legislazione linguistica
L’espressione legislazione linguistica fa riferimento all’insieme dei provvedimenti di legge e delle disposizioni aventi rilevanza giuridica che lo Stato e gli altri soggetti pubblici a livello sovranazionale, nazionale o locale elaborano in materia di questioni linguistiche. A seconda delle sensibilità proprie dei diversi paesi, tali interventi possono riguardare temi come
la prescrizione della lingua che deve essere usata negli atti ufficiali e nelle istituzioni pubbliche; l’adozione di terminologie unificate e ufficiali; la fissazione della toponomastica e di norme relative all’onomastica; la difesa della lingua nazionale dall’influsso di altre lingue; la tutela o la repressione di lingue diverse da quella parlata dalla maggioranza della popolazione; ed anche vere e proprie riforme linguistiche (ad es., riforme dell’ortografia) (Cortelazzo 1988: 305).
Se fino a qualche tempo fa il «grado più alto di dignità legislativa» (Vassere 2000: 4) era rappresentato dalla norma costituzionale in quanto legge fondamentale dello Stato, nelle moderne società globalizzate è impossibile prescindere dallo sfondo internazionale. In particolare, per un paese come l’Italia, è difficilmente eludibile il rimando all’orientamento dell’Unione Europea e in generale degli organismi ad essa connessi. Il regime linguistico previsto dalla normativa comunitaria, in quanto risponde a una precisa istanza di «piena partecipazione dei cittadini alla costruzione ed alla gestione dell’Unione Europea» (Raffaelli 2005: 19), ha posto tutte le ventitré lingue ufficiali dell’Unione su un piano di parità, imponendo la redazione di tutti gli atti e documenti in ciascuno di tali idiomi e consentendo al cittadino europeo di rivolgersi all’istituzione comunitaria e di riceverne risposta nella propria lingua.
Non si può tacere tuttavia, a livello di applicazione pratica, che la possibilità di esercitare pienamente tale diritto soffre di una forte limitazione, dato che le ‘lingue di lavoro’ effettive sono in numero ridotto (l’inglese, il francese e il tedesco), il che di fatto le pone in una condizione di preminenza penalizzando fortemente altri idiomi di antica tradizione, come l’italiano e lo spagnolo (Carli & Felloni 2006; Gualdo 2008).
Un altro significativo spazio di intervento per i riflessi in tema di scelte nazionali di politica linguistica è l’espressa inclusione tra i programmi strategici comunitari della valorizzazione della diversità linguistica e culturale: il principio è richiamato agli artt. 149 e 151 del Trattato costituzionale istitutivo dell’Unione Europea (a partire da Maastricht 1992; ora Lisbona 2007) e nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea adottata a Nizza il 7 dicembre 2000 e proclamata una seconda volta il 12 dicembre 2007 a Strasburgo (i valori della diversità e del pluralismo sono in particolare evocati all’art. 22: «L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica»).
Altri strumenti legislativi a carattere sovranazionale sono la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie e la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali che, deliberate dal Consiglio d’Europa rispettivamente nel 1992 e nel 1994, hanno esercitato una importante funzione di indirizzo, capace di far superare le residue resistenze che si opponevano alla approvazione (1999) di una legge-quadro nazionale sulle ➔ minoranze linguistiche.
Non meno importante rilevanza riveste la nuova sensibilità giuridica degli organismi internazionali nei confronti dei gruppi minoritari, specie a partire dall’Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Helsinki 1975), che introduce il riconoscimento delle minoranze come soggetto collettivo.
Entrando ora nel merito della legislazione italiana, va notato in premessa il divario in termini di ‘principi’ tra le enunciazioni, aperte al pluralismo, che attraversano il testo della Costituzione italiana (entrata in vigore il 1° gennaio 1948) e la visione decisamente monolingue che ispirava tutta la produzione legislativa che va dalla formazione dello Stato unitario fino alla Seconda guerra mondiale (Cortelazzo 1988: 306; limitate aperture al bilinguismo figuravano nella stesura originaria dello Statuto Albertino, la precedente legge fondamentale dello Stato; cfr. Addeo 1940). Per lungo tempo, infatti, le leggi e le prescrizioni normative concordarono nel garantire preminenza alla lingua nazionale in tutti gli ambiti della comunicazione, a scapito di ogni altra forma espressiva. Se nella fase che va dal 1861 al primo dopoguerra gli interventi regolativi restano piuttosto blandi e limitati all’espressa indicazione dell’italiano come lingua ufficiale dell’insegnamento, con l’avvento del regime fascista subentra un marcato dirigismo (➔ fascismo, lingua del; ➔ politica linguistica) che si traduce in una regolamentazione linguistica più serrata e autoritaria.
L’obiettivo, ispirato a un coerente e rigido nazionalismo, era triplice:
(a) promuovere una drastica assimilazione delle varietà linguistiche minoritarie stanziate nel nostro territorio al termine della Prima guerra mondiale (tedesco dell’Alto Adige, francese in Valle d’Aosta, parlate slovene ai confini nord-orientali);
(b) emarginare l’uso dei dialetti, la cui pratica era percepita come in contrasto con i valori unitari;
(c) chiudere le porte alle parole di origine straniera in nome di un atteggiamento xenofobo e puristico.
Analizziamo ora in sintesi le leggi e i provvedimenti che danno attuazione a tali direttive, a cominciare dalle norme che, nello spirito della riforma Gentile (1923), si sbarazzano delle effimere indicazioni liberalizzatrici del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice affermando il primato esclusivo dell’italiano nel sistema dell’istruzione. In questo quadro gioca un ruolo importante il regio decreto 1° ottobre 1923, n. 2185, Ordinamento dei gradi scolastici e dei programmi didattici dell’istruzione elementare («Gazzetta Ufficiale» del 24 ottobre 1923, n. 250), il quale «sancisce l’uso dell’italiano come unica lingua dell’istruzione in tutte le scuole del Regno, quindi anche nelle nuove province» (Klein 1986: 72). L’applicazione di tale strumento normativo (con particolare riguardo all’art. 4, commi 1 e 2 e all’art. 17) aprì la strada all’italianizzazione forzata delle aree linguistiche alloglotte e in particolare dell’Alto Adige, assoggettato a una drastica degermanizzazione.
L’intervento normalizzatore non si esaurisce nell’ambito della scuola ma abbraccia tutti gli ambiti istituzionali, portando alla revisione della toponomastica (➔ toponimi; il regio decreto legge 29 marzo 1923, n. 800, fissa «la lezione ufficiale dei nomi dei comuni e di altre località dei territori annessi») e all’introduzione dell’obbligo di fare uso esclusivo della lingua italiana in tutti gli atti giudiziari (regio decreto legge 15 ottobre 1925, n. 1796, art. 1).
Quanto alla campagna antidialettale e all’interdizione delle forme di origine straniera, il controllo realizzato dal fascismo raggiunge il suo culmine intorno al 1930, traducendosi non solo in una cospicua serie di norme giuridicamente rilevanti (Klein 1986: 165-175 ha messo insieme un prezioso Indice delle disposizioni legislative e regolamentari e delle circolari ministeriali) ma anche in «una strabocchevole emissione di testi» collaterali, «differenti per natura, per provenienza, per modalità e ambito di diffusione» che vanno dalle note di servizio ministeriali alle istruzioni, dalle esortazioni ai telegrammi, ecc. (Raffaelli 1997: 31).
Con il secondo dopoguerra la netta discontinuità in tema di indirizzi di legislazione linguistica si incarna nel testo della Costituzione della Repubblica. Nella Costituzione il tema della lingua è toccato negli artt. 3 e 21, aventi rilevanza generale, e nell’art. 6, che concerne in modo specifico le minoranze linguistiche. Paradossalmente invece manca qualsiasi riferimento all’italiano come lingua ufficiale (tale silentium perdura tuttora).
Il comma 1 dell’art. 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni generali e sociali») si risolve nell’affermazione del principio di uguaglianza ‘formale’, vietando ogni forma di discriminazione che si fondi sulla lingua. Non meno importante il secondo comma («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»), che, in aderenza al principio dell’uguaglianza ‘sostanziale’, prevede un intervento attivo delle istituzioni per permettere a ogni individuo di esercitare i suoi diritti ed esplicare piena partecipazione alla vita associata: anche se non è qui menzionato il tema della lingua, va da sé che ogni qual volta «una distinzione di lingua sia ‘ostacolo’ alla realizzazione dell’eguaglianza, là è compito della Repubblica intervenire» (De Mauro 2001: 12). «Il combinato disposto delle due norme – per dirla nel gergo dei giuristi – conferisce identica capacità giuridica e dignità sociale al cittadino che conosce la lingua nazionale o soltanto un dialetto o la lingua straniera» (Nencioni 1997: 85).
Evidente anche la risonanza linguistica dell’art. 21, comma 1 («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»), la cui formulazione implica che la libertà di espressione in ogni tipo di idioma sia un diritto di tutti; indiretto il riflesso dell’art. 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura …»), che evoca il carattere di bene culturale del patrimonio idiomatico del Paese. Fortemente innovativo, anche se limitato a un’enunciazione generale, è l’art. 6 («La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche»), che introduce per la prima volta nel nostro ordinamento la previsione di una tutela dei gruppi minoritari.
Certo, l’applicazione del dettato costituzionale patì per molti anni una limitazione di fatto alle sole minoranze ‘riconosciute’ in virtù degli accordi internazionali, ossia ai tedescofoni dell’Alto Adige (con applicazione estensiva anche al gruppo ladino, «le cui vicende politico-istituzionali sono strettamente vincolate a quelle del gruppo tedesco»; Toso 2002: 1063; ➔ tedesca, comunità), ai francofoni della Valle d’Aosta (➔ francese, comunità) e alla comunità di lingua slovena della Venezia Giulia (➔ slovena, comunità), quando invece il principio espresso dall’art. 6 della Costituzione «riguarda qualunque collettività la quale presenti, di fatto, differenze etniche e linguistiche tali da giustificare la sua tutela» (Pizzorusso 1980: 36).
Dietro tale restrizione agiva un preciso ‘modello’, costruito in funzione di un quadro di protezione tipico degli anni successivi alla Prima guerra mondiale e ispirato all’esigenza di porre rimedio alle esigenze delle cosiddette minoranze di confine, individuate per discordanza tra composizione ‘etnica’ e composizione linguistica di uno Stato.
Perché l’indicazione costituzionale si traducesse efficacemente in atto si dovette attendere oltre cinquant’anni con l’approvazione della legge 15 dicembre 1999, n. 482 («Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche»), cui fece seguito il Regolamento di attuazione, entrato in vigore con la pubblicazione nella «Gazzetta Ufficiale» del 13 settembre 2001 e destinato in particolare a disciplinare le modalità di delimitazione dell’ambito territoriale di tutela e le misure da assumere in ambito scolastico, nella pubblica amministrazione e nei mezzi di comunicazione (per i profili giuridici si rimanda a Pizzorusso 1975; Carrozza 1986; Piergigli 2006).
Vale poi la pena di ricordare che fu varato uno specifico provvedimento a favore della comunità slovenofona (la legge n. 38/2001), con l’intento di «chiarificare ed unificare la normativa esistente, estendendo forme di tutela già attuate nelle province di Gorizia e Trieste anche agli slavofoni della provincia di Udine» (Malfatti 2004: 260-261). Inoltre la produzione legislativa nazionale in materia di minoranze linguistiche è stata affiancata e integrata da un articolato panorama di leggi regionali che hanno introdotto specifiche (ma non sempre coerenti) disposizioni in tema di valorizzazione delle alterità linguistiche e dei patrimoni linguistici locali (Tani 2006; Toso 2002, 2005). Se in un primo tempo si distinsero in tal senso le regioni a statuto speciale, dal 1970 in avanti enunciazioni di carattere programmatico relative alle minoranze linguistiche presenti nei rispettivi territori furono via via inserite anche negli statuti delle regioni di diritto comune.
La legge 482 ebbe il merito di superare l’originaria restrizione applicativa, estendendo il quadro di tutela da una parte ai gruppi alloglotti minori «sparsi in varie aree italiane, senza una particolare compattezza (e senza che vi siano accordi internazionali con gli stati di cui rappresentano, in qualche modo, la lingua e la cultura)» (Pellegrini 1986: 61), dall’altra alle varietà che, pur senza essere proiezione di una ‘lingua tetto’ esterna, possono far valere una spiccata e autonoma individualità linguistica (parlate ladine, friulano, sardo) rispetto al tipo linguistico nazionale. Inoltre ebbe sicuramente una importante funzione propulsiva nel processo di consolidamento dello status delle lingue minoritarie, concorrendo a incentivare la ‘lealtà linguistica’ delle comunità e a sviluppare un senso di appartenenza identitaria più saldo che fa sentire ormai come datata la marginalità di questi idiomi.
Non mancano tuttavia punti critici nel campo dell’applicazione (per un primo inquadramento di tali problematiche, cfr. Orioles 2003a, 2003b; Telmon 2006; Toso 2006, 2008): innanzitutto, forzando rispetto alla visione generalista del testo costituzionale, l’art. 2 individua analiticamente le varietà ammesse a tutela («la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo»), indirizzando le misure di protezione verso quelle caratterizzate come minoranze linguistiche storiche, in quanto rispondono al requisito di esser legate a un territorio e di essere di antico insediamento. In definitiva la legge risente ancora nella sua impostazione di una logica che lega la tutela delle parlate minoritarie al loro radicamento in una determinata porzione di territorio. Non vengono pertanto prese in considerazione le esigenze di riconoscimento di altri tipi idiomatici che, pur realizzando concrete e oggettive condizioni di alterità, non rientrino in questo parametro. Restano dunque ancora escluse dal quadro di tutela tre tipologie minoritarie: le eteroglossie interne (Orioles & Toso 2005), le minoranze diffuse (Orioles 2003a, 2003b) e infine, per citare il soggetto che oggi riveste maggiore rilievo, le cosiddette nuove minoranze (o lingue immigrate: Vedovelli 2008).
Nel primo decennio del XXI secolo è divenuto infatti cruciale il tema dell’immigrazione esogena. Indicatori quantitativi sotto gli occhi di tutti rivelano una crescita esponenziale del fenomeno: i dati più recenti, desunti dal XIX rapporto della Caritas (Immigrazione. Dossier statistico 2009: il rapporto contiene una stima dei soggiornanti stranieri al 31 dicembre 2008 pari a 4.329.000 unità, per una percentuale del 7,2% rispetto alla popolazione complessiva), impongono una presa in carico dei fabbisogni linguistici di queste comunità, che hanno avuto fin qui una risposta istituzionale elusiva, e incentrata piuttosto sulle questioni della sicurezza e dell’ordine pubblico.
Malgrado la rilevanza del fenomeno, la legislazione linguistica concernente gli immigrati presenti in territorio italiano non è andata al di là degli scarni riferimenti presenti nel Testo Unico di cui al decreto legge 25 luglio 1998, n. 286, recentemente integrati dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 («Disposizioni in materia di sicurezza pubblica»), che, all’art. 22, istituisce il test di conoscenza della lingua italiana al cui superamento è subordinato il rilascio del permesso di soggiorno; le modalità di svolgimento sono state demandate al decreto ministeriale 4 giugno 2010.
Se si fa astrazione dalla tutela delle minoranze, l’insieme delle misure concernenti gli usi linguistici appare piuttosto esiguo e incentrato più che altro su ordinamenti residuali e stratificazioni normative di antica data. A parte alcuni ambiti particolari (come, ad es., le denominazioni commerciali; Cortelazzo 1988: 308), possiamo citare, in campo scolastico, le indicazioni dei programmi della scuola media e della scuola elementare (a partire da quelli approvati nel decreto ministeriale 9 febbraio 1979 e con il decreto del presidente della Repubblica 12 febbraio 1985, n. 104; ➔ educazione linguistica) che, pur nella cornice della centralità della lingua nazionale, aprono al costitutivo plurilinguismo della nostra tradizione.
Inoltre, nella sfera amministrativa, vanno ricordati gli orientamenti legislativi che vanno nella meritoria direzione della semplificazione del linguaggio amministrativo (legge 7 giugno 2000, n. 150, e legge 18 giugno 2009, n. 69; ➔ giuridico-amministrativo, linguaggio). Per quanto riguarda infine la tutela dell’italiano all’estero, qualche spunto emerge dalla legge 3 marzo 1971, n. 153, e successive modificazioni, diretta a regolare le «iniziative scolastiche, di assistenza scolastica e di formazione e perfezionamento professionali da attuare all’estero a favore dei lavoratori italiani e dei loro congiunti» (Pizzoli 2007).
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