SOZZINI (Socini), Lelio
SOZZINI (Socini), Lelio. – Nacque a Siena nel 1525, sesto dei tredici figli del giureconsulto Mariano il Giovane e della fiorentina Camilla Salvetti.
All’età di cinque anni si trasferì con la famiglia a Padova al seguito del padre. Fu attratto molto precocemente dallo studio delle Sacre Scritture e si avvicinò a idee eterodosse, probabilmente influenzato dai gruppi anabattisti operanti in Veneto. Quando Mariano passò all’Università di Bologna, Lelio fece ritorno a Siena, dove si trovava certamente nella seconda metà del 1544. Qui si pose a capo di un gruppo di giovani studenti i quali discutevano e diffondevano idee ereticali, ponendo in dubbio l’autorità della Chiesa e i fondamenti scritturali del culto dei santi, tanto da attirare i sospetti dell’Inquisizione, che aprì un’indagine su di loro. Per motivi precauzionali Sozzini lasciò la città e tornò a Padova dove, almeno fino dal gennaio del 1545, riprese la trama delle sue relazioni e maturò definitivamente la scelta di occuparsi dei problemi della religione, dedicandosi allo studio dell’ebraico per avere accesso diretto alle fonti.
A questi anni risalgono incontri decisivi, per esempio con Matteo Gribaldi, collega del padre a Padova, e con Girolamo Busale, uno dei protagonisti dell’anabattismo italiano. È un dato di fatto che in quel periodo partecipò alle riunioni del movimento anabattista, come confermano le carte veneziane del processo contro l’antitrinitario Giulio Basalù il quale poneva Sozzini in un elenco di tredici persone che già allora negavano la divinità di Cristo (Stella, 1969, pp. 33 s.). Forse in seguito alla dispersione dei Collegia Vicentina, nel corso del 1546 Sozzini si trasferì a Bologna nella casa paterna dove, secondo le dichiarazioni rilasciate da Ulisse Aldrovandi all’inquisitore Girolamo Muzzarelli, si incontrava con un gruppo di eterodossi che leggevano e commentavano le opere di Camillo Renato (Rotondò, 2008, pp. 285 s.). La loro attività divenne manifesta l’anno successivo in occasione delle sessioni bolognesi del Concilio di Trento, quando «si immerse in pubbliche discussioni contro i vescovi. Per questo fu minacciato di essere mandato al rogo e perciò si allontanò e andò ad Augusta presso Bernardino [Ochino]», come scriveva Nikolaus Maier a Ulrico e Cristoforo del Württemberg (L. Sozzini, Opere, a cura di A. Rotondò, 1986, p. 32 nota). In realtà, Ochino a quella data si trovava già a Strasburgo. Forse Sozzini lo incontrò lì o più tardi a Basilea.
La partenza dall’Italia fu definitiva. Probabilmente Sozzini raggiunse Venezia e poi Chiavenna, nei Grigioni, dove incontrò Renato. A Basilea conobbe Sebastiano Castellione, Celio Curione, Bonifacio Amerbach, e si iscrisse all’università sotto il rettorato di Sebastian Münster per proseguire nello studio dell’ebraico. Sappiamo che successivamente fu a Strasburgo e in Inghilterra, poi rientrò a Parigi, da dove fuggì per motivi religiosi verso la Svizzera, prima a Ginevra alla fine del 1548, dopo a Zurigo e di nuovo a Basilea nell’estate del 1549, per tornare infine a Zurigo, la città che rappresentò da allora il centro dei suoi spostamenti. Rientrò in Italia solo due volte per periodi circoscritti nel 1552 e nel 1559. L’estrema mobilità e i rapporti che stabilì con i massimi teologi delle Chiese riformate (Giovanni Calvino a Ginevra, Heinrich Bullinger, Rudolf Gwalther e Johannes Wolf a Zurigo) testimoniavano probabilmente un reale desiderio di indagine e di conoscenza, piuttosto che una sostanziale estraneità ai problemi teologici di tali Chiese, come riteneva Delio Cantimori (L. Sozzini, Opere, cit., p. 41).
Di questo suo atteggiamento restano tracce nelle lettere che scambiò con Calvino e con Bullinger, dalle quali emerge la convinzione che vi fossero molti punti controversi nelle Scritture e che solo un’indagine razionale e libera dal peso delle autorità potesse avvicinare progressivamente alla verità. Ciò non toglie che Sozzini ponesse quesiti anche al fine di suggerire le risposte, spingendo l’interlocutore a riflettere sull’incongruenza di alcuni dogmi, secondo un metodo gradualistico che riprendeva quello di Renato o di Juan de Valdés. Nel corso del 1549 pose a Calvino questioni che alludevano alla realtà del nicodemismo italiano, recentemente condannato dal riformatore di Ginevra nel De vitandis superstitionibus: era lecito unirsi in matrimonio con una donna che, pur convertita nel cuore, continuava a praticare le cerimonie cattoliche? Era possibile ascoltare la messa senza danno, se costretti? E ancora – preannunciando invece argomenti poi sviluppati nel De resurrectione (1549?) – era necessario accettare letteralmente la dottrina della Resurrezione della carne anche se questa presentava aspetti in conflitto con l’evidenza razionale? Calvino, pur manifestandogli la propria stima, prima cercò di dissipare i suoi dubbi, poi in una lettera del 7 dicembre 1549 prese da lui le distanze: «Si plura desideras, aliunde petenda sunt, quoniam nunquam a me impetrabis, ut obsequendi tibi studio fines a Domino positos transiliam» (L. Sozzini, Opere, cit., p. 164). Quando tre anni dopo Sozzini lo pregò di non procedere con eccessivo rigore contro Jérôme Bolsec, che criticava la dottrina della predestinazione, Calvino ricorse a toni minacciosi: «serio iterum moneo: nisi hunc quaerendi pruritum mature corrigas, metuendum esse, ne tibi gravia tormenta accersas» (p. 181). Più paziente fu Bullinger, che continuò a considerare con indulgenza la curiosità del giovane italiano, invitandolo però a usare cautela. In una lettera del febbraio del 1552, dopo avere apprezzato in lui l’ardente desiderio di comprendere le Sacre Scritture, gli ricordò che «nostra religio non est infinita, sed in compendium redacta» e che «est sane theologia vera theorica, sed magis tamen practica» (p. 189).
Nel giugno del 1550 Sozzini si recò a Wittenberg, presentandosi a Filippo Melantone con commendatizie di Bullinger e Oswald Myconius. Si immatricolò all’università e risiedette presso l’ebraista Johann Forster, con il quale poté approfondire la conoscenza della lingua. Melantone fu impressionato dalle sue intelligenza e onestà intellettuale, e rimase sempre legato a lui da un profondo rapporto di stima. Nell’estate del 1551 gli fornì una lusinghiera lettera di presentazione per il viaggio che voleva intraprendere in Polonia. Sozzini partì il 23 giugno per Breslavia, dove conobbe il medico imperiale Johannes Crato von Krafftheim, poi raggiunse Praga e infine Cracovia, stringendo rapporti con Francesco Lismanini. Rientrò a Zurigo verso la fine del 1551, dopo essere passato per la Moravia, dove si trovavano numerose comunità di anabattisti italiani. Fu in Svizzera in tempo per assistere alla controversia tra Calvino e Bolsec, che si concluse con il bando di quest’ultimo da Ginevra il 23 dicembre 1551.
La durezza di Calvino lo spinse a intensificare il rapporto con Bullinger e con Gwalther, ai quali sottopose dubbi sempre più stringenti su delicate questioni teologiche, come il problema della natura dei sacramenti, che aveva costituito uno dei punti cardine del Consensus Tigurinus, l’accordo siglato nel maggio del 1549 tra la Chiesa di Ginevra e quella di Zurigo. Sozzini criticò il valore oggettivo che vi si attribuiva ai sacramenti, considerati segni della benevolenza di Dio verso gli uomini e non atti per mezzo dei quali gli uomini manifestano la loro fede, perché gli parve un’inopportuna concessione a Calvino. Cinque anni dopo sviluppò la questione in maniera organica nella De sacramentis dissertatio, muovendo da posizioni simili a quelle di Renato, e ne discusse con il teologo zurighese Johannes Wolf, al quale inviò una copia del trattatello affinché lo esaminasse, come risulta da una lettera di quest’ultimo datata 11 febbraio 1555 (L. Sozzini, Opere, cit., pp. 218-230).
Nella seconda parte del 1552 rientrò in Italia, forse per risolvere alcune questioni economiche. Prima fu a Siena, dove in seguito alla ribellione del 27 luglio contro il dominio spagnolo si erano aperti nuovi spazi per predicare le dottrine della Riforma. In quella circostanza svolse un’intensa attività di propaganda, della quale giunse notizia a Pier Paolo Vergerio nei Grigioni che ne informò Bullinger in una lettera del 10 marzo 1553 (Marchetti, 1975a, p. 130), e probabilmente fu allora che la sua immagine si impresse per sempre nella mente del nipote Fausto, poco più che tredicenne. Nell’autunno del 1553 Sozzini si trasferì a Padova presso Gribaldi, e qui ebbe probabilmente la notizia del rogo di Michele Serveto. Poi rientrò in Svizzera, prima visitando Renato a Chiavenna, successivamente proseguendo in direzione di Zurigo, dove giunse nel dicembre. Verso la fine di gennaio del 1554 fu a Basilea e nell’aprile a Ginevra.
Appare altamente improbabile, quindi, che abbia svolto un ruolo significativo nella preparazione del De haereticis an sint persequendis, il testo che rappresentò la risposta del gruppo di Basilea – Castellione e Curione in particolare – all’esecuzione di Serveto. Ciò nonostante egli si collocava appieno entro la stessa linea di pensiero e da quel momento in poi si avvicinò sempre più agli amici eterodossi, pur muovendosi con prudenza e senza rompere il rapporto formale con Calvino. Non esitò neppure a proporgli nuovi quesiti, ritornando sulla dottrina della predestinazione. Questa volta il riformatore di Ginevra rispose nella forma ufficiale di un consilium datato 6 giugno 1555. Da una lettera di Wolf del 9 agosto (L. Sozzini, Opere, cit., pp. 248-259) si desume che in quel periodo Sozzini stesse riflettendo in particolare sulla dottrina trinitaria.
Le sue opinioni su questo delicatissimo argomento avevano suscitato preoccupazione in tutti coloro che ne erano venuti a conoscenza. Celso Martinengo, pastore della comunità italiana di Ginevra, scrisse a Bullinger il 14 novembre 1554 per metterlo in guardia. Altre segnalazioni giunsero all’antistes di Zurigo da parte di Guglielmo Grataroli a Basilea e di Vergerio a Tubinga. Lo stesso Calvino in una lettera del 23 novembre espresse il timore che «virus quidem suum, quod hactenus aluit, tandem evomet, sicut apud nos» (p. 337), e accuse ancora più esplicite provennero da Giulio da Milano nei Grigioni, secondo il quale Sozzini condivideva apertamente il pensiero di Ario, di Serveto e degli anabattisti. Bullinger, allora, non poté esimersi dall’intervenire nei confronti dell’amico, in modo gentile ma fermo. Non lo denunciò né interruppe i rapporti con lui, bensì cercò di convincerlo con il dialogo e, dopo insistenti richieste, ottenne una sorta di confessio fidei, che Sozzini redasse in forma di lettera indirizzata agli ecclesiastici di Zurigo.
Il 15 luglio 1555 consegnò il testo definitivo, faticosamente concordato e pieno di ambiguità. Se da un lato affermava di rendere il dovuto onore ai concili di Nicea e di Costantinopoli, ammettendo che i termini trinità, persona, consustanzialità e altri simili non erano stati escogitati recentemente ma appartenevano al cristianesimo da mille e trecento anni, subito dopo lasciava intendere che la loro plausibilità era giustificata soltanto dalle circostanze storiche nelle quali i Padri li avevano coniati. Riaffermava invece la necessità di procedere alla libera indagine delle verità del cristianesimo, che non potevano rivelarsi se non come risultato progressivo di un dibattito senza preclusioni: «nunquam sinam me hac sancta libertate privari a maioribus quaerendi et disputandi modeste ac reverenter ad amplificandam rerum divinarum cognitionem» (p. 99). Bullinger volle credere nella sua buona fede e tranquillizzò gli avversari, garantendo che Sozzini non avrebbe più dato occasione di scandalo. La Confessio fidei rappresentò un punto di svolta perché, sebbene Sozzini mantenesse i rapporti con i teologi delle Chiese riformate anche dopo il 1555 (il carteggio con Bullinger e con Calvino proseguì almeno fino al 1559), fu molto più cauto e riservato. Si avvicinò ancora di più a Castellione e Ochino, il quale si era trasferito a Ginevra nel 1555. Conseguenza dei loro colloqui fu lo spostamento di Ochino verso posizioni antitrinitarie, come dimostra la presenza di citazioni testuali dalla Brevis explicatio in primum Iohannis caput di Sozzini nei Dialogi XXX del 1563, che costarono a Ochino l’espulsione da Zurigo.
Nell’agosto del 1556 il padre Mariano morì a Bologna e l’anno successivo la città di Siena cadde di nuovo sotto il dominio dei Medici. L’Inquisizione mise allora le mani sul patrimonio della famiglia. La difficile situazione finanziaria dovette essere il motivo principale che spinse Sozzini a programmare un ultimo ritorno in Italia. Per munirsi di salvacondotti tanto autorevoli da metterlo al riparo dai rischi e, forse, anche nella speranza di trovare terre più tolleranti verso gli esuli religionis causa, egli compì un lungo viaggio verso la Polonia. Tra il 1557 e il 1558 fu in Germania, a Tubinga e a Worms, dove incontrò Melantone. Tornato in Svizzera, Calvino gli fornì una commendatizia per il principe Nicolaj Radziwiłł di Lituania, forse nella speranza che Sozzini potesse svolgere un ruolo di propaganda della Riforma svizzera presso le corti dell’Europa orientale. Nel gennaio del 1559 Sozzini scrisse a Bullinger da Cracovia, dove frequentò la corte di Sigismondo II, trattenendosi in Polonia per sei mesi. I suoi rapporti più stretti furono però con esuli ed eterodossi, come Giorgio Biandrata e Lismanini, ormai convertito all’antitrinitarismo. Nella primavera partì per Vienna dove fu accolto da Massimiliano II, futuro imperatore, ottenendo da lui un’altra commendatizia che gli consentì di entrare in Italia con maggiore sicurezza.
Nell’estate del 1559 si incontrò a Venezia con alcuni suoi familiari per discutere del patrimonio. Ma i Sozzini erano ormai nel mirino dell’Inquisizione, in particolare Celso, Dario e Cornelio, che proprio in quell’anno subì il suo primo processo. Divenne impossibile mantenere il controllo dei beni. Lelio si trattenne solo poche settimane prima di rientrare a Zurigo, dove si trovava nel mese di agosto. Da quel momento visse appartato presso la casa di un tessitore di seta anabattista, concentrandosi sul commento al primo capitolo del Vangelo di Giovanni e mantenendo soprattutto le relazioni con il mondo degli eterodossi.
La morte sopraggiunse il 14 maggio 1562 all’età di trentasette anni.
Non rimangono testimonianze di reazioni alla notizia della sua scomparsa, se non una nota formale di Bullinger a Fabricius, segno forse del progressivo isolamento di Sozzini. Fu il nipote Fausto che, informato dall’esule milanese Mario Besozzi, si recò a Zurigo per raccoglierne le carte: annotazioni, lettere e opere incompiute, tra le quali la Brevis explicatio in primum Iohannis caput che fu il punto di partenza per la composizione della sua Explicatio primae partis primi capitis Evangelistae Johannis. La diffusione dei testi di Lelio e di Fausto, prima manoscritti poi a stampa dal 1568, seguì percorsi talvolta comuni, tanto che furono considerati inizialmente versioni differenti della medesima opera. Le due Explicationes ottennero consensi nei gruppi antitrinitari dell’Europa orientale e divennero il fondamento del pensiero teologico sociniano.
Nella Brevis explicatio in primum Iohannis caput Sozzini negò il dogma trinitario in funzione di una innovativa esegesi del più importante luogo biblico sul quale esso si fondava. Nonostante i debiti verso il pensiero di Serveto (in particolare il secondo capitolo del De Trinitatis erroribus) e verso il razionalismo filologico di Lorenzo Valla e di Erasmo da Rotterdam, l’originalità del suo commento al Vangelo di Giovanni venne percepita da teologi e controversisti del tempo, che vi individuarono un punto di svolta nella storia dell’antitrinitarismo cinquecentesco. Oltre un secolo dopo Richard Simon, uno dei fondatori della moderna critica neotestamentaria, ribadì che tale interpretazione era sconosciuta a tutta l’antichità (Simon, 1693, p. 839). Sozzini sostenne la natura interamente umana di Cristo, negandone quindi la preesistenza come persona della Trinità, sulla base dell’interpretazione delle parole «In principio erat verbum» con le quali si apre il Vangelo di Giovanni. Egli identificò il «verbum» (o «sermo» secondo la traduzione di Erasmo) non con il figlio eterno di Dio, ma con la parola del «Cristo uomo visibile, nato da Maria, che insegnò agli uomini la volontà del padre» (L. Sozzini, Opere, cit., p. 106). Quindi l’espressione «in principio» non doveva essere intesa come l’eternità oppure il tempo innanzi alla creazione del mondo, ma semplicemente come il momento in cui Cristo iniziò a predicare il Vangelo. A sostegno di questa conclusione egli addusse il fatto che in nessun altro luogo delle Scritture la parola «principium» è usata per designare l’eternità. Gesù era, dunque, un uomo reso divino da Dio padre, e la sua centralità nel disegno provvidenziale non risiedeva nel valore espiatorio del sacrificio sulla croce ma nella predicazione, per mezzo della quale aveva mostrato agli uomini la via della salvezza.
Le Opere di Sozzini sono edite a cura di Antonio Rotondò, Firenze 1986.
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