MANFREDI, Lelio
Sono ignoti il luogo e la data di nascita di questo umanista le cui lettere sono pressoché gli unici documenti rimasti della sua vita. Il M. fu attivo a Ferrara nella prima metà del XVI secolo (parla di lui come "familiare nostro dilectissimo" il duca Alfonso I in una missiva del 1513 alla sorella Isabella, marchesa di Mantova, in Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, b. 1195), ma ebbe forse ascendenze mantovane, se, come sembra, appartenne alla stessa famiglia del matematico e astrologo Bartolomeo. Questa supposizione si basa sul fatto che si occupò di studi astronomici, come risulta dalla lettera scritta a Isabella d'Este da Ferrara il 21 nov. 1513: "in una grandissima fatica ch'io ho cominciato de certe tavole astronomice le quale torranno la fatica a tutti gli calculatori [(] queste dal nome di Vostra Excellentia si chiamarano le Tavole de la diva Isabella" (Philadelphia, ed. 2003, p. 10 n. 10). Il 6 ag. 1525 tentò di spiegare attraverso complicate combinazioni astrologiche una infezione di mal francese che aveva colpito Federico II Gonzaga (Gabotto, p. 41).
Le lettere del M., venticinque in tutto, scritte tra il 1513 e il 1528 sono conservate nell'Archivio di Stato di Mantova (Arch. Gonzaga, F.II.8, F.II.9, E.XXXI.3): la parte più cospicua del carteggio consiste di 17 lettere al marchese di Mantova Federico II Gonzaga, due lettere a Isabella d'Este, madre dello stesso marchese, due lettere inviate rispettivamente a Mario Equicola e Stazio Gadio, segretari ducali. Il carteggio comprende inoltre tre responsive di Federico e una di Isabella.
Secondo Libanori (p. 187), il M. fu dottore in legge; trascorse gran parte della sua vita a viaggiare per l'Europa, apprendendo molte lingue straniere, in particolare lo spagnolo. Mise a profitto le sue conoscenze per la corte di Mantova, traducendo dallo spagnolo romanzi cavallereschi, che destavano viva curiosità in Isabella d'Este.
Sin dal dicembre 1500 troviamo Isabella chiedere in prestito ad Antonia Del Balzo un esemplare del Tirant lo Blanch di Joanot Martorell (con la continuazione forse di Martí Joan de Galba) romanzo spagnolo di successo già dalla fine del Quattrocento (in valenziano fu impresso la prima volta a Valencia nel 1490; poi in castigliano, Valladolid 1511), ma l'opera era già molto famosa anche in Italia, specie nelle corti padane (probabilmente anche fonte, per l'episodio dei monaci che parlano a Rinaldo della storia di Ginevra, dell'Orlando furioso, IV, vv. 57-62; cfr. Rajna, p. 150). Era naturale perciò che Isabella desiderasse disporre di una versione in italiano: c'è sicuramente la sua iniziativa dietro il tentativo, non andato in porto, di fare tradurre l'opera in italiano a Niccolò Postumo da Correggio. Fu invece il M., malgrado numerose difficoltà, a portare a termine il lavoro.
Alla traduzione del Tirant, il M. pose mano già nel 1514, ma la lunghezza del testo e i numerosi problemi economici e di salute che lo affliggevano fecero sì che la traduzione fosse ultimata solo nel 1519 e stampata addirittura soltanto nel 1538. La vicenda, ricostruibile attraverso le lettere, mostra un percorso molto accidentato anche per il rapporto che si instaurò con Federico Gonzaga, il quale, seppure interessato alla traduzione per motivi ideologici e di autoaffermazione politica - data l'importanza assunta in quel momento storico dalla rivalutazione della cavalleria come fondamento del potere principesco - non fu largo di protezioni con il Manfredi. Il M. si lamentava infatti una volta di non avere copisti veloci, una volta di essere vittima di un ferimento che lo aveva portato "in periculo di morte" (Kolsky, p. 52), molto spesso di ostacoli finanziari che gli impedivano di proseguire il lavoro, e così via per cinque anni, durante i quali le sollecitazioni del Gonzaga si fecero sempre più insistenti. Nel 1519 la traduzione sembrava essere conclusa, secondo quanto il M. ne scrisse a Stazio Gadio, il 5 giugno, ma trascorse ancora del tempo prima che egli potesse andare a Mantova per consegnarla; qui peraltro incorse in altre disavventure: ammalatosi, fu costretto ad alloggiare in una locanda, ma non avendo abbastanza denaro fu costretto a lasciare in pegno alcuni abiti. Nella lettera del 22 maggio 1520 chiese soccorso a Federico, che lo sovvenzionò, migliorando un poco le sue precarie condizioni.
Probabilmente tra il 1525 e il 1528, come documentano le ultime lettere rimaste, il M. si era trasferito, se non proprio a Mantova, nel contado, dove morì presumibilmente alla fine del 1528, dopo aver sperato fino alla fine in una protezione della corte.
Solo dieci anni dopo arrivò la stampa del Tirante, in un elegante volume, oggi molto raro, che sin dal frontespizio metteva in rilievo i significati ideologici dell'opera: Tirante il Bianco valorosissimo cavaliere, nel quale contiensi del principio della cavaleria: del stato, et ufficio suo: dell'essamine, che debbe esser fatto al gentile, e generoso huomo, che dell'ordine di cavaleria decorar si vuole: e come dee esser fatto il vero cavaliere: della significatione dell'arme così offensive, come difensive: quali atti, e costumi appartengono al nobile cavaliere e dell'honore, del quale è degno d'essere honorato, (Venezia, P. Nicolini da Sabbio, "alle spese però del nobile huomo m. Federico Torresano d'Asolo", 1538).
All'iniziativa, e al finanziamento, di Isabella d'Este si deve la stampa di un'altra traduzione eseguita dal M. dallo spagnolo: la novella Cárcel de amor di Diego de San Pedro. La versione era già ultimata nel 1513, come risulta da una lettera indirizzata alla marchesa il 21 novembre, e uscì a Venezia nel 1514 per i tipi di G. Rusconi. Il racconto sentimentale, ricco di facili allegorismi e incentrato sul tema del superamento delle passioni amorose, della liberazione dal carcere costruito da Amore, attraverso la Ragione, che doveva avere presa immediata sul pubblico cortigiano dell'epoca, ebbe varie ristampe nel corso del secolo, alcune delle quali unite all'opera originale (Venezia, F. Bindoni - M. Pasini, 1533; per un elenco completo cfr. Cárcer d'amor: due traduzioni, pp. 144-151). Il successo dell'opera è testimoniato anche dal fatto che dopo la stampa del 1514 Isabella volle far tirare alcuni esemplari di lusso, che però, come le scrisse il M. in una lettera del 29 marzo 1515, si rovinarono perché furono manipolati prima che l'inchiostro fosse perfettamente asciutto (Kolsky, p. 48).
È probabile che al M. debba essere assegnata anche la traduzione di un altro romanzo spagnolo La historia de Grisel y Mirabella di Juan de Flores, un romanzetto in cui sono narrati i casi di due infelicissimi amanti, che fu tradotto in italiano come l'Historia di Aurelio et Isabella. Il nome del traduttore - d'invenzione o accademico - sotto cui andava l'opera era Lelio Aletiphilo, il quale celerebbe il M. secondo gli studiosi più antichi (primo fra tutti Rajna, p. 156 e nn.), mentre gli editori più recenti tendono a escluderlo. La prima edizione fu stampata a Milano, da G. Castiglione, a spese di A. Calvo, nel 1521, ma l'opera ebbe numerose ristampe per tutto il Cinquecento e oltre.
La notorietà del M. come traduttore e in quanto molto vicino all'entourage di Isabella d'Este è testimoniata da Cassio Brucurelli da Narni, che lo inserì in un passo de La morte del Danese (Ferrara 1521, c. 71v) accanto ad altri letterati "suggetti all'amore", che hanno cantato l'amore onesto, come P. Bembo degli Asolani, Niccolò Postumo da Correggio, Antonio Tebaldeo, Panfilo Sasso: "Lelio dui libri, uno per man, teneva / da lui tradutti ne la lingua toscha: / l'un Carcere d'amor chiamar faceva, / l'altro Tirante, ognun credo el conosca. / Questo a Fedrico marchese leggeva, / che in lingua externa, prima obschura e foscha / visto l'havea, et per tale exercitio / l'havea premiato di bon beneffitio". Il fatto che il Tirante fosse allora inedito testimonia che l'opera doveva godere di una buona circolazione manoscritta.
Indubbiamente molto meno famoso fu il M. come scrittore originale. Ne è prova il fatto che le sue fatiche non approdarono ai torchi e pare non destassero molto interesse neppure presso i suoi protettori, ampiamente incensati in queste opere. In alcuni casi non ci sono rimasti che i titoli, come per le Tavole astronomice promesse a Isabella d'Este, oppure come per una Egloga inviata a Federico Gonzaga il 5 ott. 1514. Di un'altra curiosa operetta intitolata il Pallazzo di Lucullo il M. parla nella lettera del 29 marzo 1515 a Isabella: per farsi perdonare dell'incidente occorso agli esemplari di lusso del Carcer d'amore, lui povero e non ricco come il più ricco di Roma antica, Lucullo, ma capace di edificare per lei un palazzo, decide appunto di offrirgliene uno letterario. L'opera, in cui sono descritte le sontuose architetture delle dimore di Lucullo, ritenuta perduta, è invece conservata alla Biblioteca nazionale Marciana di Venezia in un codice miscellaneo appartenuto ad Apostolo Zeno (Mss. it., cl. VII, 363 [=7873]; cfr. Kolsky, pp. 64 s.).
Un trattato sulla cavalleria di cui annuncia l'invio in una lettera al marchese Federico del 10 marzo 1518 ("mando un'operetta de l'ordine de cavaglieria [(] raccolta da autori latini, hebrei, alemani, inglesi, spagnuoli e francesi"), diviso in tre parti e forse incompiuto è conservato alla Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara (Mss., 30). L'opera, che sembra saccheggiare in buona parte Il Tirante, si apre con una dedicatoria a Vincenzio Musto e tratta dell'origine dell'ordine della cavalleria, delle cause della sua degradazione e delle cerimonie in uso.
Due commedie in volgare, di imitazione classica, il Paraclitus e la Philadelphia, risentono del genere commedia erudita propria delle corti padane del primo Cinquecento; sono rimaste manoscritte e ignorate dai principali repertori bibliografici antichi e moderni sulla commedia, fino alla riscoperta recente. Il Paraclitus, in terza rima, pervenutoci in esemplare unico (Parigi, Bibliothèque nationale, Fonds ital., 1086), fu composto probabilmente subito dopo la prima discesa in Italia, nel 1515, di Francesco I di Valois, menzionato nel prologo (v. 39) come "felice Augusto per Milano eletto", e comunque non oltre il 1521. Anche la Philadelphia, in prosa (conservata in testimone unico da Fonds ital., 1081 della Bibliothèque nationale di Parigi), è incentrata sul tema plautino dei fratelli dispersi, che, in questo caso, salgono da due a tre; è dedicata al re di Francia ed è presente sin dalla prima metà del Cinquecento nelle biblioteche reali francesi. Il termine ad quem è il giugno 1520, dal momento che in due lettere inviate a Federico II Gonzaga in quel mese il M. dice di avere al suo attivo alcune commedie (Philadelphia, ed. 2003, p. 15).
Ci è giunto infine un Poemetto in terzine, in dodici capitoli, in lode della virtù. L'impianto è dantesco, ma sono presenti echi ariosteschi: il M. finge di essere guidato in una visione dal suo maestro Niccolò Lelio Cosmico per descrivere l'oroscopo di Federico, che rappresenta la reincarnazione dell'imperatore Tito. L'opera è conservata in due manoscritti recanti versioni leggermente diverse e, soprattutto, due diversi dedicatari: al marchese Federico Gonzaga (quindi anteriore al 1530, data del conferimento del titolo ducale da parte di Carlo V) nel ms. 908 della Biblioteca Trivulziana di Milano; a Francesco I, in cui l'anima di Tito è trasmigrata al posto del Gonzaga, in uno conservato alla Bibliothèque nationale di Parigi (Fonds ital., 1030).
Edizioni. Istoria di Aurelio et Isabella di lingua castigliana in italiana tradotta da m. Lelio Aletifilo, a cura di A. Bonucci, Firenze 1864; Tirante il Bianco, a cura di A. Annichiarico et al., intr. di G.E. Sansone, Roma 1984 (trad. del M.); C. Zilli, Manfrediana. Un poema e una commedia inediti del primo Cinquecento italiano, Bari 1991 (pp. 97-144: il Poemetto; pp. 147-203: Paraclitus); Id., Frammenti di "Tirante" in un inedito manoscritto della Biblioteca Ariostea di Ferrara, in Studi mediolatini e volgari, XXXVII (1991), pp. 179-219 (a pp. 208-219 il trattato sulla cavalleria); Philadelphia, a cura di L. Terrusi, Bari 2003.
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