TORELLI, Lelio
– Nacque a Fano il 28 ottobre 1489 da Giovanni Antonio Malatesta e da Cammilla Costanzi; la sua famiglia era oriunda di Parma.
Le notizie del periodo giovanile, fornite da biografie edite e manoscritte, sono sovente incerte o persino erronee. Sappiamo che Torelli si recò per i primi studi a Ferrara, al seguito dello zio Iacopo Costanzi, che nell’ateneo di quella città insegnava lettere greche e latine. Tornato a Fano, fu costretto ad allontanarsi a causa degli scontri interni alla città. Riparato a Perugia, proseguì qui la sua formazione, ma è da escludere la notizia per cui si sarebbe addottorato in utroque all’età di ventidue anni, dal momento che nel marzo del 1512 risultava sempre iscritto alla matricola degli scolari.
In seguito, fu protagonista della vita politica della sua città. Nel 1516, durante le sollevazioni di Fano sotto la tirannia di Costantino Arianiti, Torelli, accusato di sedizione, fu condannato alla pena capitale. Fu però ambasciatore a Roma presso il pontefice e riuscì nell’intento di una pacificazione della sua città, che venne consegnata a Lorenzo de’ Medici. Proprio con la famiglia Medici, in specie con Leone X e con il cardinale Giulio, futuro Clemente VII, rinsaldò sempre più il suo legame in questi anni. Questo traspare anche da una lettera senza data, ma relativa al periodo antecedente al suo arrivo in Toscana, nella quale egli chiedeva sostegno per la sua conferma come giudice capitolino a Roma (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo avanti il principato, 97, c. 107). Del resto, nel 1537 egli pronunciò un’orazione funebre per la morte del duca Alessandro.
Nel 1525 – o, secondo altre fonti, nel 1529 – venne eletto governatore di Benevento, dove risiedette per circa un anno e mezzo. Fra 1527 e 1528 fu probabilmente governatore a Rimini e a Meldola, eletto da Pandolfo Malatesta.
All’età di ventotto anni sposò Maddalena Lia Marcolini, dalla quale avrebbe avuto sei maschi e tre femmine. Torelli fu persona religiosa e devota, in particolare vicina alla spiritualità francescana, ma con posizioni non sempre allineate al clima controriformistico.
Per il tramite di Clemente VII e del segretario ducale Francesco Campana fu scelto come auditore della Ruota fiorentina nel 1531 ed ebbe una eccezionale conferma per due mandati triennali. Nel 1539, non ancora terminato il secondo, fu promosso auditore generale del duca e, specie dopo la morte di Campana, nel 1546, quando fu elevato primo segretario, divenne a tutto tondo il primo ministro e il giurista di fiducia di Cosimo I. Significativo fu il suo apporto come consulente nelle dispute di precedenza con il duca di Ferrara e nelle trattative per l’acquisizione del titolo granducale. Fu spesso giudice delegato per volere del duca ed ebbe la sovrintendenza sul delicato settore delle suppliche, canale attraverso il quale Cosimo intendeva stabilire un rapporto diretto e paternalistico con i propri sudditi. In molti casi Torelli, attraverso la composizione di liti e controversie private o fra feudatari e l’intervento a favore di vedove, orfani o altri soggetti deboli, favorì l’intento di pacificazione sociale perseguito dal sovrano. Fu inserito all’interno della maggior parte delle magistrature centrali della capitale, come i Nove conservatori del dominio (di cui fu assessore) e la Pratica segreta, di cui fu membro. In via del tutto eccezionale, data la mancanza di cittadinanza, nel 1571 venne cooptato nel Senato e fu ascritto alla nobiltà fiorentina.
L’auditorato del Regio diritto, che Torelli ricoprì dal 1546, ne fece il protagonista delle politiche ecclesiastiche cosimiane. Nell’ordinaria amministrazione protesse le prerogative del principe, come l’exequatur per le citazioni di tribunali pontifici o la presa di possesso dei benefici ecclesiastici da parte dell’autorità laica all’atto della loro vacanza; al contempo, fece rispettare la giurisdizione ecclesiastica su fattispecie di sua pertinenza, come sulle pensioni beneficiali o su situazioni incerte circa la spettanza dei patronati. Vanno tuttavia sottolineate alcune sue prese di posizione di sapore giurisdizionalista, come la gestione dell’affare della vendita dei livelli ecclesiastici della Chiesa fiorentina per poter corrispondere le decime papali. Torelli, che nel 1549 venne per questo rimproverato da Cosimo I dopo le rimostranze romane, fece introdurre una clausola per mezzo della quale i beni così venduti sarebbero stati sottoposti al regime impositivo ordinario, perdendo ogni originario privilegio. Significativa fu anche la sua avversione all’introduzione dell’Indice dei libri proibiti, all’imposizione del berretto giallo agli ebrei e alla loro sottoposizione all’Inquisizione per i delitti di bestemmia e ludibrio, che a suo avviso dovevamo rientrare nella giurisdizione delle corti laiche (Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, serie prima, f. 106, cc. 78-79).
Nel 1543 fu scelto quale auditore dello Studio pisano, ma lungi dall’occuparsi solo di affari legali, ebbe un notevole peso anche nella scelta dei docenti. Cercò di ingaggiare professori prestigiosi, talvolta senza riuscirvi, come nel caso di Andrea Alciato. Nel 1544 partecipò alla stesura del nuovo statuto dello Studio, almeno in fase di correzione finale della minuta. Nel 1561 fu redattore, assieme con Belisario Vinta e Benedetto Varchi, del corpo statutario dell’Ordine di S. Stefano, di cui curò i dettagli giuridici.
Torelli fece un uso moderato del grande potere e delle numerose prerogative concessegli, che ne facevano una sorta di primo ministro, ma secondo diverse fonti con il tempo manifestò una propensione ad agire in modo libero e a ingerirsi anche in affari privati. Fu probabilmente questo a raffreddare i rapporti con Cosimo, che ne ridimensionò le competenze, affidando i compiti di primo segretario a Bartolomeo Concini, di fatto già dalla fine della guerra di Siena e di diritto a partire dal 1570.
Torelli fu intellettuale di chiara inclinazione umanistica anche nel settore che gli fu più caro, ossia quello giuridico. Fin dall’arrivo a Firenze, egli maturò l’idea di riprendere il progetto di editare il codice delle Pandette giustinianee ivi conservato. Con l’autorizzazione del duca, che gli concesse di poterlo tenere presso la propria abitazione, iniziò un lungo lavoro di collazione fra tale manoscritto e quello della Vulgata bolognese.
A tale scopo, coordinò un vero e proprio gruppo di studiosi, nel quale figuravano il figlio Francesco, il nipote Bartolomeo Ammiani, Giovanni Battista Cesario e il senatore Pietro Vettori, che si adoperò per reintegrare le parole greche del Digesto, che furono poi riportate nell’opera. Utilizzò la collazione già effettuata da Poliziano e Pier Matteo Uberti, ma verificò anche altri manoscritti e si confrontò con altri studiosi, come Jean Matal e Antonio Agustín, sulle lezioni dubbie presenti nel testo. Dopo dieci anni circa, sul finire del 1542, il lavoro era concluso e pronto per esser messo sotto i torchi, tanto che Torelli pubblicò a Firenze tre trattatelli (Ad Gallum et legem Velleiam, Ad Catonem et Paulum, De militiis ex casu) relativi ad alcune leges del libro XLV del Digesto, nei quali anticipava certe sue scoperte, frutto della collazione delle Pandette. Fra le altre cose, egli fu il primo a rendersi conto che, per colpa dell’antico rilegatore, nel manoscritto fiorentino erano stati invertiti gli ultimi fogli del titolo De diversis regulis iuris del Digesto (50, 17); ne dedusse che esso era la matrice dalla quale erano stati copiati gli altri esemplari delle Pandette, affermazione poi rivelatasi erronea. I trattatelli, che sono l’unica traccia di più ampie annotazioni che Torelli redasse sull’intero Digesto, sono testimonianza dello spirito libero e critico dell’autore, che non esitò ad attaccare duramente altri umanisti del calibro di Ulrich Zäsy e Alciato, critiche moderate grazie all’intervento di Agustín.
La stampa dovette attendere tuttavia altri dieci anni, periodo nel quale fra l’altro uscirono, con il consenso espresso di Torelli, le Emendationes di Agustín, frutto degli studi di quest’ultimo sul medesimo manoscritto; il ritardo fu causato dalla ricerca di uno stampatore idoneo e dal mancato beneplacito del duca, che non voleva che l’opera fosse pubblicata fuori Firenze e che inoltre desiderava privilegi per impedire che in seguito fosse edita anche altrove (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 2968, c. 273). Così, solo nel 1553 le Pandette videro la luce, in tre eleganti tomi, per i tipi di Lorenzo Torrentino.
L’edizione fu condotta con estremo rigore filologico, assicurando la massima corrispondenza all’originale. Usando appositi segni grafici, Torelli inserì le parole che risultavano discordanti a livello ortografico, indicando le correzioni apposte; mise tra parentesi ciò che venne aggiunto in seguito, in asterisco i luoghi sospetti o incerti, talora ricordando eventuali lezioni alternative a latere, segnalando comunque quella meno sicura. Merito di quest’opera è di aver ripulito il Digesto da molti errori materiali, cosa che avrebbe potuto minare in radice la fruibilità dell’apparato interpretativo maturato nel corso dei secoli precedenti e che si era giovato di un diverso testo. Per questo, Ascheri (1989) ha letto l’iniziativa come un «atto di politica giudiziaria» (p. 68) di Cosimo I, diretto a colpire la dottrina e a rafforzare il diritto proprio toscano. Altra grande novità fu infatti la scelta di stampare le Pandette senza il tradizionale apparato accursiano di glosse.
Fra le opere minori, giuristi di poco successivi gli attribuirono annotazioni sull’opera di Bartolo, che Geri Spini più avanti affermò di avere presso di sé (Consiliorum sive responsorum, Florentiae 1630, p. 281). Torelli fu studioso assai eclettico. In campo letterario, in gioventù scrisse un’operetta simile agli Asolani di Pietro Bembo e alcuni versi, la cui composizione riprese anche in vecchiaia; gli è attribuita, con qualche dubbio, una Lezione su la pittura, edita per la prima volta a Fano nel 1907. Come uomo politico, fu protettore di intellettuali, letterati e scienziati, intessendo amicizie con personaggi del calibro di Pietro Aretino e Benedetto Varchi, per il quale si spese sia in occasione di una sua condanna per stupro, sia in seguito, con raccomandazioni. Patrocinò diverse opere letterarie, come le traduzioni degli scritti aristotelici da parte di Bernardo Segni, e artistiche, come il ciclo di affreschi del Pontormo nella basilica di S. Lorenzo. Fu membro, censore e console dell’Accademia fiorentina, che contribuì a fondare. Ebbe un ruolo attivo nella nascita e nella stesura degli statuti dell’Accademia del disegno, nel 1563.
Nel 1571 perse la moglie, ma anche gli altri figli gli sarebbero premorti. Lo stesso anno si ritirò a vita privata, conservando un certo vigore fisico. Morì a Firenze il 23 marzo 1576 a seguito di un colpo apoplettico.
L’imponente carteggio di Torelli con principi medicei e altri ministri toscani, come molti suoi consulti, è sparso in diversi fondi dell’Archivio di Stato di Firenze, fra cui Mediceo del principato, Miscellanea medicea e Carte strozziane. Una ricca biografia anonima è in Firenze, Biblioteca nazionale, Mss. Palatini, 976. I motivi delle sue decisioni rotali sono in Ruota civile, fzz. 4580 e ss. Il suo operato come auditore del Regio diritto è testimoniato specialmente in Regio diritto, fzz. 1 e 4378
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