LEGITTIMA DIFESA
. La discriminante della legittima difesa, riconosciuta da tutte le legislazioni, forma uno degl'istituti più saldi, per ragione naturale e giuridica, del diritto penale. Derivante dal principio generale che non delinque chi, ledendo le pretese o gl'interessi di un altro uomo, fa cosa cui aveva diritto o si serve di mezzi consentiti dalla legge, l'istituto della difesa legittima ha avuto, nella storia del diritto, una lunga e complessa elaborazione.
Nel diritto romano riguardò la difesa della vita, dell'integrità personale e del pudore. Relativamente alla difesa della proprietà, si ritenne che, salvo che alla tutela della proprietà non andasse congiunta anche quella della persona, non vi fosse luogo a discriminante alcuna. Nel diritto barbarico la necessità della difesa non fu considerata come causa assoluta di irresponsabilità, per la preponderanza che nell'antico diritto germanico aveva l'elemento oggettivo e per il legittimo uso della vendetta privata. Nel Decretum Gratiani il diritto di difesa si riaffermò esplicitamente e solennemente come diritto naturale. Nell'epoca di mezzo, specie attraverso le elaborazioni dei pratici italiani, il concetto della difesa legittima si venne facendo più largo: furono considerati come oggetto di difesa la vita, l'onore e i beni, fu riconosciuto il diritto di difesa anche all'estraneo e venne escluso l'obbligo della fuga per l'aggredito. Man mano l'istituto venne considerato da un punto di vista molto più rigoroso e restrittivo, e dal Grozio è ammessa la legittima difesa della sola persona e nell'attualità di un pericolo assolutamente inevitabile. Il codice napoleonico collocò la disposizione relativa alla legittima difesa nel titolo dei reati contro la persona, stabilendo come requisiti la difesa da un'ingiusta e attuale aggressione di sé stesso o di altri o anche degli averi contro aggressori notturni e anche di giorno, trattandosi di furto o saccheggin con violenza. Più ampie furono le disposizioni delle legislazioni del gruppo germanico, perché poste, d'ordinario, nella parte generale del codice ed estese alla difesa della salute, della libertà, del pudore e della proprietà.
Da tutta questa lunga elaborazione e da questi varî sviluppi dell'istituto sono derivate numerose dottrine, filosofiche e giuridiche, che hanno cercato di fissare la formula del fondamento vero della difesa legittima. Per alcuni il fondamento si ritenne doversi ricercare nel principio che l'azione cessa di essere illecita quando costituisce l'esercizio d'un proprio diritto. Per il Grozio la difesa dell'aggredito va considerata come un atto di diritto naturale, non punibile come tale ma non del tutto incensurabile dal punto di vista religioso. Per il Kant, poiché la necessità non ha legge, o, più chiaramente, poiché nel momento della necessità la legge non può agire efficacemente, dovrà accadere che l'azione su cui la pena non può esercitare la sua influenza debba andare impunita, e quindi la difesa privata è un'azione ingiusta ma non punibile.
Il Pufendorf ricorse all'idea della perturbazione, e sostenne che la responsabilità penale veniva a sparire perché la presenza del pericolo produceva nella mente una perturbazione tale da renderla incapace di frenare i suoi moti e sottoporli al dominio della ragione. Il Fichte e altri sostennero che l'aggredito ha diritto di uccidere l'aggressore, perché questi, violando il dovere che aveva di rispettare l'altrui vita, ha perduto il diritto di mantenere rispettata la sua. Questa teorica fu denominata della collisione degii uffici. Tutte queste teoriche cedettero il posto alla teorica generalmente riconosciuta come la più fondata e razionale, per cui la difesa per necessità non è una facoltà da limitare, ma un'esigenza da tutelare nel campo del lecito giuridico, un diritto da sancire entro i suoi giusti termini in sostituzione del diritto di punire dello stato. Tale deve ritenersi essere il pensiero delle principali legislazioni moderne, prima fra tutte la francese, e questa dottrina ebbe fra i suoi maggiori esponenti F. Carrara e E. Pessina. Il concetto essenziale della suddetta dottrina è questo: che ogni qualvolta il presidio della giustizia sociale si manifesti tardo e impotente a impedire il male che si minaccia e la difesa privata possa con minor male impedirla, altrettante volte risorge il diritto della difesa privata.
Passando a parlare dei requisiti della legittima difesa, secondo i principî di diritto in materia, e in concordanza dei principî seguiti dal legislatore italiano nel regolare l'istituto, essi possono ben fissarsi in questi tre termini essenziali entro cui li rinchiudeva il Carrara: 1. l'ingiustizia del male minacciato; 2. la sua gravità; 3. la sua inevitabilità. Quando un male è minacciato giustamente e legittimamente, manca il requisito della ingiustizia, come nel caso del condannato a morte che per salvarsi uccida il carnefice o il carceriere o di colui che respinga la forza pubblica in caso di arresto. E manca altresì tale requisito quando, sebbene il male che si minaccia ecceda i limiti della legittimità, vi sia stata ingiustizia da parte del minacciato, come nel caso del ladro o dell'adultero che, sorpresi e minacciati nella vita dal padrone o dal marito, per difendersi uccidano, e nel caso dell'eccitatore in rissa: in una parola in tutti i conflitti nei quali il pericolo abbia avuto occasione da un fatto riprovevole di chi reagisce. Quanto all'elemento della gravità del male minacciato, si può dire che esso è un elemento composto di un criterio oggettivo e di un criterio soggettivo, entrambi questi criterî dovendo essere regolati dai limiti della ragionata opinione del pericolo e della proporzione. Per potersi far luogo alla discriminante della difesa legittima, il pericolo sovrastante dovrà pur essere oggettivamente grave, ma, d'altro canto, per giudicare rettamente, occorrerà indagare se siano intervenuti o meno, e in quale misura, tutti quegli elementi soggettivi, attraverso i quali si possa ricavare quale fosse la condizione psicologica dell'aggredito nel momento del fatto.
Occorre a questo proposito fermare il concetto che la gravità di un sovrastante pericolo può e deve ben essere valutata anche sotto il punto di vista dell'obiettività e della normalità di quel che suole comunemente accadere; ma non può esser mai valutata in maniera assoluta e matematica, sibbene in maniera relativa e mutevole. In altri termini occorre anche considerare come si presentò il sovrastante pericolo alla mente dell'aggredito nel momento del fatto, quali furono e poterono essere gli elementi soggettivi, oltre che oggettivi, del suo timore e della necessità di difendersi. Se però il criterio della relatività del concetto di gravità del pericolo riflette il suo necessario riverbero sulla configurazione giuridica della difesa legittima, non cessa dall'essere regolato da limiti precisi. L'opinione personale della gravità di un sovrastante pericolo deve pure essere sempre una ragionata opinione, e non si può indulgere al capriccio di ogni e qualsiasi valutazione suggettiva al difuori e al disopra di un razionale adeguamento con la realtà dei fatti e delle situazioni. Il criterio della proporzione deve sempre guidare nella valutazione dell'elemento della gravità del pericolo in relazione alla difesa e alla necessità di essa, in maniera che fra la reazione violenta e il male minacciato interceda sempre un nesso razionale e plausibile di causa a effetto. Il male minacciato deve essere poi inevitabile. L'inevitabilità del pericolo si desume da tre criterî: 1. che sia improvviso; 2. che sia presente; 3. che sia assoluto. Il pericolo deve essere improvviso, perché, se era previsto, come previsione certa, vi sarebbe colpa nell'affrontarlo e cesserebbe la ragione sociale e giuridica della difesa legittima che è, come si è detto, una sostituzione necessaria della difesa del privato alla difesa dello stato. Il pericolo deve altresì essere presente, attuale, perché, se si tratta di un pericolo passato, la spinta ad agire non potrebbe mai trovarsi in una necessità di difesa, che ha in sé insito l'attributo dell'attualità. Di fronte a un pericolo passato si può agire per vendetta, per ritorsione, per sdegno, non mai per difendersi. Infine, bisogna che il pericolo sia assoluto, in quanto il danno non possa evitarsi con altri mezzi innocenti, quali la preghiera, l'acclamazione, la fuga. Gli scrittori classici del diritto penale insistevano rigidamente sull'estremo dell'assolutezza del pericolo, ponendo però le due condizioni che i mezzi che avessero potuto allontanare il pericolo fossero in realtà utili, cioè efficaci alla salvezza, e che di tale utilità potesse istituire il calcolo lo stesso aggredito. La tendenza prevalente nella dottrina moderna, pure partendosi dal principio fondamentale che la giustificazione della difesa legittima deve sempre essere la necessità, è invece nel senso che non si possa in ogni caso negare la discriminante, solo perché non si sia fatto uso dei mezzi suaccennati. Fondandosi sulle ragioni superiori della natura e della dignità umana, si ritiene che colui che è ingiustamente aggredito non abbia il dovere di dare prova di viltà, cercando di disarmare l'avversario con le preghiere o fuggendo.
L'istituto della difesa legittima nel codice penale italiano del 1889 era regolato dall'art. 49, n. 2, sotto il titolo della "Imputabilità e delle cause che la escludono o la diminuiscono". Come si evince dal tenore del citato articolo, la legittima difesa riguardava il caso della difesa tanto propria quanto di altri, e si riferiva, così come era chiarito anche dai lavori preparatorî, alla persona, cioè alla vita, all'integrità personale e al pudore, non ai beni.
Nell'art. 52 del codice penale del 1930 gli elementi giuridici della difesa legittima rimangono invariati: soltanto si estende la tutela a ogni diritto. È consentita una difesa diretta della proprietà, ma in casi più particolari e sotto più rigorose condizioni. Quando l'agente abbia sconfinato da termini segnati dalla legge, si ha la figura giuridica dell'eccesso di difesa di cui all'art. 55.
Bibl.: F. Carrara, Programma, I, Torino 1929, par. 291; E. Pessina, Elementi, I, Napoli 1907, par. 71; G. B. Impallomeni, Cod. pen. illustrato, I, Firenze 1899; n. 115; E. Ferri, Legittima difesa reciproca, in Sc. pos., 1893, p. 264; G. Fioretti e A. Zerboglio, Sulla legittima difesa, Torino 1894; E. Florian, Trattato, I, Milano 1910, p. 484.