggi di provenienza autorevole come quella imperiale, da 'pubblicare' nel giorno dell'incoronazione di Federico in Basilica Apostolorum.
Attraverso tale Constitutio Federico poneva inoltre le basi per il felice costituirsi di rapporti di reciproca collaborazione tra le due massime potestà universali, fondando la cooperazione sul necessario adempimento da parte del futuro imperatore dei compiti di defensor Ecclesiae: negli anni immediatamente precedenti, del resto, la volontà di coadiuvare la Chiesa nella lotta all'eresia e nella tutela della sua libertas, evitando anche ogni interferenza nella sfera ecclesiastica, era stata reiteratamente manifestata da Federico II, che già nel 1213, ancora pupillo, aveva fatto una promessa di tal contenuto al suo vecchio tutore Innocenzo III, riconfermandola nel 1219 a distanza di sei anni, poco prima della solenne Constitutio. Né un simile provvedimento costituiva una vistosa anomalia nella storia dei rapporti tra stato e Chiesa perché si inseriva, peraltro senza brusche rotture, nella tradizione romanistica e soprattutto canonistica, consolidata anche nei decenni precedenti: da un verso la legislazione giustinianea aveva variamente segnato una traccia da seguire in tema di privilegi concessi alla Chiesa, di eresia, di protezione dei naufraghi, degli stranieri e degli agricoltori mentre gli imperatori medievali, da Federico Barbarossa a Enrico VI, si erano atteggiati a defensores Ecclesiae; dall'altro una normativa ecclesiastica incisiva, costituita da canoni di concili svoltisi tra il XII e gli inizi del XIII sec. (da quello di Reims del 1157 a quello di Tours del 1163, al III concilio lateranense del 1179, al concilio di Verona del 1184, da cui usciva la decretale ad abolendam di Lucio III, sino al celebrato IV concilio lateranense del 1215), aveva prodotto un cumulo di prescrizioni variamente punitive, documento eloquente della tenacia dispiegata nell'affrontare la lotta contro le eresie e della necessità evidente di una cooperazione tra Chiesa e Impero nello sterminio della diversarum heresum pravitatem. Era un'idea viva nell'ambiente ecclesiastico dell'epoca quella volta a sottolineare i rapporti di interdipendenza tra Impero e Papato, tanto che poteva essere espressa con parole inequivocabili dai principi tedeschi all'atto di approvare la bolla di Eger del 1213, la cosiddetta Promissio Egrensis Romanae Ecclesiae facta (in M.G.H., Leges, 1896, nrr. 46-51), rilevando come presupposto implicito della promulgazione il riconoscimento che "ecclesiam et imperium esse unum et idem et mutuis se debere vicissitudinibus adiuvare" (Consensus Ludewici comitis palatini; ibid., nr. 51).
In questo solco dunque si inseriva la costituzione federiciana, che manifestava con solennità di linguaggio la concordia di intenti e di azioni, a cui le due massime potestà universali avrebbero dovuto ispirare il loro agire.
Vi erano tutte le premesse perché la Constitutio in basilica beati Petri entrasse a pieno titolo in un corpo di leggi che si poneva come diritto positivo della Res-publica christiana.
Le leggi venivano così trasmesse da Federico, già incoronato imperatore, allo Studio di Bologna affinché i dottori le trascrivessero nei loro testi di studio e le leggessero solennemente in forza dell'invito imperiale perentorio tamquam perpetuis temporibus valituris, quasi a sottolineare la loro fissità nel tempo e la loro eterna validità, secondo una formula spesso in uso nella legislazione medievale.
I dottori, chiamati ad inserire la Constitutio nei loro manoscritti, traevano da essa una serie di Authenticae, disposizioni estratte dalle leggi del 1220 e apposte a margine delle costituzioni del Codice giustinianeo vertenti sullo stesso profilo, rispetto alle quali venivano così a costituire lo ius novissimum: v'è stato chi, come Filippo Liotta, ha potuto vedere nell'impegno dei dottori pronti a redigere, sulla scorta della Constitutio, una serie di Authenticae, un eccesso di mandato rispetto alle intenzioni di Federico II, ma non sembra di poter condividere in toto tale interpretazione in base alle parole della stessa Constitutio.
Essa, oltre ad essere scomposta e inserita, nelle sue diverse sezioni, a margine delle sedi idonee dei manoscritti del Codice (di Renzo Villata, 1999), veniva anche collocata nella sua interezza all'interno del cosiddetto Volumen o Volumenparvum, allora in corso di definitivo assetto, subito dopo i Libri feudorum e prima di altre costituzioni di imperatori medievali. Quindi nel Corpus iuris civilis le costituzioni federiciane comparivano ben due volte: dapprima nel Codice, distribuite nei vari titoli pertinenti, e poi nel Volumen: l'inserimento a pieno titolo nel sistema di diritto comune seguiva dunque con innegabile risalto.
Ma l'inserimento nel Corpus iuris civilis segnava anche l'inizio della 'fortuna' successiva del testo federiciano perché significava l'ingresso nel maestoso circuito della cultura giuridica coeva e viva attenzione quasi scontata da parte di una dottrina vigile, soprattutto civilistica ma anche canonistica, che doveva esercitare sulle singole Authenticae le sue non comuni doti interpretative.
Nella costituzione dell'incoronazione non poco spazio era occupato dalle norme contro l'eresia: non doveva essere l'unica occasione per Federico di legiferare al riguardo; anzi, la tematica costituisce un campo di intervento quasi prediletto dallo Svevo (v. Eresie). Dopo le leggi dell'incoronazione egli emanava già nel 1224 un editto rivolto in particolare contro gli eretici lombardi (Constitutio contra haereticos lombardos, in M.G.H., Leges, 1896, nr. 100), "prevaricantes legem Domini et abeuntes post scientiam seductricem", ai quali giungeva a comminare la pena di morte del rogo ("vel ultricibus flammis pereat […]"), in conformità a un indirizzo ripreso poi nel Liber Constitutionum e riconfermato ancora in una legge del 1239 (Constitutio contra haereticos, ibid., nr. 213). Il 22 febbraio 1232 aveva emanato a Ravenna un'altra Constitutio contra haereticos (ibid., nr. 157), in cui, riprendendo i capp. 6 e 7 della Constitutio in basilica beati Petri, oltre a ribadire le pene del bando, dell'infamia e della confisca dei beni per gli eretici, nonché a stabilire sanzioni severe per le autorità comunali colpevoli di non operare efficacemente nella loro messa al bando, inaspriva il livello punitivo ordinando la distruzione delle case dei colpevoli di eresia, dei loro ricettatori, difensori e proseliti. Come appena ricordato, ritornava a legiferare in argomento tra il 1238 e il 1239 parificando gli eretici ai nemici dell'Impero. L'insistenza si giustifica se solo si consideri che l'eresia era giudicata dallo Hohenstaufen comportamento pernicioso non solo per l'unità della Chiesa ma pure per la solidità dell'Impero: appariva dunque ovvio a un sagace statista cercare di combatterla con tutti i mezzi a disposizione configurandola, con facile parallelo, alla stregua di un crimine di lesa maestà, di cui rappresentava un'esemplificazione di rilevante gravità, secondo un atteggiamento destinato a essere condiviso dai regnanti attraverso i secoli e perciò a durare nel tempo.
Un altro obiettivo perseguito con vitale impegno e costanza appare la ricerca di un principio organizzativo idoneo a conferire solidità alla costruzione di un Impero, oltre che pace e giustizia ai sudditi: ciò portò il sovrano a emanare una serie di atti legislativi volti, laddove egli lo ritenesse opportuno o la necessità lo spingesse, a potenziare talvolta la spinta particolaristica, talora quella accentratrice: ad attestato della prima si segnalano alcuni atti legislativi destinati in particolare alla Germania come la cosiddetta Cessio iuris spolii et regaliae del 1216 (ibid., nr. 56), la Confoederatio cum principibus ecclesiasticis del 1220, lo Statutum in favorem principum del 1232, provvedimenti sulla cui natura propriamente legislativa o di privilegio è consentito nutrire dubbi, tanto che si parla a loro proposito di "privilegi generali per i principi", come ricorda Weimar (1997, p. 82).
Tra questi merita attenzione la dieta friulana del 1232, di non esiguo rilievo anche per la storia costituzionale tedesca dei secoli a venire: alla convocazione ad Aquileia per la Pasqua rispondevano moltissimi principi tedeschi che si sarebbero poi spostati a Cividale, indi a Udine e a Pordenone. Ne scaturiva lo Statutum in favorem principum (in M.G.H., Leges, 1896, nr. 171) variamente giudicato dalla storiografia: inserendosi nella linea tracciata durante la dieta di Worms dell'anno prima dal figlio Enrico, incapace di resistere alle pressioni esercitate dagli stessi principi, e ricollegandosi a singole prescrizioni della Confoederatio cum principibus ecclesiasticis del 1220 (ibid., nr. 73), ma ampliandole e generalizzandole, l'imperatore concedeva a costoro un congruo numero di privilegi, integrati in larga misura da quasi tutti i poteri esercitati prima dalla Corona nei confronti delle città e dei loro territori, ora trasferiti nelle mani dei signori che venivano dunque a esercitare nelle stesse terre la potestà signorile bannale. Ne era conseguenza un rafforzamento dei feudatari a fronte del crescente sviluppo delle città e un relativo depauperamento della posizione regia rispetto all'epoca precedente.
Con siffatte concessioni si veniva così delineando un'indipendenza dei principi con connotati di sovranità all'interno della loro area di dominio: costoro godevano di alcuni attributi tipici di questa sovranità, di cui testimonianza significativa era il diritto di battere moneta (a cui nei fatti Federico per parte sua rinunciava) o il diritto di costruire fortezze; la giurisdizione regia cedeva a vantaggio di una giustizia amministrata dai principi, competenti a conoscere delle impugnazioni proposte avverso le decisioni degli organi inferiori di giurisdizione; contemporaneamente si aboliva qualunque altra giurisdizione su base territoriale concorrente con quella principesca. Accanto a tali innovazioni altre contribuivano ad accentuare il 'favore' per l'autonomia, sì da svincolare sempre più i principi dalla Corona e da far loro esercitare una gamma di poteri caratteristici di dignità quasi del tutto prive di condizionamento dall'alto. Sul piano costituzionale si ponevano le basi per la formazione non certo di un forte stato unitario, ma piuttosto di una federazione di principi, con un programma politico che andava in direzione ben diversa rispetto a quella emergente dalla riorganizzazione amministrativa del Regnum Siciliae e da quella del riassetto del Regno italico negli anni a partire dal 1239.
Allo Statutum in favorem principum seguiva poi il 15 agosto 1235 la pace civile di Magonza (v.; ibid., nr. 196): a un mese dalle nozze di Federico con Isabella d'Inghilterra, sorella di Enrico III e sua terza moglie, espressione di una politica patrimoniale tesa a favorire gli accordi con la Corona britannica vicina ai Guelfi tedeschi e a smussare le tensioni esistenti con gli stessi nel Regno di Germania, l'imperatore convocava a Magonza una dieta imperiale che conseguiva come primo obiettivo la pace con i Guelfi, con Ottone di Bruns-wick-Lüneburg, e la cessione di un territorio allo stesso Ottone. La pace maguntina, esito legislativo della dieta indetta da Federico II, che si riconfermava sagace legislatore e portatore di pace e giustizia, capace di mettere ordine anche negli interessi tedeschi (Horst, 1981, p. 242), conteneva in ventinove capitoli, scritti sia in latino che in tedesco, anzi prima in tedesco piuttosto che in latino, con caratteri in tal modo di assoluta novità per le leggi imperiali, una sequela di prescrizioni estremamente significative, tappa importante del processo di trasformazione dal diritto non scritto allo scritto, distintivo del periodo storico: in particolare per la storia costituzionale dei territori tedeschi rappresentava una prima solida base di una legislazione scritta, nella quale i singoli diritti rimessi ai principi "erano trattati come materia della legislazione imperiale" (ibid., p. 243), e comportava perciò una chiara novità nell'ordinamento giuridico del Regnum Germaniae. Con la pace si provvedeva inoltre a un riassetto dell'organizzazione giurisdizionale, ponendovi al vertice un giustiziere in rappresentanza dell'imperatore e indipendente dai principi. Escluso il ricorso all'autotutela privata, tranne che nel caso di legittima difesa, si intendeva imporre a ciascun suddito l'utilizzo degli organi di giustizia regolari per far valere le proprie ragioni. Contemporaneamente si aboliva il duello come strumento giuridico di risoluzione delle controversie, sulla scia di quanto era stato fissato tanto nelle Assise di Capua quanto nel capitolo II, 32 delle Costituzioni di Melfi. Pene severe colpivano i rei di ricettazione e l'estremo supplizio era comminato per i colpevoli d'omicidio; particolarmente degno di repressione era il comportamento dei figli ribelli, macchiatisi di gravi colpe nei confronti dei loro padri per avere agito o tramato ai loro danni.
Si è fatto cenno ad un'altra tendenza della politica legi-slativa federiciana quella accentratrice: un esempio ne sono i diversi provvedimenti attuati a cominciare dal 1239 per riorganizzare in modo ‒ appunto ‒ accentrato il Regno italico, al fine di creare una forte struttura di governo capace di superare anche i periodi d'emergenza. Nell'impossibilità di approfondire in questa sede i diversi aspetti di tale attività legislativa, ci si limiterà a fornire qui qualche esemplificazione: nel riassetto si abolivano le legazioni imperiali mentre si dividevano i territori in vicariati generali, incarichi ricoperti da funzionari dipendenti direttamente dall'imperatore, anzi organi dell'imperatore, dotati di ampi poteri di governo e anche militari, destinati a durare in carica per un tempo breve e ad essere di frequente trasferiti. Al di sopra dei vicari generali si collocava re Enzo, o piuttosto Enrico di Sardegna o di Torres e Gallura, come era chiamato nell'atto con cui il padre, il 25 luglio 1239 (in M.G.H., Leges, 1896, nr. 217), lo nominava vicario generale d'Italia o "legatus totius Italiae de latere nostro". I compiti assegnatigli, vastissimi, lo collocavano in rapporto di dipendenza gerarchica dal padre, di cui doveva fare le veci quale "persone nostre speculum pro conservatione pacis et iustitiae". Premessa all'insediamento del figlio nell'ufficio erano riflessioni sulle necessità di un governo di re e principi voluto dalla giustizia divina "ad extollenda iustorum preconia et reprimendas insolentias transgressorum" e la legittimazione di un forte potere per punire i facinorosi e andare incontro alle lamentele dei giusti. Si abbozzava nella concezione federiciana un ordinamento statale nello stato imperiale e svaniva lo spazio per organismi autonomi cittadini e feudali: città e contee erano affidate alle cure di un governo uniforme.
Ma Federico II, sovrano legislatore, doveva passare alla storia anche per altri suoi apporti al Corpus iuris civilis: per un processo di concentrazione 'eroica' intorno alla figura dello Hohenstaufen, nella tradizione feudistica, recepita da buona parte della dottrina sino al sec. XVIII, lo stesso inglobamento dei Libri feudorum nella decima collatio fu reputato frutto dell'impulso e dell'iniziativa di Federico. A contribuire alla creazione della 'leggenda' furono interpreti di vaglia della Scuola, quali il glossatore Odofredo e il celebre commentatore Baldo degli Ubaldi, giurista così completo da potersi ben qualificare a pieno titolo civilista, canonista e feudista: proprio nella sua Lectura feudorum egli non esitava ad attribuire al figlio di Enrico VI l'incremento della normativa romanistica grazie all'aggiunta della raccolta di diritto feudale. Anzi la stessa iniziativa della composizione di un unico corpus feudistico venne ricondotta da numerosi autori tra Quattro e Cinquecento a un progetto federiciano. All'origine di tali 'fantasie' vi erano attendibilmente variegate motivazioni; si trattava di verificare e rafforzare la legittimità di norme in alcuni casi di dubbia provenienza per il tramite del crisma imperiale: l'authenticitas o l'authorizabilitas di questa fondamentale fonte di diritto di origine consuetudinaria poteva avere, grazie all'approvazione ufficiale del sovrano svevo, di che essere corroborata, come affermava con sicurezza il perugino Baldo: "Apparet igitur […] quod iussu imperatoris fuit processum et opus probatum. Et ideo pertinaces desinant latrare deinceps" (Baldo degli Ubaldi, In feudorum usus commentaria, in praeludiis, nr. 4, in fine, Venetiis 1580, p. 2v), dove si può notare quanta rilevanza assumesse nella mentalità medievale il mito imperiale, poiché il solo richiamo alla volontà dell'imperatore sembrava sufficiente a un giurista così autorevole quanto l'allora professore pavese per far tacere chi contestava con pertinacia la validità della compilazione feudale.
Il nome del grande Hohenstaufen rimaneva peraltro legato ai Libri feudorum ancora per altre ragioni: a lui infatti una certa tradizione storiografica, di recente riaffermata, attribuiva la costituzione Sancimus in materia di diritto di protimisi, che veniva infatti collocata da Jacques Cujas all'interno della sua 'sistemazione' in cinque libri dei Libri feudorum. Quale sia stato il vero apporto di Federico in proposito è destinato a rimanere ‒ allo stato attuale delle ricerche ‒ un problema aperto, mentre si può riportare a suo merito, con un certo grado di probabilità, quello di avere promosso una traduzione dal greco in latino della Novella di Romano Lacapeno (o di Costantino Porfirogenito?) databile all'anno 922, e insieme ricordare come non sia mancato chi, a partire da Pietro Giannone per finire con Brunneck e Tamassia, identificava il misterioso autore della costituzione con il nonno di Federico II, l'imperatore Federico Barbarossa.
La necessariamente scarna ricostruzione qui condotta di alcuni dei profili significativi di un'intensa attività legislativa svolta durante i decenni di un tormentato governo pone in luce quanto questa risulti complessa e composita, originata da spinte diverse anche in rapporto al mutare delle esigenze politiche che spesso ne sono alla base, in sintonia con una Realpolitik espressione delle grandi doti di statista di Federico II. E tuttavia, al di là delle ragioni contingenti che spingono lo Svevo a legiferare, non rimane mai in ombra negli atti legislativi di provenienza imperiale una visione superiore del ruolo rivestito dall'imperatore, che compare in veste di dispensatore di pace e giustizia e insieme di architetto di una forte compagine statale, reputata da Federico come la sola capace di assicurare una tranquilla convivenza ai sudditi.
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