Abstract
La tradizionale ricostruzione della legittimazione e dell’interesse al ricorso è condizionata dalle incertezze che ancora insistono sulla figura dell’interesse legittimo. La facile accessibilità del processo amministrativo, espressa dalla legittimazione ampia, è il frutto della sistematica dequotazione dei requisiti della qualificazione e della differenziazione delle situazioni giuridiche di diritto sostanziale. La centralità rivestita dall’interesse al ricorso nel processo amministrativo (sconosciuta al processo civile) è invece spia della perdurante concezione processuale dell’interesse legittimo ed è funzionale a tenere in piedi un modello di giudizio dai tratti oggettivi.
Come emerge anche dalla comparazione col processo civile, i tempi paiono maturi per ripensare la disciplina delle condizioni dell’azione e armonizzarla ai canoni soggettivi di un processo di parti.
Il tema delle condizioni dell’azione, benché attenga al terreno processuale, riguardando aspetti preliminari alla trattazione di merito (Villata, R., Interesse ad agire II) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur. Treccani, 1989, 1), è sensibilmente condizionato dalla ricostruzione delle posizioni soggettive (Ferrara, R., Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Dig. disc. pubb., 1993, 468). Il modo in cui, infatti, sono intesi la legittimazione e l’interesse a ricorrere tradisce le perduranti incertezze sulla figura dell’interesse legittimo e si riflette sull’oggetto del giudizio e sulla natura e sulla funzione della giurisdizione amministrativa. Lo dimostra, come si vedrà, una (pur rapida e limitata) comparazione con il processo civile, dove la teorizzazione sulle condizioni dell’azione si fonda su dati ormai acquisiti dall’esperienza giuridica e in larga misura verificabili alla luce del diritto positivo (Costantino, G., Legittimazione ad agire, in Enc. giur. Treccani, 1990, 2). Per quanto il dibattito processual-amministrativistico si sia dimostrato impermeabile (Travi, A., Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2017, 194), partire dai risultati raggiunti dalla dottrina del processo civile consente di evidenziare le specificità del nostro giudizio e al contempo le distorsioni di prospettiva che tuttora caratterizzano la dialettica tra sostanza e processo e che contribuiscono a tenere in piedi un modello di tutela non del tutto conforme ai canoni del processo di parti.
La legittimazione ad agire è una specie della più generale categoria della legittimazione, volta a individuare «il soggetto che può compiere validamente un determinato atto» (Costantino, G., Legittimazione, cit., 1). Viene normalmente ascritta tra le condizioni dell’azione (sulla differenza tra legittimazione-condizione dell’azione e legittimazione-presupposto processuale, Sandulli, A.M., Manuale di diritto amministrativo, II, Napoli, 1989, 1216; dubita della utilità della distinzione Villata, R., Legittimazione processuale. II) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur. Treccani, 1990, 2), essendo il presupposto per ottenere un provvedimento giudiziale, che può assumere un diverso contenuto a seconda che l’azione sia ricostruita come diritto all’ottenimento di un provvedimento favorevole oppure come diritto a un provvedimento di merito tout court (Tomei, G., Legittimazione ad agire, in Enc. dir., XXIV, 1974, 2).
Il dibattito sulla teoria dell’azione ha condizionato la ricostruzione della legittimazione in modo tanto significativo che, nella tradizionale polarizzazione tra teoria astratta e teoria concreta, la legittimazione ha faticato a emergere come categoria autonoma. Chi considerava l’azione come un diritto a sé stante, esistente a prescindere dalla sussistenza di una posizione soggettiva, ne postulava la completa astrazione dal diritto sostanziale, rinunciando così all’essenza stessa delle condizioni dell’azione: l’unico presupposto della pronuncia giudiziale era il diritto, di chiunque, di esercitare l’azione per ottenere una sentenza “qualunque” (ossia, non necessariamente di merito: Rocco, U., La legittimazione ad agire, Roma, 1929, 21 e 46), con la conseguenza che la legittimazione ad agire perdeva «ogni peso e rilevanza”» riducendosi a mera «legittimazione di fatto» (in proposito, Tomei, G., Legittimazione, cit., 67; Carnelutti, F., Diritto e processo, Napoli, 1958, 110). Chi, viceversa, legava l’esistenza dell’azione all’esistenza del diritto fatto valere in giudizio, ammetteva la configurabilità della legittimazione, ma praticamente la riconosceva soltanto all’attore che avesse ragione, in quanto effettivamente titolare del diritto. In entrambe le ricostruzioni, la legittimazione era priva di rilievo sistematico: nella prima, perché l’unica condizione della pronuncia del giudice era la domanda e non vi era dunque spazio per l’istituto della legittimazione; nella seconda, perché si produceva un dualismo tra diritto sostanziale e azione tale da appiattire la legittimazione sulla titolarità del diritto vantato (Satta, S., Variazioni sulla legittimazione ad causam, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, 638; in proposito Costantino, G., Legittimazione, cit., 3).
L’autonomia dell’istituto della legittimazione è seguita a una concretizzazione della teoria astratta dell’azione: si è cercato, cioè, «pur restando nell’àmbito dell’astrazione, di riempirla, dandole un contenuto concreto, con un collegamento, una coordinazione dell’azione alla ragione sostanziale nella domanda, in forma di ragione o di affermazione, e quindi come elemento essenziale di essa» (Tomei, G., Legittimazione, cit., 68).
Si tratta di una regola oggi sancita in positivo dall’art. 24 Cost. («tutti possono agire in giudizio a tutela dei propri diritti») e in negativo dagli artt. 69 (azione del pubblico ministero) e 81 c.p.c. (sostituzione processuale) e riassumibile nel principio della «normale correlazione tra titolarità del diritto sostanziale e titolarità del diritto di azione», che trova la sua ratio «nel carattere normalmente disponibile dei diritti oggetto del processo civile» (Proto Pisani, A., Lezioni di diritto processuale civile, 2006, 293). L’art. 24 Cost., in particolare, stabilendo il principio di atipicità dell’azione (Proto Pisani, A., Introduzione sulla atipicità dell’azione e la strumentalità del processo, in Foro it., 2012, 1 ss.; Chiovenda, G., L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di diritto processuale civile, I, Milano, 1993, 4), rappresenta una «norma in bianco», che «aderisce» a tutte le norme sostanziali attributive di diritti che dunque funzionano «come fattispecie» rispetto a esso e lo mettono «automaticamente in moto» (Andrioli, V., La tutela giurisdizionale dei diritti nella Costituzione della Repubblica italiana: discorso inaugurale dell’anno accademico 1954-55, Pisa, 1955, 9).
In questa ottica, ormai prevalente nella riflessione processual-civilistica, la legittimazione diventa la cerniera tra sostanza e processo: non è più riconosciuta a ‘chiunque’, ma solo a chi si affermi titolare del diritto, ossia «che proponga domanda per un diritto proprio o comunque faccia valere una propria legittimazione relativamente a un diritto altrui», come avviene nell’art. 81 del c.p.c. L’azione e la legittimazione devono pertanto avere «un concreto riferimento al diritto sostanziale», ma il rilievo del diritto sostanziale in giudizio «è solo formale e si determina nel momento della domanda, concretandosi nell’invocazione della tutela per un diritto proprio, nell’affermazione di un diritto proprio, non nella effettiva titolarità, accertata dal giudice, del diritto che si fa valere» (Tomei, G., Legittimazione, cit., 68; Attardi, A., Legittimazione ad agire, in Dig. disc. priv. (sez. civ.), 1993, 525; Liebman, T.E., L’azione nella teoria del processo civile, in Problemi del processo civile, Napoli, 1962, 22 ss.; Fazzalari, E., Note in tema di diritto e processo, Milano, 1957, 109 ss.; Allorio, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 200 ss.).
Dunque: strumentalità tra sostanza e processo, legittimazione come snodo tra i due momenti ossia ‘mera’ affermazione della posizione soggettiva di cui si chiede tutela, e azione quale aspirazione a un provvedimento di merito sono i punti chiave della ricostruzione processual-civilistica. La riconduzione della legittimazione sul piano della ‘affermazione’ del diritto vantato (Monacciani, L., Azione e legittimazione, Milano, 1951, 282) anziché su quello della effettiva titolarità è frutto di una opzione teorica che ha uno specifico pratico, in quanto si ripercuote sulla sua rilevabilità d’ufficio, sulle norme applicabili di diritto internazionale privato e sul tipo di pronuncia (di rito anziché di merito) emanata all’esito dell’accertamento della sua insussistenza (Proto Pisani, A., Lezioni, cit., 295; ritiene invece che anche sulla legittimazione sia necessario pronunciarsi in merito Tomei, G., Legittimazione, cit., 68 ss.).
Anche nel processo amministrativo la ricostruzione della legittimazione a ricorrere è stata condizionata dal particolare assetto dei rapporti tra diritto sostanziale e processo, ma portando a esiti sensibilmente differenti. La perdurante incertezza sulla consistenza (sostanziale o processuale) dell’interesse legittimo e, quindi, sul suo oggetto, si è tradotta in una frequente commistione tra sostanza e processo: per un verso, le questioni di legittimazione non di rado trascolorano nelle questioni di merito; per l’altro, gli accertamenti sulla sussistenza dell’interesse legittimo spesso vengono risolti sul piano processuale, in termini di sussistenza o meno della legittimazione e/o dell’interesse ricorrere.
Con riferimento al primo aspetto, basti considerare che per essere legittimati a ricorrere nel processo amministrativo non è sufficiente affermarsi titolari della pretesa sostanziale (come avviene nel processo civile), ma è necessaria la verifica sulla effettiva titolarità (Travi, A., Lezioni, cit., 194): l’accertamento sulla legittimazione non è più preliminare alla trattazione di merito, ma è esso stesso un accertamento di merito, con conseguenze anche in punto di giudicato. Ciò dipende, prima ancora che dall’assenza di una reale strumentalità tra diritto sostanziale e processo, dalla difficoltà di individuare nell’interesse legittimo, e non nell’atto o nel potere, l’oggetto del giudizio (come sembra invece doversi dedurre dalla Costituzione e dal Codice del processo amministrativo: Ferrara, L., Domanda giudiziale e potere amministrativo. L’azione di condanna al facere, in Dir. proc. amm., 2013, 617 ss.). Se invece si continua a ritenere che l’esito del giudizio non sia determinato dalla titolarità di una posizione giuridica sostanziale, «sibbene dall’illegittimità del provvedimento impugnato», è evidente che sul piano dell’affermazione non si collochi «la titolarità della situazione protetta», bensì «l’illegittimità del provvedimento impugnato» poiché è solo il provvedimento illegittimo che può causare la lesione di quella posizione (Villata, R., Legittimazione, cit., 2).
Quanto al secondo profilo, la nebulosa consistenza dell’interesse legittimo si traduce nella frequente dequotazione dei requisiti della qualificazione e della differenziazione (sull’interesse legittimo come posizione qualificata e differenziata, v. Travi, A., Lezioni, cit., 66; Sandulli, A.M., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1990, 105): per attivare la tutela davanti al giudice amministrativo è spesso sufficiente «un interesse di fatto, abbinato ad un criterio fattuale che permetta di circoscrivere la cerchia di coloro nei cui confronti si concretizza questo interesse di fatto» (Trimarchi Banfi, F., L’interesse legittimo: teoria e prassi, in Dir proc. amm., 2013, 1009). Nell’accordare tutela nel processo amministrativo, cioè, non solo si prescinde da un’indagine sulla volontà legislativa di tutelare il bene in discussione, ma si opera una differenziazione tutta fattuale, anch’essa sganciata da ogni riferimento positivo. La implicazione è duplice: da un lato, viene offerta tutela a situazioni solo «occasionalmente protette», che riecheggiano le concezioni ‘oggettivistiche’ più risalenti (Ranelletti, O., Principii di diritto amministrativo, I. Introduzione e nozioni fondamentali, Napoli, 1912, 430 ss.); dall’altro, per quel che qui più interessa, l’interesse legittimo è interamente proiettato sul piano processuale, così confondendosi con la legittimazione e/o con l’interesse a ricorrere.
Un primo esempio di tale confusione si ricava dalla cospicua giurisprudenza che, in materia edilizia e di tutela della concorrenza, ricostruisce la legittimazione a ricorrere dei terzi a partire dal criterio della vicinitas: emblematico è il caso del vicino di casa ovvero del concorrente operante nel medesimo settore merceologico, legittimati a impugnare l’autorizzazione resa ad altri in quanto ‘prossimi’, a prescindere dalla esistenza “di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale” (Cons. St., IV, 16.3.2010, n. 1535; Cons. St., IV, 12.5.2009, n. 2908). Nondimeno, il criterio materiale della prossimità non dovrebbe essere sufficiente a dare rilevanza giuridica a un interesse di mero fatto: l’interesse del vicino o del concorrente non si distingue dagli interessi della generalità dei consociati, perché, in assenza di indici normativi di segno contrario, la pubblica amministrazione non ha un obbligo puntuale nei suoi confronti, come non lo ha nei confronti degli abitanti in una certa zona o degli operatori di settore (sul punto sia consentito rinviare a Mannucci, G., La tutela dei terzi nel diritto amministrativo. Dalla legalità ai diritti, Rimini, 2016, 287 ss.). Dunque, diversamente da quanto solitamente argomenta il giudice amministrativo, in questi casi il problema della legittimazione nemmeno potrebbe porsi, mancando i requisiti per la configurabilità di una posizione sostanziale: non vi è legittimazione (non può esservi legittimazione) perché manca l’interesse legittimo.
Una ipotesi analoga si ricava anche da quella giurisprudenza che, in materia di ricorsi escludenti incrociati, rigetta la domanda del concorrente che lamenta l’assenza delle condizioni di gara dell’altro partecipante, facendo leva proprio sulla assenza di legittimazione. Tuttavia, come è stato osservato, qui non è in gioco un problema di legittimazione, bensì «la sussistenza (o meno) della situazione giuridica soggettiva (dell’interesse legittimo) dell’una e dell’altra parte, sulla base dell’esistenza (o meno) dei requisiti di partecipazione alla gara»: proprio quei requisiti, infatti, integrano «il fatto costitutivo della pretesa», mentre il «vizio» di legittimità derivante dalla mancata esclusione del concorrente rappresenta «il fatto lesivo o l’inadempimento della p.a.» (sul punto, anche per indicazioni giurisprudenziali, v. Ferrara, L., Un errore di fondo?, in Giorn. dir. amm., 2014, 924). L’accertamento sulla assenza dei requisiti per concorrere non è, dunque, una questione processuale di (assenza di) legittimazione, bensì, ancora una volta, un problema sostanziale di (assenza dell’)interesse legittimo.
Infine, anche nell’affrontare il problema della giustiziabilità degli interessi diffusi non di rado si sovrappongono il piano sostanziale e quello processuale (in proposito v. già Villata, R., Legittimazione, cit., 5, ma anche Caianiello, V., Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1994, 540 s.). Di fronte a interessi difficilmente individualizzabili, per un verso, si ammette che «l’esclusivo fattore di legittimazione» sia l’interesse al ricorso (Ferrara, R., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Dig. disc. pubb., 1993, 499; con specifico riferimento alle cd. situazioni di rischio, Lombardi, R., La tutela delle posizioni giuridiche meta-individuali nel processo amministrativo, Torino, 2008, 99) e, per l’altro, ci si concentra sulla individuazione dei soggetti (normalmente collettivi) legittimati a fare entrare quegli interessi in giudizio: si prescinde, cioè, da ogni tentativo di risolvere il problema a livello delle posizioni soggettive, traslando sul terreno processuale una questione che in realtà è propriamente sostanziale (in senso critico, Cudia, C., Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Rimini, 2012, 125 ss.).
Le distorsioni prospettiche in punto di legittimazione si ricollegano al modo di intendere la natura della giurisdizione amministrativa.
La legittimazione ampia, finalizzata a favorire un controllo di tipo ‘oggettivo’ sul pubblico potere, riflette la fluidità dell’interesse legittimo ed è ritenuta il proprium del diritto amministrativo. Per contro, l’adesione a un modello di tutela squisitamente soggettivo postula una maggiore aderenza della legittimazione al dato sostanziale, sulla scorta di quanto avviene nel diritto processuale civile. Non di rado si assiste a una radicalizzazione di tali posizioni: a chi teme che rinunciare al carattere oggettivo della giurisdizione significhi rinunciare a un importante elemento di garanzia offerto dal diritto amministrativo (come nota Merloni, F., Funzioni amministrative e sindacato giurisdizionale. Una rilettura della Costituzione, in Dir. pubbl., 2011, 497, la riduzione delle posizioni tutelabili di fronte al potere determinerebbe la riduzione dell’area di scelte sindacabili), si contrappone chi, non senza qualche forzatura, riconduce l’intero sistema a un modello soggettivo, nel tentativo di ‘ripulirlo’ dalle più risalenti incrostazioni oggettivistiche (in proposito, criticamente, Manfredi, G., Interessi diffusi e collettivi, in Enc. dir., ann., 2014, 530).
Questa divaricazione teorica (e a tratti ideologica) sollecita due riflessioni.
Innanzitutto, il prezzo pagato per tenere in piedi la legittimazione ampia è la rinuncia a una chiara definizione dell’interesse legittimo e, in fondo, alla sua riconduzione tra le posizioni soggettive sostanziali: l’accesso al processo amministrativo continua a essere agevole non tanto perché le maglie della legittimazione sono ampie (Scoca, F.G., Modello tradizionale e trasformazioni del processo amministrativo dopo il primo decennio di attività dei Tribunali amministrativi regionali, in Dir. proc. amm., 1985, 279), quanto perché l’interesse legittimo si mantiene fluido e a tratti indefinito (similmente, Caianiello, V., Manuale, cit., 540 s.), assumendosi che si tratti di una pretesa dalla struttura gracile perché priva di reale autonomia dal potere. Questa concezione ormai non pone soltanto dubbi di compatibilità col diritto positivo, ma dimostra la sopravvivenza di un equivoco liberal-garantista (sul peso della tradizione nella ricostruzione dell’interesse legittimo v. Sordi, B., Interesse legittimo, in Enc. dir., ann., 2008, 724 ss.): se alle origini del processo amministrativo, l’accrescimento delle occasioni di controllo sul potere, assicurato appunto dalla legittimazione ampia, era l’unico modo per offrire tutela avverso l’amministrazione, oggi, che l’interesse legittimo ha raggiunto la maturità di una posizione sostanziale, tale concezione finisce per determinarne un anomalo effetto di ‘ipoprotezione’ e ‘iperprotezione’. Il deficit di protezione riguarda i titolari di una posizione soggettiva, che, pur meritevole di tutela, è garantita soltanto come frammento dell’interesse pubblico. L’eccesso di protezione si genera, per contro, con riferimento a coloro che, pur non essendo titolari di una pretesa individuale, sono comunque garantiti in ragione della pubblicità dell’azione e della sua funzionalizzazione a un pubblico interesse (sulla iperprotezione dell’interesse legittimo, Marzuoli, C., Le privatizzazioni fra pubblico come soggetto e pubblico come regola, in Dir. pubbl., 1995, 415; sul punto, se si vuole, si veda amplius Mannucci, G., La tutela, cit., 15 ss.).
In secondo luogo, la distanza tra i due modelli di giurisdizione (oggettiva e soggettiva) va relativizzata.
Lo conferma, innanzitutto, il dato comparato. In Europa, la contrapposizione tra giurisdizione oggettiva e giurisdizione soggettiva solitamente si riconduce alla opposizione tra il modello del ricorso per eccesso di potere francese, calibrato su un sindacato di tipo oggettivo, e il sistema processuale tedesco, in cui si tutelano soltanto posizioni soggettive individuali. Nondimeno, molte sono le reciproche ibridazioni e convergenze, accentuate dall’influenza del diritto europeo (Marchetti, B., Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir. proc. amm., 2014, 74 ss.; Caranta, R., La tutela giurisdizionale (italiana, sotto l’influenza comunitaria), in Chiti, M.P., Greco, G., (diretto da), Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte generale, II, Milano, 2007, 1062 ss.). Si assiste così a un duplice movimento: l’uno, nel senso della soggettivizzazione di processi tuttora forgiati sul paradigma dell’‘attacco all’atto’, di stampo francese; l’altro, nel senso della penetrazione dei caratteri propri del sindacato sulla legalità in sistemi calibrati sulla tutela di interessi individuali, come quello tedesco (De Pretis, D., La tutela giurisdizionale amministrativa in Europa fra integrazione e diversità, in Riv. it. dir. pubb. com., 2005, 5 s.). Il primo movimento è ispirato da esigenze di garanzia individuale; il secondo, invece, si ricollega non di rado ad ambiti di intervento del diritto europeo in cui sembrano accentuarsi i tratti della giurisdizione oggettiva. Tuttavia, l’impatto ‘oggettivante’ del diritto europeo non è volto a riesumare i canoni della giurisdizione oggettiva delle origini, ma a creare ipotesi di legittimazione speciale in settori nei quali è più marcata la difficoltà di differenziare le posizioni soggettive (v. Marchetti, B., Il sistema integrato di tutela, in De Lucia, L., Marchetti B., (a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, Bologna, 2015, 199, che sottolinea come le modifiche ai Trattati in punto di ampliamento della legittimazione dei privati siano guidate dal principio di effettività della tutela). Si pensi alla materia ambientale, dove, pur in presenza di una qualificazione normativa, il più delle volte mancano indici di differenziazione delle posizioni soggettive, posto che tutti, potenzialmente, possono vantare il diritto a vivere in un ambiente salubre. A rigore, nell’ordinamento tedesco e negli altri affini, l’assenza di una posizione individuale differenziata impedirebbe l’accesso alla giustizia: è in questi casi che il diritto europeo si attiva per ampliare la tutela oltre i ristretti vincoli derivanti dall’impostazione soggettiva (Corte giust., 12.5.2011, C-115/2009, su cui Romano, M.C., Ordinamento amministrativo europeo, situazioni protette e oggetto del sindacato giurisdizionale tra Corte di giustizia e corti nazionali, in Dir. amm., 2014).
Una seconda conferma della ibridazioni tra modelli diversi di giurisdizione si trae dal diritto processuale civile. Nessuno dubita si tratti di un giudizio soggettivo, per quanto specifiche previsioni mostrino tendenze oggettivanti. Si pensi alla attribuzione della legittimazione a ricorrere al pubblico ministero in materie nelle quali i rapporti giuridici privati si caratterizzano per il coinvolgimento di “interessi pubblicistici” (Proto Pisani, A., Lezioni, cit., 294); oppure alla legittimazione delle associazioni dei consumatori a proporre azioni inibitorie ex art. 140 cod. cons., le quali, secondo alcuni, sono poste a tutela di beni insuscettibili di appropriazione individuale e sono quindi volte a coprire un vuoto di garanzia in un sistema rigidamente soggettivo, sulla falsariga del modello tedesco della Verbandsklage (in proposito, Caponi, R., Azioni collettive, interessi protetti e modelli processuali di tutela, in Riv. dir. proc., 2008, 1215 ss.; Troiano, O., Classe e interesse collettivo: prime riflessioni e Chiarloni, S., Il nuovo articolo 140 bis del codice del consumo: azione di classe o azione collettiva?, entrambi in Anal. giur. econom., 2008, rispettivamente 64 ss. e 125; sulle modifiche legislative degli ultimi anni, v. pure Giussani, A., Azione di classe e tutela antitrust: profili processuali, in Banca, borsa e titoli di credito, 2011, 378). In ipotesi siffatte siamo di fronte a scostamenti più o meno marcati dal modello soggettivo, ma la dottrina processualcivilistica non sembra temere derive oggettivistiche del sistema, né tantomeno la compromissione del modello costituzionale (in senso analogo, Clarich, M., I poteri di impugnativa dell'Agcm ai sensi del nuovo art. 21 bis della l. n. 287/1990, in http://justice.luiss.it/files/2013/10/Clarich-I-poteri-di-impugnativa-dellagcm-ai-sensi-del-nuovo-art.-21-bisdella-l.-n. 287-1990.pdf). D’altra parte, «non bastano l’esistenza di un qualche potere officioso e/o il perseguimento di un interesse generale per riconoscersi le caratteristiche della giurisdizione oggettiva» (Ferrara, L., Domanda, cit., 630, nt. 39, che sul punto richiama Tommaseo, F., I processi a contenuto oggettivo, in Studi in onore di Enrico Allorio, I, Milano, 1989, 100).
Di conseguenza, se, come la Costituzione imporrebbe, il processo amministrativo deve essere letto a partire dalle posizioni individuali, riconoscendosi nell’interesse legittimo il suo oggetto, quando il legislatore attribuisce la legittimazione a soggetti collettivi o comunque portatori di interessi insuscettibili di appropriazione individuale, pare doversi sdrammatizzare il pericolo di un ‘ritorno alle origini’. Si pensi alla legittimazione della Autorità garante per la concorrenza ed il mercato a impugnare provvedimenti o atti lesivi della concorrenza prevista all’art. 21 bis, l. 10.10.1990, n. 287 (una lettura oggettiva della norma è offerta da Cintioli, F., Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 21 bis della legge n. 287 del 1990), in www.giustamm.it, nonché da Clarich, M., I poteri, cit.; per Sandulli, M.A., Introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’AGCM nell’art. 21 bis L. N. 287/1990, in federalisimi.it, invece, la norma “soggettivizza” il bene concorrenza in capo alla Antitrust), o alla legittimazione delle associazioni ambientali, volta a tutelare beni che, pur essendo qualificati (ossia protetti da una norma dell’ordinamento) non sono ancora differenziabili perché possono coesistere in capo a una moltitudine indistinta di soggetti (sulla legittimazione delle associazioni, di recente, Delsignore, M., La legittimazione delle associazioni ambientali nel giudizio amministrativo: spunti per una comparazione con lo standing a tutela di enviromental interests nella judicial review statunitense, in Dir. proc. amm., 2013, 734 ss.). Proprio perché ipotesi del genere sono espressamente previste, esse rappresentano l’eccezione di stretto diritto positivo in un sistema plasmato sulla garanzia individuale e non hanno la forza di mutare la natura e la struttura del processo amministrativo attuale (Clarich, M., I poteri, cit.; Manfredi, G., Interessi, cit., 529).
L’interesse ad agire è disciplinato dall’art. 100 c.p.c., ai sensi del quale «per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse». Secondo la nota definizione chiovendiana, tale interesse serve a identificare il «danno ingiusto» che l’attore subirebbe «senza l’intervento degli organi giurisdizionali» (Chiovenda, G., Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1962, 167). È annoverato tra le condizioni dell’azione, al pari della legittimazione, essendo un «elemento necessario per la pronuncia di un provvedimento sul merito della domanda indipendentemente dal suo segno e, pertanto, condizione di ammissibilità della tutela richiesta» (Sassani, B., Interesse ad agire. I. Diritto processuale civile, in Enc. giur. Trecc., 1988, 2). L’interesse ad agire risponde a esigenze di economia processuale perché mira a evitare sentenze inutili ancorché fondate, e pertanto il suo difetto, rilevabile d’ufficio, dà luogo a una pronuncia di mero rito (Luiso, F.P., Diritto processuale civile, I, 2011, 220).
Ai fini della presente indagine, uno sguardo al versante processualcivilistico è utile per due motivi.
Innanzitutto, l’interesse ad agire viene chiaramente distinto dal diritto sostanziale fatto valere in giudizio (Proto Pisani, A., Lezioni, cit., 314; Carnelutti, F., Diritto e processo, 117; siffatta distinzione è esclusa solo dalla dottrina che fa coincidere il diritto di azione col diritto sostanziale di cui si invoca tutela: Satta, S., Interesse ad agire e legittimazione, in Foro It., 1954, IV, 169 s.). Pur essendo connesso al bene della vita finale (o meglio, alla sua conseguibilità, v. Satta, S., Art. 100, in Commentario al Codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 346), esso svolge infatti una funzione prettamente «procedurale» e «non assurge mai ad oggetto dell’accertamento» (Sassani, B., Interesse, cit., 3). Cosicché, mentre la valutazione dell’interesse ad agire consiste in una «prognosi» sulla «utilità» dell’effetto giuridico richiesto al giudice, la valutazione di merito rispetto al diritto dedotto concerne «l’effettiva conformità alla norma sostanziale dell’effetto giuridico che al giudice si chiede di pronunciare» (Id., Interesse, cit., 3).
In secondo luogo, anche tralasciando le tesi più estreme, secondo cui l’art. 100 c.p.c. sarebbe privo di portata precettiva (Redenti, E., Diritto processuale civile, I, Milano, 1980, 67; Allorio, E., Bisogno di tutela giuridica?, in L’ordinamento, cit., 231 s.; Mandrioli, C., Uso ed abuso del concetto di interesse ad agire, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, 342 ss., spec. nota 6), è difficile disconoscere che l’interesse ad agire abbia nel processo civile un ruolo piuttosto marginale. La sua utilità è infatti limitata alle azioni di mero accertamento e ai ricorsi cautelari (Attardi, A., L’interesse ad agire, Padova, 1958, 70 ss.; Id., Interesse ad agire (voce), in Nn. dig. it. VIII, 1962, 843), nei quali la dimostrazione della necessità del ricorso dipende proprio dal tipo di tutela richiesta (sulla sussistenza in re ipsa dell’interesse ad agire nelle azioni costitutive e di condanna v. Proto Pisani, A., Lezioni, cit., 314 s.)
L’interesse a ricorrere, quale «utilità concreta» materiale o morale, che il ricorrente vorrebbe ottenere dall’accoglimento del ricorso (Caianiello, V., Manuale, cit., 524; sulle diverse accezioni di “utilità” ritraibile dalla sentenza v. Perfetti, L.R., Diritto di azione ed interesse ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2004, 177), ha, nel processo amministrativo, una centralità sconosciuta al corrispondente istituto processualcivilistico (Villata, R., Interesse ad agire, cit., 1). Ciò dipende dalla perdurante connotazione processuale dell’interesse legittimo e dal conseguente «distacco del giudizio di legittimità da qualsiasi rapporto sostanziale», che fa dell’interesse a ricorrere «l’unico elemento rilevante per poter giudicare della possibilità del ricorrente di impugnare un determinato atto» (Ricci, G.F., Principi di diritto processuale generale, Torino, 2010, 135 s.; Ferrara, R., Interesse, cit., 479; Attardi, A., L’interesse, cit., 254). Per quanto sia un istituto centrale, l’interesse a ricorso mantiene confini nebulosi, che lo portano, da un lato, a confondersi con la legittimazione a ricorrere (Perfetti, L.R., Legittimazione e interesse a ricorrere nel processo amministrativo: il problema delle pretese partecipative, in Dir. proc. amm., 2009, 696 ss.; critica l’uso “interscambiabile” degli istituti della legittimazione e dell’interesse al ricorso Ferrara, L., Un errore, cit., 926) e, dall’altro, a sovrapporsi all’interesse legittimo (Spampinato, B., L’interesse a ricorrere nel processo amministrativo, Milano, 2004, 74 ss.), perdendosi in questo modo la linea distintiva tra sostanza e processo e, prima ancora, tra rilevanza e irrilevanza giuridica.
Questa confusione tra piani e tra istituti è ben esemplificata dalla giurisprudenza che ammette l’impugnazione della licenza edilizia da parte del vicino a prescindere dalla sussistenza di una posizione normativamente qualificata e di uno «specifico pregiudizio» (Tar Lazio, Latina, I, 30.9.2014, n. 752). In queste ipotesi, alla prossimità all’intervento assentito si riconoscono due funzioni, entrambe improprie. Da un lato, essa vale quale criterio di differenziazione, così confermandosi che nel processo amministrativo per ottenere tutela può bastare un interesse normativamente non qualificato, differenziato solo in via di fatto (Trimarchi Banfi, F., L’interesse, cit., 1009). Dall’altro, la prossimità integra anche l’interesse al ricorso, sul presupposto che ogni «alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio» inevitabilmente determini un pregiudizio (in termini di traffico, rumore, minore qualità ambientale etc.) per il vicino (Cons. St., IV, 22.9.2014, n. 4764). Questa impostazione produce una inversione tra sostanza e processo, essendo il giudice che, «nel momento in cui verifica una condizione dell’azione», attribuisce «la situazione di diritto sostanziale» (Trimarchi Banfi, F., L’interesse, cit., 1009), con l’effetto di offrire tutela a posizioni prive di consistenza giuridica. L’interesse al ricorso, d’altronde, sprovvisto di basi sostanziali, è un mero interesse di fatto, come tale, giuridicamente irrilevante (l’utilità di interpretare in modo elastico l’interesse al ricorso al fine di «ampliare lo spettro delle situazioni di giustiziabilità delle pretese del privato», valorizzando «quel carattere necessariamente oggettivo del processo amministrativo che garantisce l’effettiva rispondenza dell’azione amministrativa all’interesse pubblico individuato dall’ordinamento», è invece sostenuta da Lombardi, R., Interesse ad agire e giustiziabilità delle pretese del privato: una lettura oggettivistica del processo amministrativo (nota a Tar Lazio, sez. II bis, 19 aprile 2004, n. 3377), in Foro amm./Tar, 2004, 2182; analogamente, Ferrara, R., Interesse, cit., 474).
Una situazione simile si realizza nel caso dei ricorsi escludenti incrociati quando l’interesse al ricorso è declinato in termini ‘strumentali’, quale interesse alla ripetizione della procedura. Accade infatti che la giurisprudenza scrutini entrambi i ricorsi (quello principale e quello incidentale) sul presupposto della sussistenza dell’interesse di entrambi al rifacimento della gara, pur in assenza di una posizione soggettiva perché, per es., l’impresa ricorrente è stata illegittimamente ammessa (sul punto, Ferrara, L., Un errore, cit., 923 ss.; Fantini, S., L’influenza comunitaria sulle condizioni nazionali di accesso al giudizio amministrativo, in Urb. app., 2003, 1279). In casi del genere, non solo l’interesse strumentale si confonde con l’interesse legittimo (e con la legittimazione a ricorrere), ma, proprio perché manca una posizione soggettiva, esso finisce per essere un interesse di mero fatto «inidoneo, in quanto tale, a sorreggere ogni iniziativa giurisdizionale» (Giannelli, A., Interesse strumentale, motivazione e standstill sostanziale: il TAR Lazio tra innovazione e conservazione, in Urb. app., 2011, 4, cui si rinvia anche per indicazioni sulla giurisprudenza).
Ulteriori conferme si traggono, poi, dalla giurisprudenza che, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 21 octies, comma 2, l. 241/1990, rigetta il ricorso in annullamento per vizi meramente formali ritenendo insussistente l’interesse a ricorrere, sul presupposto che il privato non potrebbe ottenere dal riesercizio del potere un esito provvedimentale più favorevole (Cons. St., VI, 16.5.2006, n. 2763). Nondimeno, in casi simili, l’utilità dell’annullamento sussiste sempre (non foss’altro che per la possibilità di sopravvenienze), mentre quello che manca è proprio l’interesse legittimo, posto che, nel momento in cui il privato si rivolge al giudice, «la mancata realizzazione dell’interesse materiale è conforme a diritto e la definizione dell’incerto stato in cui versa la definizione dello stesso interesse materiale è avvenuta» (Ferrara, L., La partecipazione tra «illegittimità» e «illegalità». Considerazioni sulla disciplina dell’annullamento non pronunciabile, in Dir. amm., 2008, 107).
Che la ricostruzione dell’interesse a ricorrere sia condizionata dal modo di intendere l’interesse legittimo emerge anche dall’analisi dei suoi caratteri, ossia la personalità, la concretezza e l’attualità (su cui v. Travi, A., Lezioni, cit., 197).
La personalità implica che l’utilità ritraibile dalla pronuncia di annullamento vada a beneficio del ricorrente. Il carattere in questione, però, «viene spesso ricondotto alla titolarità dell’interesse sostanziale» e dunque «può seriamente dubitarsi che […] riguardi l’interesse ad agire» anziché la legittimazione (Villata, R., Interesse, cit., 4; Ferrara, R., Interesse, cit., 471) o l’interesse legittimo.
Il requisito della concretezza esprime invece il «nesso di causalità» tra l’atto e l’interesse alla sua impugnazione (Villata, R., Interesse, cit., 4). Nella giurisprudenza prevalente è richiamato insieme al requisito della attualità, che presuppone la necessaria immediatezza del vantaggio conseguibile dalla pronuncia. Proprio sulla base della insussistenza di un interesse attuale e concreto è tradizionalmente considerato inammissibile il ricorso contro gli atti generali (Tar Emilia Romagna, II, 26.6.2017, n. 477), i pareri (Ferrara, R., Interessi, cit., 474), gli atti non ancora efficaci (Caianiello, V., Manuale, cit., 536), le circolari (Tar Sicilia, Palermo, 4.12.2014, n. 3165), gli atti confermativi (Tar Liguria, II, 23.10.2017, n. 790) e quelli esecutivi (Cons. St., V, 8.4.1987, n. 234). Tuttavia, almeno con riferimento alla inoppugnabilità dei provvedimenti privi di effetti esterni (come le circolari o i pareri, gli atti non ancora efficaci, ma anche gli atti – genuinamente – generali), il difetto non sembra concernere l’interesse a ricorrere, bensì di nuovo l’interesse legittimo: il privato non può infatti vantare nessuna pretesa di fronte a un atto che non obbliga la p.a. nei suoi confronti. Ancora una volta, si assiste a uno scivolamento dal piano sostanziale a quello processuale (e viceversa).
L’attualità dell’interesse a ricorrere presuppone pure che esso sussista al momento della presentazione del ricorso e che perduri per tutto lo svolgimento del giudizio (Travi, A., Lezioni, cit., 198). Se durante il processo un mutamento nella situazione di fatto o di diritto priva di utilità la pronuncia, il giudice deve dichiarare il ricorso improcedibile, appunto, per sopravvenuta carenza di interesse (di recente, Tar Lombardia, 29.9.2017, n. 1876). La tendenza giurisprudenziale a utilizzare con larghezza questo tipo di pronunce, frutto della natura prettamente impugnatoria del processo amministrativo, andrebbe però ridimensionata alla luce della dell’art. 34, c. 3, c.p.a., secondo cui l’interesse al ricorso può sussistere anche soltanto a fini risarcitori (Travi, A., Lezioni, cit., 199).
Le peculiarità del giudizio amministrativo rispetto al processo civile in tema di condizioni dell’azione non riflettono una specialità processuale, ma sono il risultato di perduranti incertezze nella identificazione dell’interesse legittimo e del suo oggetto. Ne deriva una costante ibridazione tra piano sostanziale e piano processuale, che osta a una chiara definizione tanto della legittimazione quanto dell’interesse a ricorrere.
Sul primo versante, il mantenimento della legittimazione ampia, impropriamente considerata come presidio di garanzia, sottende una rinuncia tacita alla dimensione sostanziale dell’interesse legittimo: l’ampia accessibilità del processo amministrativo non dipende da una lettura elastica della legittimazione, ma da una interpretazione poco rigorosa dei requisiti sostanziali della qualificazione e della differenziazione. Sul secondo versante, la centralità rivestita dall’interesse a ricorrere nel processo amministrativo, sconosciuta al processo civile, è il frutto della persistente tendenza a connotare in senso meramente processuale l’interesse legittimo e a mantenere in vita tratti oggettivi del giudizio per favorire un più pervasivo controllo sul potere pubblico (per Ferrara, R., Interesse, cit., 477, la natura «indefinita e indefinibile» dell’interesse al ricorso dovrebbe esser protetta quale “fattore di positiva elasticità” del processo amministrativo).
Tutto ciò porta a concludere che dalla sostanzializzazione dell’interesse legittimo, pacificamente riconosciuta in via di principio, non sono ancora state tratte tutte le necessarie implicazioni. I tempi paiono nondimeno maturi per rileggere l’intera vicenda processuale a partire dalle situazioni soggettive individuali.
Artt. 24, 103 e 113 Cost.; art. 2907 e 2909 c.c.; artt. 69, 81, 99, 100 c.p.c.; art. 34 c.p.a.
Oltre agli scritti citati nel testo si vedano: Bassi, F., Interesse legittimo e fattori legittimanti, in Dir. proc. amm., 1986, 185 ss.; Cassarino, S., Le situazioni giuridiche e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 1956, 331; Del Prete, P., L’interesse a ricorrere nel processo amministrativo, in Rass. dir. pubb., 1951, 38 ss.; Giannini, M.S., La giustizia amministrativa, Roma, 1959, 196; Goisis, F., Il potere di iniziativa dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ex art. 21-bis l. 287 del 1990: profili sostanziali e processuali, in Dir. proc. amm., 2013, 471 ss.; Guicciardi, E., Interesse personale, diretto, attuale, in Studi sulla giustizia amministrativa, Torino, 1967, 82; Nigro, M., Considerazioni sulla parte pubblica nel processo amministrativo, in Foro amm., 1961, I, 548; Pagni, I., Azione inibitoria delle associazioni e azione di classe risarcitoria: le forme di tutela del codice del consumo tra illecito e danno, in An. giur. econ., 2008, 127 ss.; Romano, A., La situazione legittimante al processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, 511 ss.; Romeo, G., Interesse legittimo e interesse a ricorerre: una distinzione inutile, in Dir. proc. amm., 1986, 562 ss.; Vipiana, P.M., In margine ad un recente orientamento del Consiglio di Stato sul cosiddetto interesse strumentale a ricorrere, in Dir. proc. amm., 1987, 107 ss.; Zanobini, G., Corso di diritto amministrativo, II, Milano, 1958, 210.