GUIDICCIONI, Lelio
Nacque a Lucca, da Ippolito di Nicolao e Camilla Moriconi, e fu battezzato nella chiesa di S. Giovanni il 17 ott. 1582. Il padre, che discendeva dal ramo principale della famiglia ed era entrato a far parte del Consiglio degli anziani nel 1576, preferì avviare il figlio agli studi umanistici e religiosi, piuttosto che alla carriera politica cittadina, assecondando con ciò la più distinta tradizione familiare, illustrata da eminenti prelati, come il cardinale Bartolomeo e il di lui nipote Giovanni, vescovo di Fossombrone. A questi suoi avi il G. avrebbe serbato poi sempre grande devozione, tenendoli come modello di un felice connubio tra talento letterario, dottrina e virtù civile. Egli stesso ricordò più tardi come la sua giovinezza venisse "a simili studi drizzata e retta da sacro prelato" (Rime, Roma 1637, c. 10r). Venne infatti inviato a Roma per acquisire i primi rudimenti letterari, filosofici e teologici presso il seminario romano, dove, secondo il Lucchesini (p. 47), ebbe come guida il gesuita Bernardino Stefonio, allora noto in ambiente romano per i suoi interessi in campo poetico e soprattutto teatrale, e il cui nome ricorre spesso nelle opere del Guidiccioni.
Non erano nuove le relazioni che legavano Roma agli interessi dell'antica famiglia lucchese, e in questa circostanza il tramite poté forse essere facilitato pure dal contatto con Giulio Sacchetti. Anche questi di famiglia toscana, era nato a Roma nel 1587 e il G. dovette intrattenervi rapporti sin dalla prima giovinezza, se si dà fede alle parole che egli stesso rivolse al Sacchetti, divenuto cardinale, nel proprio testamento del 1638, in cui si dichiara suo "fedele et divoto servitore" fin dall'età di 14 anni (Arch. di Stato di Roma, Notai del vicario, uff. 30, c. 541v).
Di lì a poco entrò a far parte di quella cerchia di artisti e letterati che cominciava a gravitare intorno a Scipione Borghese Caffarelli, che nel 1605 era stato prontamente creato cardinal nepote dallo zio materno, il neoeletto Paolo V. Il G. doveva certamente condividere con il cardinale Borghese un sincero interesse per la cultura e per l'arte e infatti - come ricorda anche il suo primo biografo, G.V. De Rossi (Ianus Nicius Erythreus) nella sua Pinacotheca (p. 128) - egli rimase fedele al suo "signore" anche quando questi, dopo la morte di Paolo V, godette di minore fortuna. D'altra parte, la protezione del potente porporato, e la sua eventuale intercessione presso il pontefice, sarebbero potute tornare utili al giovane G. e alla sua famiglia, in particolare in quegli anni difficili che avevano visto l'acuirsi dei contrasti giurisdizionali tra la Repubblica di Lucca e il vescovo della città, Alessandro Guidiccioni il Giovane, parente del Guidiccioni. Tali contrasti ebbero in effetti ripercussioni anche sui più stretti congiunti del G., dei quali erano evidentemente note le simpatie filoromane, visto che il 25 febbr. 1605 il padre Ippolito venne fatto arrestare dal Consiglio cittadino e detenuto per sei mesi (Lucca, Biblioteca statale, Mss., 1115, c. 199).
Non è detto comunque che la disinteressata e durevole fedeltà del G. nei confronti del suo protettore non avesse alcuna contropartita, come riferisce l'Eritreo (De Rossi, p. 127), seguito dagli autori successivi (Lucchesini, p. 46). Se infatti il G. non fu investito di grandi cariche e onori pubblici, non dovettero però mancare del tutto i favori, come attesta per esempio il fatto che il 17 ott. 1608 Paolo V gli conferì il beneficio di S. Acconcio nella chiesa di S. Paolino a Lucca, già detenuto, dai tempi di Sisto V, dalla famiglia Montecatini, con la quale il G. sarebbe stato coinvolto in una lunga vertenza conclusasi solo otto anni più tardi.
Mentre in patria egli affidava la cura dei suoi affari ed eleggeva suo procuratore il fratello minore Cristoforo - il quale, tra l'altro, in quegli anni sarebbe stato nominato canonico della cattedrale di S. Martino -, a Roma il G. cercava di farsi un nome nei circoli colti della città. Il 27 marzo 1608 sottoscrisse il decreto della nuova Accademia degli Umoristi, appena fondata dal perugino Paolo Mancini con il concorso di illustri letterati, come A. Tassoni, G.B. Guarini, C. Quarenghi e molti altri. Quasi trent'anni dopo, nella dedica al lettore con cui introdusse la sua raccolta di componimenti poetici, il G. non mancò di rivendicare l'onore "di aver contribuito le prime stille" della "già surgente Academia, hor fatta sì grande, ed inclita", senza rinunciare peraltro a citare i suoi rapporti con altre accademie, come quelle degli Oziosi di Napoli e degli Insensati di Perugia (Rime, c. 14r). A questo periodo risalgono anche quelle che furono forse le prime prove pubbliche del G. nel genere lirico. Nel 1610, infatti, con lo pseudonimo di Carolus Aurelius, pubblicò a Milano le Ottave rime nella canonizzazione di s. Carlo Borromeo celebrata da n.s. papa Paolo V il primo giorno di novembre 1610. Nonostante lo pseudonimo, già l'Allacci, nelle sue Apes Urbanae del 1633, riconosceva correttamente le rime alla mano del Guidiccioni.
Nella Roma che si apriva allora alla grande stagione barocca il G. si era andato conquistando, soprattutto nelle cerchie curiali, una certa stima e notorietà, di cui si può trovare traccia in quelle opere che suoi colleghi e contemporanei dedicavano al censimento degli uomini illustri per dottrina e virtù poetica che davano vanto alla città: opere come la Theatri Romani orchestra di Giovan Battista Lauro, o le già citate Apes Urbanae del bibliotecario vaticano Leone Allacci e la Pinacotheca dell'Eritreo. Ma fu soprattutto in qualità di poeta encomiastico e oratore d'occasione che il G. venne ingaggiato dal suo mecenate cardinale Borghese, e a circostanze ufficiali e cerimoniali di tal genere sono infatti legate le opere da lui pubblicate in questo periodo. Quando il 20 ott. 1619 il papa celebrò nella cappella del palazzo di Monte Cavallo il matrimonio tra il nipote Marcantonio, principe di Sulmona, e Camilla Orsini, al G. venne chiesto di comporre delle stanze in onore "degli eccellentissimi principi di Sulmona", come recita il titolo del libello che fu poi dato alle stampe lo stesso anno a Viterbo.
Due anni dopo Paolo V morì e il suo corpo veniva deposto, dopo le solenni esequie, nella basilica di S. Pietro, ma il cardinale Borghese aveva in mente una più spettacolare cerimonia con cui rendere omaggio al defunto pontefice. Così, vincendo le resistenze di chi in Curia avrebbe preferito evitare un eccesso di fasti e onori, il potente prelato ottenne che le spoglie dello zio venissero trasportate da S. Pietro in S. Maria Maggiore con sfarzoso apparato. A un anno dalla morte, il 30 genn. 1622, si celebrò la solenne traslazione: il grandioso catafalco fu disegnato dall'architetto Sergio Ventura e decorato da una selva di statue di stucco commissionate all'astro nascente Gian Lorenzo Bernini. Al G., invece, il cardinale Borghese affidò, come era prevedibile, il compito di preparare un'orazione funebre, nonché di curare un'edizione che "immortalasse" l'evento anche negli aspetti più effimeri. Il prestigioso volume sarebbe stato infatti corredato di 19 incisioni realizzate da Theodor Krüger, e per fornire i disegni delle 16 statue berniniane di virtù il G. chiese la collaborazione di Giovanni Lanfranco. Per l'estate il lavoro era a buon punto e il curatore ne dava comunicazione al cardinale Borghese con una missiva spedita il 18 agosto da Bagni di Lucca (D'Onofrio, 1967, p. 293). Nel 1623, presso la stamperia romana di B. Zannetti, il G. pubblicò dunque il Breve racconto della trasportazione del corpo di papa Paolo V… con l'orazione recitata nelle sue esequie et alcuni versi posti nell'apparato. Il testo è degno di attenzione non tanto per le qualità della retorica eulogistica dell'autore, quanto piuttosto perché testimonia dei suoi rapporti con il milieu artistico romano e in particolare lo speciale apprezzamento da lui riservato al "Cavalier Bernino scultore nell'età nostra di chiaro grido", come ebbe a scrivere lodando le "trentasei statue di molta bellezza, finte di marmo et maggiori del naturale […] in brevissimo spatio condotte" (p. 16).
È anzi verosimile che il G. intercedesse personalmente, laddove possibile, presso i propri protettori a favore del Bernini. I due celebri busti di Scipione Borghese (Roma, Galleria Borghese) scolpiti dal Bernini poco prima della morte del cardinale, forse nel 1632, furono eseguiti sotto la diretta supervisione del G. e grazie alla sua "fortunata instigazione", se vogliamo dar credito a quanto egli scrisse poco più tardi in una lettera del 4 giugno 1633 indirizzata allo stesso Bernini e resa nota dal D'Onofrio nel 1967 (è conservata nella Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 2958, cc. 202-207). Nella lunga epistola, forse destinata alla pubblicazione, l'autore ricorda con toni ammirati di avere presenziato alla realizzazione del ritratto, compiuto con la solita prodigiosa rapidità "in sette brevissime sedute" (c. 205r) e poi replicato in tempi ancor più brevi per il noto imprevisto incidente che rovinò il primo esemplare. Degli stretti rapporti di stima che legarono il G. allo scultore è ancora più esplicita testimonianza un dialogo-recita rimasto inedito (Barb. lat., 3879, cc. 45-54) - e modernamente pubblicato da D'Onofrio, 1966, che lo data agli inizi di ottobre 1633 - in cui il G. discute appunto con il Bernini esponendo con argomenti eruditi le proprie posizioni circa le questioni topiche della poetica classicista, in particolare intorno al tema del problematico rapporto tra originalità e conservazione, esigenze di novità e ossequio della tradizione. Si tratta del tipico punto di vista di cui poteva farsi portavoce un intellettuale dell'ambiente e della formazione culturale del G.: non per caso egli non rinuncia a citare in un simile contesto la scolastica tomista e persino la cosmologia e l'astronomia, che, all'indomani del processo a Galileo, costituivano un problema di scottante e drammatica attualità. Ulteriori informazioni circa i suoi orientamenti poetico-ideologici in altri ambiti artistici - in primo luogo quello musicale, cui il G. dovette interessarsi attivamente - ci vengono anche dalle opere di suoi contemporanei e interlocutori, come Pietro Della Valle, che nel 1640 gli dedicò il proprio trattatello Della musica dell'età nostra che non è punto inferiore, anzi è migliore di quella dell'età passata.
Al servizio del cardinale Borghese il G. si era ormai evidentemente guadagnato la reputazione di amatore d'arte, oltre e prima ancora che di poeta, tanto da poter essere impiegato per speciali incarichi diplomatici, come accadde il 1° marzo 1628 in occasione della visita privata a Roma del granduca di Toscana Ferdinando II de' Medici con il fratello Carlo, quando il G. fu inviato ad accogliere gli ospiti nella villa Pinciana dei Borghese per illustrare "signas ac tabulas pictas, quibus ea villa referta est" (De Rossi, p. 128), compito per il quale l'amico del Bernini era certo il più indicato e competente. Lo stesso De Rossi ricorda infatti come il G. fosse "infiammato" da "incredibili tabularum studio ac cupiditate", al punto di essere disposto a spendere ingenti somme per comprare dipinti, sculture e altri oggetti artistici, anche se - a giudizio del suo biografo - un eccesso di entusiasmo era spesso andato a discapito dell'attendibilità dell'autografia delle opere da lui costosamente acquistate. A ogni modo la collezione di libri e di quadri che il G. aveva riunito nella sua abitazione nei pressi di piazza di Spagna godeva già di una certa notorietà quando il Totti ne faceva menzione nel 1638 nel Ritratto di Roma moderna.
Dopo la morte di Scipione Borghese il G. entrò nelle grazie del cardinale Antonio Barberini, nipote del papa Urbano VIII, che gli concesse, insieme con altri benefici, il canonicato in S. Maria Maggiore. Già nel 1624, a segnalare il proprio orientamento verso il polo d'attrazione barberiniano, il G. aveva omaggiato il nuovo pontefice con una delle tante composizioni a carattere celebrativo pubblicate in occasione dell'elezione: l'elegia De Urbano VIII ad summum pontificatum evecto (Roma). Né mancarono, sotto il papato del Barberini, altre occasioni ufficiali in cui il G. potesse segnalarsi nel genere ormai congeniale dell'oratoria epidittica, che univa l'esaltazione del munifico mecenate alla celebrazione del suo artista preferito: il cavalier Bernini. Nel 1633 venne infatti pubblicato a Roma l'Ara maxima Vaticana a summo pontefice Urbano VIII magnificentissime instructa, un lungo carme composto per l'erezione del baldacchino bronzeo di S. Pietro, seguito da altri versi latini dedicati al ritratto berniniano di Urbano VIII. Di un medesimo tenore sono pure la raccolta intitolata Delibatio mellis Barberini (Roma 1639) nonché l'Adlocutio Capitolina pronunciata il 27 sett. 1640 - e quindi edita a cura della Stamperia camerale - in occasione della solenne cerimonia che i Conservatori di Roma avevano organizzato per inaugurare in Campidoglio la grande statua del papa commissionata a proprie spese al Bernini.
Nel 1637 il G. dedicò al suo nuovo protettore, il cardinale Barberini, un volume di Rime, composte in circostanze diverse e intese evidentemente ad attestare le proprie credenziali di poeta e letterato a pieno titolo, visto che egli stesso riconosceva nella dedica di essere a Roma "a pena noto agli amici in latino" (c. 3v).
Nel volume era pure inclusa la traduzione da lui curata dei primi sei libri dell'Eneide, accompagnati da lettere e discorsi in difesa di Virgilio, di cui il G. fu strenuo ammiratore. Questo materiale confluì poi in un'edizione completa stampata qualche anno dopo dal Mascardi, nel 1642, con il titolo di Eneide toscana. Il volume delle Rime, di là dagli eventuali meriti artistici, è comunque interessante da un punto di vista biografico poiché contribuisce a far luce sui rapporti e le frequentazioni che l'autore intrattenne con gli ambienti romani, da quello curiale a quello accademico, da quello dei pittori - come testimoniano le poesie dedicate ad Annibale Carracci, a Giuseppe Cesari (il Cavalier d'Arpino), a Gaspare Celio - a quello musicale, con i frequenti riferimenti al già citato Della Valle o alla mantovana Eleonora Baroni, allora la più famosa cantante di Roma.
Il 12 apr. 1638 il G., già "debile per natura e stanco per accidente" (Rime, c. 2v), redasse le proprie ultime volontà, temendo una fine imminente, dato che nel testo predisposto per l'epitaffio precisava addirittura il giorno della morte (le idi di aprile). Visse invece per altri cinque anni, e il testamento fu integrato con un'additio del 12 giugno 1643.
Oltre ai lasciti per i parenti e gli amici più stretti, ai beni disposti a favore di varie chiese lucchesi e romane, e ad altre somme destinate in beneficenza, il G. si preoccupava di affidare ai propri esecutori testamentari - i cardinali Giulio Sacchetti, Francesco e Antonio Barberini - la cura e la custodia degli scritti dell'avo cardinale Bartolomeo, dei suoi lavori ancora inediti, nonché un'oculata vendita dei dipinti e degli oggetti più preziosi della sua collezione. La collezione, come si evince dall'inventario redatto il 30 apr. 1644, dovette essere relativamente cospicua, benché costituita di opere in larghissima misura oggi non identificabili.
Il G. morì a Roma il 7 luglio 1643 e fu sepolto, secondo la sua volontà, nella chiesa di S. Gregorio al Celio, accanto alla tomba dello zio Flaminio.
L'edizione moderna dei Latin Poems del G. è a cura di J.K. Newman e F. Stickney Newman (Hildesheim 1992).
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