Vedi LEMNO dell'anno: 1961 - 1973 - 1995
LEMNO (v. vol. IV, p. 542 e s 1970, p. 407)
La prosecuzione di scavi e restauri della Scuola Archeologica Italiana di Atene nella città di Efestia, nel Cabirio di Chloi e nel sito preistorico di Poliochni offre nuove conoscenze e nuovi materiali per la storia dell'isola nei diversi periodi. A queste ricerche si aggiungono recentissimi interventi del Servizio Archeologico Ellenico, che stanno contribuendo alla conoscenza dell'antica Myrina, finora nota solo dagli scavi ottocenteschi del Pantelidis e da pochi rinvenimenti sporadici.
Alcuni saggi attestano un importante insediamento preistorico a Ν della città moderna (presso la punta dell'osservatorio meteorologico) e una necropoli ellenisticoromana nella sua area orientale. Si è anche proceduto, con esplorazioni di superficie, alla puntuale registrazione di siti preistorici e protostorici (Trochalià, Axiès, Mikrò Kastelli, Kukkonisi), di aree tombali e di impianti di periodo classico (Komi, Parakiri, Kaminia, Rosopuli) e di resti di castelli medievali (Kokkino, Plaka, Paliokastro). Se per il Bronzo Antico, Poliochni (v. vol. VI, p. 280, s.v.) rappresenta il più documentato punto di riferimento per la preistoria dell'isola e, in generale, dell'area nord-orientale dell'Egeo (assieme all'antistante Troia), sembra anche sempre più dimostrato che esso non costituisce un sito isolato a L., che proprio in quel periodo dovette svolgere un ruolo di primaria importanza con la successione delle sue numerose fasi. Più scarsi sono, finora, i documenti del Medio Bronzo. Mancano ancora, sia a Poliochni che nel resto dell'isola, chiari documenti del periodo miceneo, anche se i numerosi miti (in particolare Hypsipyle e gli Argonauti), l'èpos (invio di vino agli Achei; Filottete abbandonato) e i testi di Pilo presuppongono rapporti di L. con quel mondo. Il vuoto documentario tra la metà del II millennio e la fine del Geometrico non è una prova di abbandono, ma solo una contingente lacuna della ricerca.
Dal Tardo Geometrico alla fine del periodo arcaico la cultura di L. appartiene alla popolazione anellenica dei Tirreni che occupavano anche la vicina Imbro e centri minori delle coste anatoliche: vinti nel 511 da Otane di Persia, furono definitivamente debellati da Milziade nel 500 a.C. La stele di Kaminia, figurata e iscritta, continua a esserne, pur nella sua problematicità, il documento più esplicito: radicata saldamente nella cultura figurativa tirrenica della seconda metà del VI sec., essa offre, con un alfabeto testimoniato da varî graffiti di scavi prebellici e recenti, una lingua che sembra attestare una fase fonetica più arcaica dei più antichi testi etruschi fino a noi conservati. Recenti proposte vi hanno voluto ravvisare anche precisi riferimenti geografici (Focea, Myrina).
Il periodo orientalizzante e arcaico distingue sempre più chiaramente la cultura locale. La fase più antica (VIII e prima metà del VII sec.), contraddistinta dalla produzione in bucchero grigio e da ceramica con semplici decorazioni di tipo subgeometrico, si inquadra nelle produzioni dell'area nord-egea (Troade, Lesbo) ed è attestata dalla necropoli a incinerazione di Efestia, dalla fase più antica di un santuario, probabilmente dedicato alla Grande Dea Lemnos, e dalla primitiva ricca stipe del Cabirio. Nella seconda metà del VII e nel corso del VI sec. la tematica decorativa si sviluppa e si arricchisce con motivi orientalizzanti e con importanti documenti figurati di ingenuo ma intenso vigore, affiancati da una singolare produzione di plastica fittile. E in questo periodo che si verificano anche alcune esportazioni nei centri più vicini (Thasos, Samotracia, Lesbo, Neapolis). Se l'urbanistica delle due città di Myrina ed Efestia resta ancora largamente ignota, sono di particolare interesse i resti strutturali e il materiale scavati recentemente a Efestia e nel vicino Cabirio di Chloi.
A Efestia sono stati eseguiti recentemente (1978-81) alcuni saggi nell'area del santuario arcaico, già in parte scavato nel 1929-30. Era stato messo allo scoperto, allora, un nucleo di vani che, per la natura votiva degli oggetti rinvenuti, era stato denominato santuario; in realtà si trattava solo di un suo settore. Il nucleo più complesso si articolava a O su due livelli, uno più basso con i resti di una serie di ambienti della prima metà del VII sec. accanto ai quali, a quota superiore, fu costruita una serie allineata di tre vani (uno dei quali contenente la stipe e un pozzo solo parzialmente indagato), costruiti nella seconda metà del secolo, che rimasero in funzione per tutto il VI, come dichiarano, accanto ai prodotti locali, alcune importazioni (attiche, corinzie, greco-orientali) le più recenti delle quali sono databili negli ultimi decenni del VI secolo. Poiché le condizioni di ritrovamento ed estese tracce di incendio hanno alterato varî oggetti della stipe è assai probabile che il santuario abbia interrotto la sua vita in occasione della spedizione persiana di Otane del 512/511 a.C. (Herodot., V, 26 ss.).
La prova di questa conclusione drammatica viene ora dal completamento dello scavo del pozzo nel vano della stipe: sul suo fondo, tra uno spesso strato di ceneri e carbone contenente frammenti e vasi già pertinenti alla stipe, sono stati trovati i resti scheletrici di un uomo di circa cinquanta anni, associati con una punta di lancia in un inequivocabile contesto di distruzione. La serie dei tre vani arcaici non trova confronti precisi nelle tipologie templari; forse aveva una funzione ausiliaria, quale quella di deposito di offerte. Un edificio templare ben caratterizzato è stato, ora, scoperto in posizione centrale rispetto alle aree precedentemente esplorate. A pianta rettangolare (m 20 x 7 c.a), orientato a NE, presenta un piccolo pronao già lastricato e un'ampia aula definita da muri paralleli, al piede dei quali corrono due basse banchine. La banchina di sinistra si conclude sul fondo contro la parete di un piccolo vano rettangolare (m 2,80 x 3) con le pareti affacciate sulla cella in accurata tecnica isodomica di blocchi di pòros e lo spazio interno bipartito da un alto bancone: una sorta di sacello o àdyton, certo riservato alle operazioni rituali di un sacerdote. La banchina di destra si conclude sul fondo della cella, in corrispondenza del sacello, ripiegando ad angolo retto con un'ampia piattaforma lastricata. Qui, sull'asse della cella, e forse originariamente non previsti, erano collocati due grossi vasi cilindrici senza fondo, uno decorato dalle spire di due serpenti plastici contrapposti, l'altro da fitte cordonature parallele. L'aspetto è quello di sostegni per grandi vasi, ma la funzione era probabilmente rituale, data la presenza, nel loro riempimento, di alcuni vasi per libagione come tazze e karchèsia.
Dall'area del sacello e della piattaforma prendono l'avvio, sotto il battuto pavimentale, due canaletti litici a sezione quadrangolare con saltuari pozzetti di decantazione, forse per assolvere a necessità di drenaggio da un'area ipetrale o per rispondere a esigenze di carattere rituale. Anche l'impianto di questa singolare struttura templare, che conserva lontani ricordi minoici nel sacello e più concrete assonanze con vani di culto misterico, come le fasi arcaiche dei telesteri di Eleusi e di L., fu realizzato nella seconda metà del VII sec. a.C., e andò distrutto e definitivamente abbandonato alla fine del VI sec., come sembra confermare il materiale di un secondo pozzo (o cisterna) situato a SE dell'area del suo ingresso.
Sulle rovine del santuario arcaico si sviluppò, tra il III e il II sec. a.C., un quartiere artigianale con vani lastricati, pìthoi per deposito d'acqua e i resti di almeno due forni ceramici, uno a pianta rettangolare e uno a pianta circolare. I circostanti scarichi di lavorazione hanno offerto numerosissimi frammenti di coppe «megaresi» e di relative matrici, qualche matrice per lucerne, statuette fittili, ceramica varia di uso corrente, spesso deformata e stracotta. Viene attestata, quindi, una produzione ceramica locale (anche se dipendente da modelli ateniesi), specializzata nella produzione di coppe «megaresi», come sembrano indicare anche il ritrovamento di un punzone decorativo, una ruota da vasaio, nonché altri ritrovamenti di precedenti scavi: la sua datazione tra la fine del III e il II sec. a.C., è confermata anche da ritrovamenti monetari. Ultimo documento della frequentazione nell'area abbandonata del santuario arcaico è un pozzo con materiali databili prevalentemente al III sec. d.C.
Recenti ricerche nel Santuario dei Cabiri a Chloi, situato su un promontorio a breve distanza dall'imboccatura del porto di Efestia, hanno contribuito alla definizione e alla storia delle strutture di culto, già individuate e parzialmente scavate nel 1937-39: i telesterî situati su due larghe terrazze contraffortate da muri di anàlemma sul ripido pendio verso il mare. Sulla terrazza settentrionale è stato ultimato lo scavo dell'imponente struttura rettangolare (m 33 x 45,50) di periodo ellenistico, ora ben riconoscibile come telesterio. Le fondazioni in blocchi di pòros erano allettate sul piano roccioso, accuratamente preparato, così da permettere la ricostruzione della pianta anche laddove lunghi tratti di esse furono divelti nella tarda antichità. La struttura con la fronte a SE si articola in quattro settori. Un portico con dodici colonne doriche in pòros (già rivestite di stucco con venti pianetti) ripiega sui lati con una colonna ancora e si interrompe bruscamente, da un lato contro un taglio vivo nella roccia, dall'altro con una fondazione affrettata. Mancano gli elementi dell'alzato superiori ai tamburi ancora in situ, ma il diametro inferiore delle colonne (m 0,62) permette di calcolare un'altezza del portico tra i 5 e i 6 m, mentre elementi del gèison litico e della sima fittile permettono di individuare il ritmo del fregio dorico sugli interassi (m 2,90) con gruppi di tre metope e tre triglifi.
Alle spalle del portico si eleva la grande sala centrale già suddivisa in tre navate da due serie di quattro colonne ioniche. Oltre agli incavi rettangolari in roccia per le sottofondazioni, bordati da un sistema di quattro fori per l'impianto della tetràkolos mechanè (già descritta da Erone di Alessandria e da Vitruvio) per il montaggio e la lavorazione delle colonne, sono stati trovati alcuni frammenti delle basi (diam. m 1,30) e dei capitelli in peperino grigioscuro, e scarsi resti del fusto in pòros. L'altezza complessiva della colonna doveva aggirarsi sugli 11 m, misura alla quale doveva corrispondere all'incirca l'altezza della parete, di cui si conservano in situ solo alcuni ortostati su una fondazione larga m 1,10. La grande aula presenta la navata centrale più stretta (m 5,70) rispetto a quelle laterali (m 7,70): il che contrasta con le consuetudini delle normali celle templari, ma sembra rispondere alle necessità di un vano telesterico, forse per ospitare un impianto di banchine lignee lungo le pareti. Un terzo settore era costituito da un corridoio o tribuna col piano rialzato di c.a 40 cm rispetto al pavimento in terra battuta del grande corpo centrale; da esso si doveva accedere a una serie di quattro vani di varie dimensioni che concludono la struttura a NO (àdyta?). A giudicare dallo spessore delle fondazioni (m 0,75) essi dovevano essere alti quanto il portico frontale, e, poiché ripiegano a Ν con un risvolto allineato e largo quanto quello orientale del portico, si può supporre che un primitivo progetto, che prevedeva un alto corpo centrale circondato sui quattro lati da una fascia più bassa di portici e corridoi, sia stato interrotto. La brusca interruzione è provata dal fatto che il declivio roccioso non è stato appianato nell'area dell'accesso antistante il portico e trova forse spiegazione nei fatti storici del momento. È infatti possibile che la struttura ellenistica, databile - per gli elementi architettonici dell'alzato e per dati stratigrafici - attorno al 200 a.C., sia da connettere, per lo straordinario impegno edilizio, con l'iniziazione ai misteri di Filippo V di Macedonia, già nota dalla più celebre iscrizione trovata nel santuario (SEG, XII, 399). Ma a seguito della sua sconfitta a Cinoscefale (197 a.C.), l'occupazione romana di Efestia (Pol., XVIII, 48) può aver segnato un momento di crisi e quindi l'affrettata conclusione dei lavori.
L'impianto del telesterio ellenistico sulla roccia appianata non conserva tracce di eventuali precedenti strutture, ma sulla scarpata sottostante a un suo breve muro di terrazzamento è stata raccolta una ricca messe di materiali che dalle ancor rare attestazioni arcaiche giungono fino alla data di costruzione del telesterio, con la più alta percentuale di reperti di IV e III sec. a.C. Oltre a ceramiche di uso rituale e votivo (kàntharoi, skỳphoi, «pissidi» con dediche dipinte o graffite, lucerne, coppe, statuette), a ceramiche per banchetto e cucina (in particolare piatti, lekànai, lopàdes, colini, anfore, ecc.), sono presenti anche materiali di uso architettonico (laterizî, antefisse) e innumerevoli ossa di animali. Sulla terrazza meridionale si è completato lo scavo della c.d. Basilica, un telesterio già datato al III sec. d.C., costruito con materiale di spoglio, secondo una pianta che imita quella del grande telesterio ellenistico distrutto per incendio, forse a seguito d'un terremoto, verso la fine del II sec. d.C. Anche qui la cella, conclusa da una tribuna con naìskos centrale e due vani retrostanti, era suddivisa in tre navate, con supporti per banchine nelle più ampie navate laterali. Era preceduta a SO da un portico di sette colonne con un piccolo piazzale contraffortato da un imponente bastione a èmplekton con i paramenti esterni in blocchi di pòros reimpiegati. Sotto le strutture tardo-romane, già lo scavo del 1937 aveva messo in evidenza muri di fasi precedenti. Particolarmente importante è il complesso del telesterio primitivo (m 13,50 x 6,40) con banchi alle pareti e un altare sul fondo, contraffortato sulla china verso il mare da una serie di muri a concamerazioni.
A NO di questo complesso, ai piedi di un muro sconvolto e nell'ampio avvallamento del fondo roccioso, è stata raccolta una ricca stipe votiva di ceramiche subgeometriche di probabile fabbricazione locale (classe G 2-3 e bucchero grigio) che sembra corrispondere alla vita del primitivo impianto cultuale tra la fine dell'VIII e là fine del VI sec. a.C. Le forme vascolari (brocche, anfore, coppe, kàntharoi di vario tipo, karchèsia, tazzine) coincidono, in parte, con quelle del più antico nucleo votivo del témenos di Samotracia, ma in parte sembrano precederle, confermando quella arcaicità dell'impianto lemnio che è affermata anche dalle fonti letterarie. Un ritrovamento che forse illumina il problema dell'arrivo nell'isola della popolazione dei Tirreni (ricordati da alcune fonti come portatori del culto dei Cabiri) e che certo apre nuove prospettive sul diffondersi dei culti misterici nell'Egeo settentrionale e sui rapporti tra popolazioni diverse (Traci, Greci, Tirreni), che avevano in quest'area un importante punto d'incontro.
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