legismo (Fajia «scuola della legge») Scuola filosofica cinese. Fajia è termine che ricorre per la prima volta nello Shiji («Memorie di uno storico») di Sima Qian (n. forse 145 - m. forse 86 a.C.) e che in genere indica alcuni pensatori accomunati dal convincimento che solo la legge o la norma possa stabilmente e con giustizia governare gli uomini. Guan Zhong (m. 645 a.C.), primo ministro dello Stato di Qi, è considerato l’antesignano della dottrina della scuola, tant’è che a essa sono dedicati alcuni capitoli del Guanzi (➔) («Libro del maestro Guan»), opera attribuitagli dalla tradizione e composta durante l’epoca degli Stati Combattenti (secc. 5°-3° a.C.). La legge o il potere normativo ha un primato as- soluto, da cui lo stesso sovrano trae legittimità nell’esercizio del potere: potere civile, militare e giudiziario. Tra gli altri maestri della scuola, Zi Chan (m. 522 a.C.) si distinse per aver comminato pene durissime; Li Kui, fiorito verso la fine del 5° sec. a.C., primo ministro e mentore del marchese Wen dello Stato di Wei, favorì l’educazione e lo sviluppo dell’agricoltura; Wu Qi dello Stato di Wei fu assai attivo nel rettificare la condotta degli uomini dell’epoca, nel promuovere la rettitudine fra sovrani e ministri e nell’esortare tutti a una maggiore armonia nelle relazioni familiari; ma fu sicuramente Shang Yang (m. 338 a.C.) una delle figure più influenti. Membro della casata reale di Wei e ministro del duca Xiao dello stato di Qin, il suo nome rinvia anche all’opera intitolata Shang jun shu («Libro del signor Shang»), composta in un periodo precedente alla dinastia Han (secc. 3° a.C
3° d.C.) da alcuni suoi immediati seguaci e vivida attestazione della sua dottrina. L’azione di Shang Yang, sorretta dalla dottrina della radicale distinzione tra fa («legge», «modello») e xing («punizione»), limitò notevolmente lo strapotere delle famiglie aristocratiche, finanche con l’abolizione dei privilegi della primogenitura; favorì le virtù marziali, premiando il valore militare; stimolò ogni crescita economica, agevolando lo sviluppo demografico. E soprattutto, fissata la pena per ogni sorta di reato, questa doveva essere applicata a tutti gli uomini senza distinzione di rango, sottraendola così al libero arbitrio di qualsivoglia sovrano. Han Fei, filosofo cinese del 3° sec. a.C. e fra i più rappresentativi del l., attribuì a Shen Buhai (m. 337 a.C.), primo ministro dello Stato di Han, l’idea di shu («metodo», «arte», «tecnica»), considerata in seguito il suo peculiare contributo dottrinale. La tradizione legò il suo nome anche a una breve opera intitolata Shenzi («Libro del maestro Shen»), preservata solo in alcuni frammenti. Shu è il modus con cui il sovrano controlla i ministri e in genere l’amministrazione centrale e periferica, giacché ogni tentativo di usurpazione o semplicemente di indebolimento del trono si genera dapprima nella struttura interna del potere. Fu sempre Han Fei a ricordare Shen Dao (350 ca.-275 a.C.), da non pochi altri annoverato fra i taoisti, come colui che elaborò l’idea di shi («circostanza», «carisma», «posizione di potere»): la regalità non discende dal mandato celeste, ma è una condizione che accade, favorita da certe circostanze e da quel carisma spontaneo, naturale proprio di chi è all’apice della gerarchia.