DE BERARDINIS, Leo
Leone De Berardinis (poi sostituì la D maiuscola con la minuscola) nacque a Gioi, in provincia di Salerno, il 29 dicembre del 1939 (ma fu dichiarato all’anagrafe il 3 gennaio 1940), da Arturo, futuro dirigente degli uffici giudiziari del tribunale di Foggia, e da Fiorentina Marano, maestra: terzogenito dopo Giacinta e Pina e prima di Anna. Attorno al 1945 la famiglia si traferì a Foggia, dove avvenne la sua formazione scolastica dall’inizio anomalo, in terza elementare, fino al conseguimento della maturità classica. Nel 1959 si stabilì a Roma dove si iscrisse alla facoltà di Medicina e poi a Lettere e frequentò il Centro teatrale universitario (CUT). Nel 1961 sposò l’attrice Maria Grazia Grassini e nel 1962 nacque la sua unica figlia, Carola. Dopo pochi anni la coppia si separò di fatto ma non legalmente.
Claudio Meldolesi ha parlato di tre vite di Leo: la prima vissuta in famiglia, tra Campania e Puglia, poi la giovinezza tumultuosa tra Roma e Marigliano, infine «la terza vita» a Bologna. Terza anche per le sue scelte in campo teatrale, dopo l’esperienza delle ‘cantine romane’ e del teatro di Marigliano.
Il passaggio all’attività teatrale fu veloce. Leo scoprì il teatro delle cosiddette ‘cantine romane’ con Carlo Quartucci (1938-2019), siciliano, figlio d’arte, appassionato anche di arti figurative. Insieme fondarono la Compagnia della Ripresa coinvolgendo altri allievi CUT (1962-1966). Beckett fu il loro autore di riferimento sin dal debutto con Me e Me (1962) e poi con le storiche messe in scena di Finale di partita (1963) e Aspettando Godot (1964), drammi «oltre la forma del dramma», che permettevano di sperimentare a partire dalle risorse testuali, puntando sulla stilizzazione dello spazio e della recitazione. La compagnia fu invitata da Luigi Squarzina a lavorare allo Stabile di Genova, un tentativo interessante di far incontrare realtà teatrali diverse, che non produsse tuttavia vera interazione. L’esito del progetto fu Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la grande Mam, una messinscena collettiva su testo di Giuliano Scabia, che segnò anche la fine della collaborazione fra Leo e Quartucci.
I due artisti si ritrovarono poi sullo stesso fronte nel convegno di Ivrea (1967), che dette visibilità al Nuovo teatro, come è stato chiamato il variegato fenomeno di contestazione della scena ufficiale, esploso in Italia a partire dagli anni Sessanta del Novecento, in sintonia con alcune grandi esperienze internazionali, dal Living Theatre a Jerzy Grotowski. A Ivrea si contrapposero due posizioni: la prima puntava alla creazione di nuovi linguaggi, la seconda a un nuovo teatro politico e alla creazione di circuiti alternativi. Leo fu uno dei protagonisti del primo schieramento: sosteneva che la realtà teatrale in Italia era già cambiata e che c’era solo bisogno di organizzarla, il convegno contribuiva a fare «il punto sulla situazione in termini reali» ma nasceva viziato: non si potevano formalizzare i movimenti artistici, termini come nuovo e avanguardia non significavano nulla. Per Leo fu importante piuttosto conoscere Carmelo Bene e Mario Ricci e, insieme a Quartucci, si scelsero: «volevamo metterci insieme noi quattro, e basta» ma «il tutto fallì miseramente nel giro di un mese» (Intervista di R. Pellerey a Leo, 28 luglio 1986, Archivio de Berardinis, DAR Unibo, 1.5.6. Ivrea ’67 - Ivrea ’87. Memorie e utopie: convegno per un Nuovo Teatro, s.l. 1987).
L’ultima sera Leo presentò La faticosa messinscena dell’Amleto di William Shakespeare: un Amleto sovvertitore, che distruggeva il testo per restituirlo potenziato dalle invenzioni musicali e vocali, visive e cinematografiche. A detta di Scabia, «era irriconoscibile», si era aperto alle novità e non aveva più nulla dell’«attor giovane» (Giuliano Scabia in dialogo con Marco De Marinis, in Ivrea cinquanta. Mezzo secolo di nuovo teatro in Italia, 1967-2017, a cura di C. Tafuri - D. Beronio, Genova 2018, p. 390). La metamorfosi era legata a una crisi artistica alimentata dall’incontro con Perla Peragallo (1943-2007), figlia di Mario, noto compositore, formatasi presso lo Studio Fersen di Arti sceniche. Insieme costituirono fino al 1983 una coppia d’arte potente, concentrata sulla ricerca teatrale e sulla produzione di esiti spettacolari imprevisti. Il loro connubio è stato così sintetizzato: «Volendo accatastare, in una scansione paratattica, in un unico lungo elenco, i vari tentativi di definizione dei ruoli di cui si farebbero carico Leo e Perla nel loro violento e dolente ‘corpo a corpo’, si può dire che il primo è leader, regista in scena, conduttore, guida, spalla, presentatore-attore, responsabile del controllo della situazione; la seconda è invece perno, centro vitale, punto di riferimento, martellata, basso continuo, batteria, bestia da palcoscenico, unico attore in scena […]. Lei appunto non ‘fa’ teatro ma ‘è’ teatro» (Vassalli, 2018, pp. 62-63).
Perla partiva dal suo sentimento tragico della vita e dalla rabbia, puntava sulla voce e sulla costruzione di una partitura musicale, investiva tutta se stessa nello scavo di ‘stati di coscienza’ più che di personaggi. Leo aveva già mostrato doti notevoli come attore su più versanti: cambiava dodici timbri naturali di voce nei panni dall’allampanato Vladimir, coltivava la precisione e aveva anche doti comiche. Con La faticosa messinscena Leo e Perla operarono una svolta che proseguì con un altro Shakespeare, Sir and Lady Macbeth, e con una lettura di poche pagine scelte di Don Chisciotte insieme a Bene e Lydia Mancinelli: in uno spazio essenziale, con il pavimento disseminato di vetri, si contrapposero la voce di Carmelo prestata a Don Chisciotte e a Cervantes e il Sancio Panza di Leo.
I riscontri di critica e di pubblico furono però deludenti. Stanchi dell’ambiente romano e del loro teatro, che definirono «dell’errore», Leo e Perla passarono al cinema. Già La faticosa messinscena di Amleto era uno «spettacolo cineteatrale» ma ora fecero un vero film assumendo tutti i ruoli, anche quelli tecnici. A Charlie Parker (1970), durata 93 minuti, dedicato al grande jazzista, era un’«improvvisazione per suoni e immagini», «poesia visiva», in «ambienti scenografici non legati a territori precisi», attraversati dai volti di Leo e Perla e dai loro corpi in movimento, fra flussi di acqua, latte sulle bocche, «musiche ombrose e suoni urlanti». Non una storia ma «una partitura metaforica in un continuo evolversi di colori e forme», con un frammento indimenticabile della Lady Macbeth di Perla che cercava di lavarsi le mani nel bidet, fra scrosci d’acqua (E. Reiter, Visioni liquide e letture oblique, in Meldolesi, 2010, pp. 380-384).
Si trasferirono stabilmente a Marigliano «per ricominciare». Anche se il progetto si precisò via via, a partire dalla situazione concreta, le finalità erano chiare: cercare una via artistica per realizzare un teatro più autentico della vita stessa, affrontare il degrado nazionale e la diversità del Sud, misurarsi con la cultura ‘popolare’ senza rinunciare alla propria, lavorare con non professionisti. Era in gioco il senso stesso del teatro: un’urgenza generale, artistica e politica, ma anche autobiografica. Così Leo raccontò questa esperienza anni dopo in una intervista: «Le persone che cercavo dovevano essere emarginati. Se fossero già stati inseriti in un mercato culturale, avrebbero avuto bisogno di una apertura mentale impossibile da trovare. L’unica zona vergine era proprio quella, gente non ancora immessa nel mercato culturale, ma con una cultura teatrale: allora li chiamavo 'attori geopolitici'. Era un fatto culturale, geografico, politico che li portava a porsi in un modo particolare nei confronti della sonorità della voce, della gestica. Il mio lavoro consisteva solo nell’aggregare, nell’organizzare queste sonorità, questa gestica» (Ponte di Pino, 1983, p. 104).
Dunque, cercò i suoi non-attori nel napoletano e li conquistò con il suo primo intervento pubblico a Marigliano. In occasione della festa del patrono, la processione fu completamente stravolta da alcuni interventi performativi sopra un camion mentre Perla-San Sebastiano, vestita di bianco, con in mano un grande cuore rosso trafitto di frecce, calamitava i fedeli fino alla chiesa, dove entrò correndo e vomitando latte.
La coppia andò a vivere in una masseria che diventò sede di «un laboratorio 'vivente', esteso a un paese, per mesi, per anni… per trarne fuori tre o quattro che erano ‘fior d’attori’» (Di Marca, 1998, pp. 27-28). La formazione partiva dalle loro caratteristiche naturali ma si compiva nel corso delle prove – più di sei mesi per ’O zappatore – e nel rapporto continuato con Leo e Perla sulla scena e nella vita. «Facevano andare liberi gli attori, costruivano, giocavano con gli attori, inventavano, però poi tutto diventava una partitura ferrea»: funzionavano, anzi «erano straordinari […] perché c’era Leo» che chiedeva loro di interpretare se stessi e la devastazione del Sud (De Matteis in Vassalli, 2018, p. 134). Ma sugli esiti spettacolari la critica si divise: alcuni ritennero che i mariglianesi fossero usati quasi come oggetti di scena; altri apprezzarono la sincerità di quella ricerca arrischiata e lodarono l’efficacia scenica di alcuni «attori geopolitici». Segno anche questo della vitalità di un’impresa che creò frammenti di straordinaria bellezza all’interno di spettacoli imperfetti.
Dopo la processione, che fu ripresa da Alberto Grifi e rielaborata da Leo e Perla nel film Compromesso storico a Marigliano (1971), i due artisti si interessarono della sceneggiata napoletana, per coglierne l’aspetto potenzialmente esplosivo e farla reagire con la loro cultura e attorialità: così in ’O zappatore (1972), pur nel primato del tessuto sonoro e fra frammentati rimandi alla sceneggiata, si fissarono le immagini indelebili di Perla barcollante in tutù e di Leo bendato da veggente alla Rimbaud. Nello spettacolo successivo, King Lacreme Lear Napulitane (1973), la sceneggiata incontrò Shakespeare, preparando l’ultimo tappa della trilogia che avrebbe trionfato a Parigi: Sudd (1974), con Leo e Perla, Sebastiano Devastato (che recitava un brano da lui scritto) e Peppe Capasso. In una struttura come sempre rigorosa, lo spettacolo mostrò le difficoltà di quell’amalgama e i conflitti con parte del pubblico. «Sudd è il sentimento di un mondo, costruito a partire da una serie di materiali scenici che questa volta, a differenza del passato, sembrano definire e descrivere un ambiente: una vasca da bagno posta proprio al centro della scena, una piastra per cuocere i cibi, la tazza di un cesso, bidoni di latta, una radiolina a transistor, […] l’immagine violenta di un microcosmo da ghetto o da bidonville. […] Niente vi accade, perché niente può accadere a questa disperata umanità se non la rappresentazione della sua stessa disperazione» (Manzella, 1993, pp. 60-61).
Suoni, oggetti, parole si rincorrevano da uno spettacolo all’altro come in un canzoniere senza luce. Chianto ’e risate e risate ’e chianto (1974), ambientato in un cimitero, si basava su una trama fantascientifica: Leo improvvisava e accentuava la cifra comica contro quella drammatica di Perla e gli altri recitavano una sceneggiata tutta loro. La permanenza a Marigliano finì con Rusp spers (1976), rospi sperduti in foggiano. Ma il bilancio non era negativo, quell’esperienza fu fondativa per Leo.
Finito quel teatro, che avevano definito «dell’ignoranza» in senso positivo – un non sapere che generava volontà di sapere – Leo e Perla tornarono a Roma. Proposero Assoli e Tre jurni con tre mariglianesi, poi tornarono in scena soli. Erano spettacoli basati su una comicità dura, assecondata dal napoletano e dal foggiano, e su un disincanto totale sia rispetto al Sud e alla politica sia rispetto alle possibilità del teatro. Un effetto paradossale, visto che la loro era ormai una poetica matura, riconoscibile, basata su competenze musicali e vocali di altissimo livello, su un mondo suggestivo e su una presenza magnetica.
Il rapporto fra i due artisti si era modificato per l’ampliamento dello spazio della comicità e dell’improvvisazione, voluto da Leo e poco gradito a Perla, ma resisteva un’intesa profonda che consentiva di andare in scena senza nessuna rete di protezione – fino agli spettacoli intitolati semplicemente De Berardinis-Peragallo – e nessuna concessione al pubblico: Avita murì (1978). Eppure in questo delirio distruttivo, alimentato dall’alcol, permanevano dei punti di resistenza che portarono Leo a cercare Eduardo De Filippo per mettere in scena Filumena Marturano e, di fronte al suo diniego, a limitarsi al celebre monologo di Filumena in difesa dei figli in cui Perla dette una grande prova. Inoltre Leo puntò ancor più decisamente sul jazz, che consentiva una dialettica stretta fra rigore professionale e libertà di improvvisare. Ci furono spettacoli in cui si ridusse la presenza di Perla, convinta di aver dato il massimo e infine decisa a uscire di scena dopo Annabel Lee nel 1981 (creò succesivamente una scuola, Il Mulino di Fiora) mentre un Leo febbrile proponeva degli assolo di provocazione e di dissipazione di sé, senza più barriere fra teatro e vita. Da un lato l’autodistruzione da alcol e dall’altro il bisogno di teatro e di poesia: Beckett, Dante, Rimbaud, Totò, Buster Keaton… Non senza ironia, come testimonia il coinvolgimento in alcune performance di Renato Nicolini (1942-2012), geniale assessore alla Cultura e inventore dell’Estate Romana, che incoronò Leo in Campidoglio.
Ritiratasi Perla, Leo cercò l’alterità a livello generazionale, puntando su rapporti formativi intensi: una pedagogia non bloccata su un metodo né su punti rigidi, impegnata a fornire le basi tecniche a livello fisico e a stimolarne la personalizzazione, atta a sviluppare il processo creativo del maestro insieme alle potenzialità degli allievi. La Scuola Viva ebbe vita breve. Fu creata a ridosso della Strage dei colpevoli, primo censimento dei gruppi teatrali romani, organizzato da Leo nel 1982.
Nuova Scena (1983-1987) Quando molti lo davano per finito, De Berardinis accettò l’invito a Bologna della Cooperativa Nuova Scena per allestire The connection di John Gelber, un’opera sulla diffusione della droga fra i musicisti jazz, fatta conoscere dal Living Theatre. Leo conservò poche battute del testo, puntò sulla dimensione dell’attesa della dose e sugli elementi metateatrali, mise al centro il jazz come linguaggio, coniugando rigore, improvvisazione e varie sonorità, momenti lirici e incursioni comiche. Un canto agli artisti ‘maledetti’ che si materializzava nel dettaglio degli arti ingessati del coro e si concludeva con il palco vuoto.
A Bologna Leo mise in atto un progetto ambizioso: ricominciare da Shakespeare per elaborare una lingua teatrale sua a partire dalla parola e per formare una compagnia di giovani attori e tecnici. Mise in scena Amleto (1984) senza tagli, come fosse la ‘selva oscura’ «da cui partire per indagare i limiti della conoscenza dell’arte scenica»; King Lear (1985), «la tragedia perfetta – l’uomo che ha smembrato le sue parti e deve ricomporle»; La tempesta (1986) «come vero oltre del teatro – l’uomo nuovo che nasce dal vecchio» (Manzella, 1993, p. 121). Compiva la sua ricerca sui classici senza rinunciare a riferimenti di diversa grandezza come Totò; sperimentava con la luce insieme a Maurizio Viani con esiti meravigliosi e precorritori; formava i ‘suoi’ attori, fra cui quelli storici: Elena Bucci, Gino Paccagnella, Marco Sgrosso e Francesca Mazza, la sua nuova compagna che ebbe un ruolo importante in questa fase. Un Leo nuovo prendeva forma: regista e uomo gentile, maestro carismatico, promotore di senso etico.
Si profilò qui anche il ruolo fondamentale di Leo pedagogo, che avrebbe poi assunto sempre più peso: l’attore, essendo strumento della propria arte, deve conoscere se stesso e le tecniche che gli sono necessarie per esprimersi e affermare la sua originalità (dalla voce al movimento, all’azione nello spazio scenico). Un lavoro accurato, approfondito, continuo per raggiungere la parola e la poesia, il contesto e una presenza scenica consapevole, senza scorciatoie. Leo era contro l’identificazione banale dell’improvvisazione con la libertà creativa e, come nel jazz, la intendeva quale massimo uso e padroneggiamento della tecnica, da superare nell’espressione artistica.
Intercalò la trilogia shakespeariana con tre assolo: Dante Alighieri. Studi e variazioni (1984), Il Cantico dei Cantici (1985), Il ritorno, riflessi da Omero – Joyce (1986). E se il secondo assolo si limitava a intrecciare al Cantico versi dell’Ecclesiaste, il primo e il terzo nascevano su testi che assemblavano più autori amati. Lo stesso procedimento portò alla creazione di uno dei capolavori bolognesi, Novecento e Mille (1987), dove Leo scelse frammenti di testi paradigmatici del secolo: dal Pirandello dei Sei personaggi in cerca d'autore e di Enrico IV ad Aspettando Godot di Beckett, da Napoli milionaria di De Filippo a Miseria e nobiltà di Scarpetta, da Terra desolata di Eliot a Urlo di Ginsberg; e insieme ripropose ‘riflessi’ di Charlot e Gene Kelly, scenette di Totò, passando dal jazz a Beethoven e a Schönberg. Un Novecento autobiografico – per Leo e per la compagnia – ed epocale al tempo stesso, che parlava di un secolo e insieme del destino dell’umanità, che compiva una riteatralizzazione a partire dalla poesia e dallo scavo interiore. «Il problema dello studioso di teatro è che i contenitori del suo sapere – gli articoli, i libri – sono più piccoli degli spettacoli e dei movimenti culturali importanti»: questo capì Meldolesi, vedendo Novecento e Mille, «spettacolo clamorosamente più grande dei contenitori critici cui siamo abituati» (Meldolesi, 2010, p. 393). Si concluse allora il rapporto professionale con Nuova Scena.
«Teatro di Leo» Pur in mancanza di una sede, Leo dette una struttura autonoma e definitiva alla sua compagnia. Fissò i caratteri di questa fase in un convegno intitolato Teatro e emergenza (Bologna, 11-13 dicembre 1987), continuò a creare. L’uomo capovolto dimostrò la potenza di un grande attore solo in scena al lume di candele: più che uno spettacolo era il manifesto di una poetica. Il 1988 fu un anno denso. Leo incontrò un altro dei suoi poeti prediletti, Leopardi, in Fiore del deserto: lo restituì a suo modo, senza enfasi né coloriture, puntando sul respiro e sul ritmo, una voce sommessa che entrava dentro chi ascoltava. Dette seguito alla trilogia shakespeariana con un Macbeth desolato in cui lui stesso e la Lady di Francesca Mazza, in un buio abitato da un reticolo di luci, si rapportavano al protagonismo del coro che rifletteva sulla necessità di riconoscere il male dentro e fuori di sé. Poi in Quintett Leo indossò i panni dell’infelice Orfeo che agli inferi incontrava Clitennestra, Oreste, Antigone e Prometeo.
Furono capolavori Ha da passà ’a nuttata (1989) e Totò, Principe di Danimarca (1990) mentre Metamorfosi (1990) era una paradossale farsa tragica in cui Strindberg e Beckett incontravano il foggiano, e l’Impero della ghisa (1991), opera in nero su testo di Leo, prefigurava il futuro grigio degli anni a venire. Non avendo i diritti per mettere in scena Napoli milionaria Leo assemblò più testi edoardiani, facendone un organismo compatto e originale, coinvolse attori che non appartenevano alla sua compagnia, come Toni Servillo e Antonio Neiwiller, a cui affidò il personaggio della madre di Natale in casa Cupiello, si relazionò alla grandezza di Eduardo con la sua diversa cifra d’attore. Anche Totò, Principe di Danimarca oscillava fra momenti farseschi e scene di delicata poesia, in una miscela a cui il video girato per la televisione non rende giustizia. Chi altri avrebbe potuto legare felicemente il principe dei comici con il maggior personaggio del teatro occidentale riaffrontato per la terza volta?
Spazio della memoria (1992- 1995) Stipulata una convenzione triennale con il Comune di Bologna, che garantiva anche attività di ricerca, Leo inaugurò il suo nuovo spazio in un capannone periferico. Doveva essere un luogo di «autentica autonomia creativa, teatrale e non», «uno spazio della coscienza» per eventi artistici e culturali che diventassero esperienze impresse nei corpi dei partecipanti, una casa degli attori. Così sostenne inaugurando il convegno, e alla fine presentò Lo spazio della memoria con Steve Lacy trio al teatro Duse. L’uso dello stesso nome per lo spazio e la performance dimostrava una linea d’indirizzo forte: il tema della memoria affrontato a partire da Dante, Ginsberg e Pasolini, e sperimentato in parallelo e in dialogo da un attore e un musicista.
Ritornò a Shakespeare con IV e V atto dell’Otello di W. Shakespeare (1992), soliloquio sulla solitudine estrema di un moro dal volto imbiancato. Poi altri due capolavori: I giganti della montagna di Pirandello (1993) e Il ritorno di Scaramouche di Jean Baptiste Poquelin e Leòn de Berardin (!995). Di Pirandello mise in scena il testo integrale, come aveva fatto solo con Shakespeare, lasciò il ruolo di Cotrone, cui sembrava predestinato, ad Antonio Neiwiller, per interpretare Ilse. Gli interessava lavorare sulla sua parte femminile senza passare per l’imitazione ma soprattutto pensava a Eleonora Duse per affrontare da attore il dissidio fra Arte e Storia: una messinscena in levare, carica di ombre e di presagi sinistri. E se per Ferdinando Taviani Il ritorno di Scaramouche fu la prima immagine «vera» della Commedia dell’Arte cui si era trovato di fronte, per tutti fu una festa (Taviani, Una prima, vera immagine della Commedia dell’arte, in Meldolesi, 2010, pp. 337-340). Ogni attore – uno più bravo dell’altro – costruì il suo personaggio e si misurò con l’uso della maschera, sul tipico palchetto della Commedia dell’arte: uno straordinario concentrato di teatralità mentre Leo, da ‘capocomico’ di quella banda, indossava una maschera di Pantalone simile a un uccello rapace (opera di Stefano Perocco di Meduna a cui lo stesso Leo avrebbe chiesto per Lear una maschera che mescolasse i tratti suoi e di Beckett). Finì allora il rapporto con Francesca Mazza, ed era intanto venuto meno l’amico-artista Neiwiller (1948-1993). La sua ultima compagna fu Valentina Capone, proveniente dalla scuola di Perla.
Teatro San Leonardo (1995-2000) Leo ottenne dal Comune di Bologna uno spazio in centro con una convenzione quinquennale; per quattro anni diresse il festival di Santarcangelo (1994-1997); diventò consulente artistico del teatro Giuseppe Verdi di Salerno; strinse rapporti sempre più stretti con il Dams (L. Mariani, L’amicizia come valore teatrale. Leo e Meldolesi, in Leo de Berardinis oggi, pp. 177-193). Con lui non succedeva che un ruolo si aggiungesse a un altro, tutto si fondeva nella sua figura carismatica di ‘Attore artista’, che concepiva l’organizzazione come «sinonimo di organismo», un organismo culturale che ne partoriva un altro e dove ognuno partecipava in funzione dell’altro. Tese a fare del festival un allargamento del suo cantiere, il Teatro di Leo, coniugando una forte impronta autoriale con un’autentica apertura all’esterno. Un’iniziativa santarcangiolese in particolare simboleggiò la sua volontà di riunificare i teatri: fu ad un tempo un manifesto culturale e un happening, un atto di accusa e una festa al cui termine il palco si riempì di cento attori, una sorta di Quarto stato. Pubblicò allora alcuni dei testi teorici maggiori, per esempio ripropose Aprire un teatro, concepito per l’inaugurazione del San Leonardo, nel secondo dei «Quaderni di Santarcangelo» col titolo Riaprire il pianoforte di Cage (1995).
Dopo aver realizzato con il maestro Roberto Soldatini Prova di Don Giovanni di Mozart, di cui firmò regia, ideazione, luci e spazio scenico, avviò una ricerca laboratoriale su Lear che dette vita a King Lear (tre parti con regie rispettivamente di Ruggero Cappuccio, Alfonso Santagata e Leo, 1996), King Lear n. 1 (1996), Lear Opera (1998): un caso esemplare di come certi personaggi lo accompagnarono sempre, sollecitando nuove visioni. Rispetto al King Lear del 1985 quello del ’96 era un Lear ‘scoppiato’, «un intreccio di parole shakespeariane e di testi nati dall’improvvisazione», che assumeva alcune delle acquisizioni maturate con Scaramouche: il palchetto della Commedia dell’arte raddoppiato e le mezze maschere, con una nuova attrice di riferimento, Fabrizia Sacchi, che interpretava Cordelia e si sdoppiava nel fool, e quei corpi che a un certo punto cadevano morendo e poi risorgevano, più e più volte. Poi King Opera fu «una commistione con Amleto e con La tempesta […]. Il ritorno ad un magnifico rigore» (M. Sgrosso, Leo-Lear e la trasmissione del regno, in Meldolesi, 2010, pp.133-138).
Come una rivista, da Eschilo a… (1999-2000), con quei puntini di sospensione alludeva all’ennesimo ritorno ai tanti autori amati, reinterrogati e riproposti in un montaggio delle attrazioni senza bisogno di inventare nuove parole né una trama. Della vecchia compagnia erano restati solo Sgrosso e Vetrano. Il suo ultimo spettacolo fu Past Eve and Adam’s (2000), un assolo in cui lo spirito jazz diventò struttura drammaturgica, dando unitarietà a passaggi vertiginosi da un autore all’altro.
Ma la nuova amministrazione di centro-destra mise in discussione l’attribuzione del teatro San Leonardo e Leo cominciò a guardarsi intorno per capire dove ricominciare ancora una volta. Macerata era una delle mete possibili.
La struttura stessa di questa vita, con le sue articolazioni interne, testimonia la predisposizione a investimenti radicali di sé, a crisi profonde e a rinascite nel mutamento ma senza rimozioni. Per questo è discutibile l’operazione critica di contrapporre il Leo ‘maledetto’ degli anni Settanta a quello bolognese, disposto all’ascolto anche del passato teatrale.
Anzi, proprio per questa sua capacità di operare rotture salvaguardando alcune continuità sostanziali, Leo è l’artista che, più di ogni altro, rappresenta la parabola multipla e complessa del teatro italiano del Novecento, fra centralità perduta dell’attore e affermazione della regia, fra grande tradizione e adesione alle istanze del Nuovo teatro, fra senso di appartenenza a una comunità a sé e una cultura interessata agli sconfinamenti, fra amore del testo e pratica appassionata dell’improvvisazione, fra popolare e ricerca, fra alto e basso. «Sovversione e costruzione sono i tratti che maggiormente restituiscono la globalità dell’esperienza di Leo, nella vita e nell’arte», diversamente presenti di fase in fase (C. Valenti, Un archivio vivente, in Leo de Berardinis oggi, pp. 10-23). Negli anni più radicalmente sovversivi Perla volle lasciar tracce, compilando sei quaderni, tuttora inediti, che restituivano in forma testuale la scrittura scenica di sei spettacoli prodotti fra il 1972 e il 1976, mentre negli anni più costruttivi, di cui testimonia la volontà stessa di Leo di tramandare memoria anche in forma di archivio, la ribellione si rimodulò in intransigenza artistica e nella creazione di reti di relazione con finalità di trasmissione, scambio e resistenza.
Leo vedeva il Novecento dal punto di vista dell’attore, voleva riconquistasse centralità in termini di responsabilità scenica e di dignità autoriale. Si batté per un attore artista e indipendente, erede della rottura operata da Eleonora Duse, che fece fiorire la poesia dal mestiere, come di Totò, che sviluppò la sua arte dal basso, puntando sull’uso grottesco del corpo e sulla risata. Nel tempo del Nuovo teatro e del suo dopo Leo fu una delle massime incarnazioni della figura dell’attore artista, «la più significativa specificità italiana»: «Siamo ben oltre la vecchia antinomia stabilita dal regista con l’attore di tradizione. L’attore artista italiano, che fa drammaturgia, forma nuovi attori, scopre spazi teatrali inopinati e crea altro pubblico, senza mai perdere di vista il suo carico di complessità sociale e culturale, è al centro del nostro sistema teatrale, anche quando agisce nell’emarginazione» (Meldolesi, L’attore artista, in I quaderni di Santarcangelo, 1994, n. 1, pp. 10-11).
Leo dette varie definizioni dell’attore, ma più sua per pregnanza e continuità resta quella di attore jazz (o lirico), teorizzata in un’intervista (Ponte di Pino, 1983, pp. 101-121). Per lui era anzitutto una questione di sintassi sonora: chiamava jazz la ricerca di un fraseggio e di timbri che lo portassero a personalizzare la battuta, a usare il microfono come fosse uno strumento da suonare e il dialetto come portatore di intonazioni concrete da inserire nella composizione. Il jazz fungeva inoltre da riferimento per affrontare lo scollamento tra tecnica e cultura: la tecnica teatrale «non si insegna. La si impara stando in scena con un leader», poi però va personalizzata per conquistare la capacità di improvvisare e la qualità della freschezza. In sintesi, «attori si nasce, ma si diventa».
Dunque preferiva definirsi leader più che regista. Riteneva che la regia in Italia avesse «annullato» l’attore e criticava sia l’attore-esecutore che era subentrato all’attore-interprete, incarnato nel Novecento dal grande Olivier, sia l’attore senza basi professionali di molto teatro d’avanguardia. Da un lato, indicava come maestri Brecht, Artaud e Majakovskij e, dall’altro, portava l’esempio di Charlie Parker per rivendicare la necessità di «un blocco unico tra autore, interprete, scenografo, luci» (senza nominare il regista) e di una presenza scenica basata sull’essere e non sul fare. «Non sono mai uscito da un teatro dicendo di aver visto una bella regia. La regia dovrebbe essere un contenitore, una griglia per far esplodere la creazione dell’attore» (de Berardinis, Il teatro è l’attore. Ma l’attore dov’è?, in Le forze in campo. Per una nuova cartografia del teatro. Atti del Convegno (Modena, 24-25 maggio 1986), 1987, pp. 56-57). Una concezione che si manifestò ‘alla lettera’ nella fase finale: la regia «come arte combinatoria e montaggio delle attrazioni», come rottura degli «schemi preordinati di costruzione lineare drammaturgica, [fossero] essi trame, racconti o quant’altro» (M. De Marinis, Leo de Berardinis e il Novecento teatrale, in Leo de Berardinis oggi, p. 46).
Anche la sua tecnica drammaturgica era basata prevalentemente sulla creazione di contenitori: assemblava testi prediletti, di cui riconosceva l’essenza letteraria e, da attore, li trasformava in un organismo unitario con un montaggio originale (S. Casi, Nel cantiere drammaturgico di Leo, in Leo de Berardinis oggi, pp. 51-63). Non lavorava infatti sul concetto di personaggio nemmeno quando si trattava di Shakespeare ma su «stati di coscienza», sottolineando così il carattere autobiografico del lavoro dell’attore, non certo in senso confessionale o psicologico ma come attivazione di un processo di conoscenza di sé e del mondo necessario per accedere al testo e alla scena, in una condizione di con-fusione inevitabile tra teatro e vita.
Anche il tema della riunificazione delle arti sceniche, che fu uno dei suoi fili conduttori sin dagli esordi, non diventò mai una rivendicazione di principio: era l’esito concreto di un lavoro teatrale concepito come ricerca e come processo, con libero accesso a tutte le arti. Al cui interno ancora operava per sconfinamenti, contaminazioni, accostamenti inediti: dalla musica classica alle canzonette, dalla grande letteratura alla farsa, dalle lampadine del folklore paesano ai giochi di luce più sofisticati, dal corpo persino acrobatico all’attore tutto voce.
Leo considerava il teatro molto seriamente dal punto di vista politico, etico, sociale. Possiamo anzi considerarlo un precursore del teatro sociale con il teatro di Marigliano, per il modo con cui si relazionò a quel territorio e considerò i non-attori interlocutori di cui valorizzare la teatralità ‘naturale’ e a cui fornire strumenti tecnici e un contesto di formazione: mai dimenticando che al ‘diritto di esprimersi’ deve corrispondere il ‘dovere di sapersi esprimere’. Ma il suo fu anche e soprattutto teatro d’arte in cui sperimentò la centralità del laboratorio, che non aveva a che fare con le prove lunghe, l’apprendistato di base, l’allenamento quotidiano, i seminari, ma comportava «imparare, studiare, scoprire» un nuovo linguaggio e un nuovo rapporto con il pubblico, affrontare terreni sconosciuti nella consapevolezza che lo studio di Shakespeare «non è un laboratorio è un dovere» (S. De Matteis, Marigliano, l’isola dei morti e l’uomo nudo, in Leo de Berardinis oggi, pp. 86-97).
Anche a Bologna il rapporto con la polis fu centrale per Leo: considerava il teatro un costruttore e un ricostruttore di comunità, sia all’interno fra chi lo faceva sia all’esterno, per/con coloro a cui si rivolgeva. Il celebre testo elaborato nel 1999, Per un Teatro Nazionale di Ricerca, approdo di idee e pratiche attive da tempo, prevedeva la creazione di una comunità di attori e spettatori, compresi gli studiosi, che sperimentassero insieme e mirassero a qualcosa che era sempre mancato nella struttura pur felicemente frammentata del teatro italiano: la creazione di un centro senza esclusione delle periferie e di un’istituzione di tipo nuovo. La riflessione accompagnò sempre il suo fare, sia creando occasioni di incontro e discussione sia producendo scritti teorici di alto livello.
Nel maggio 2001 Leo fu laureato ad honorem dall’Università di Bologna, con la laudatio di Meldolesi. Dopo poco più di un mese, per le complicanze di un intervento chirurgico, entrò in coma e non ne uscì. Gli ultimi anni li visse a Roma, assistito dalle sorelle, nella casa della sua compagna storica. Perla morì per prima, nell’agosto 2007, di un tumore di cui aveva taciuto. Leo la seguì il 18 settembre 2008.
Al funerale si materializzò la «oscura casa interiore, senza mura portanti ma immune dalla povertà delle tende», che Leo aveva costruito nell’arco della sua vita per mettere in relazione artisti e spettatori di ogni tipo in nome del Teatro: è l’immagine che chiude la monografia di Claudio Meldolesi (1942-2009). Una casa che avrebbe poi attratto anche il mondo dell’alta moda: Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, ha aperto con le immagini di A Charlie Parker la performance-fashion show parigina del 2018 e ha poi promosso una mostra dedicata a Leo e Perla (Milano, aprile 2019).
Fonti e Bibiografia
Il Fondo - Archivio Leo de Berardinis (1967-2001) è conservato in comodato d’uso presso il Dipartimento delle Arti dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Altri materiali sono conservati presso l’archivio del Festival di Santarcangelo o in archivi privati, in particolare di Carola De Berardinis, Gianni Manzella e Claudio Meldolesi. Scritti teorici di L.d.B. sono pubblicati tra l’altro in Culture Teatrali, 1999, n. 1, pp. 149-155, e 2000, n. 2-3, pp. 51-64; in Meldolesi, 2010, pp. 243-263. Libretti e giornali prodotti da Leo e dal suo teatro, interviste e recensioni (non inclusi in bibliografia), foto e registrazioni audio e video sono reperibili presso il Fondo - Archivio bolognese.
F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-1976), Torino 1977; O. Ponte di Pino, Per un teatro Jazz, intervista con L.d.B., in J. Gelber, La connection, Milano 1983, pp. 101-121; P. Di Marca, Tra memoria e presente. Breve storia del teatro di ricerca in Italia nel racconto dei protagonisti (1959-1997), Roma 1998, pp. 21-39; C. Meldolesi, Laurea honoris causa a L.d.B., in Teatro e Storia, 2001, n. 23, pp. 401-409; M. La Monica, Il poeta scenico. Perla Peragallo e il teatro, Roma 2002; A. Amendola, Per una poetica del molteplice. Dialogo con L.d.B., Salerno 2007; A. Attisani, L’arte e il sapere dell’attore. Idee e figure, Torino 2015; Lo stupore della materia. Il teatro di de Berardinis-Peragallo (1967-1979) (catal.), a cura di G. Manzella - E. Pitozzi, Milano 2019; R. Ferraresi, L.d.B. fra ‘seconda’ e ‘terza’ vita. “La strage dei colpevoli” (Roma, 1982), Acireale-Roma 2019.
Vanno segnalati soprattutto tre saggi: La bellezza amara di G. Manzella (Parma 1993, aggiornato nelle edizioni del 2008 e del 2010), che si basa su lunghe interviste all’artista; La terza vita di Leo. Gli ultimi vent'anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna riproposti da Claudio Meldolesi con Angela Malfitano e Laura Mariani e da 'cento' testimoni (Corazzano 2010), che presenta questa coralità in un’articolata struttura storico-teorica; La tentazione del Sud di A. Vassalli (Corazzano 2018), che usa nuove fonti, provenienti dal Fondo - Archivio Leo de Berardinis, dell’Università di Bologna. Fonti che hanno ispirato i saggi pubblicati nel numero monografico Leo de Berardinis oggi (Culture Teatrali, 2019, n. 28, a cura di L. Mariani - C. Valenti) di R. Anedda, S. Biasin, S. Casi, M. De Marinis, S. De Matteis, R. Ferraresi, L. Mariani, M. Marino, S. Mei, C. Valenti, F. Vazzoler, M. Viani.
Foto: ritratto di Tommaso Le Pera