Strauss, Leo
Filosofo tedesco, naturalizzato statunitense, nato nel 1899 a Kirchhain (Assia) in una famiglia di ebrei osservanti. Dopo il dottorato in filosofia, conseguito nel 1921 ad Amburgo sotto la guida di Ernst Cassirer, si trasferì a Friburgo per seguire le lezioni di Edmund Husserl. Lasciò la Germania nel 1932, alla volta della Gran Bretagna, per sottrarsi alle persecuzioni razziali (i suoi familiari non emigrati verranno quasi tutti uccisi nei campi di concentramento nazisti). Nel 1937 si trasferì negli Stati Uniti, dove iniziò una fortunata carriera accademica: insegnò dapprima nella New school for social research di New York (1938-48), poi all’Università di Chicago (1949-67), infine presso il Claremont men’s college in California (1968-69). Morì ad Annapolis nel 1973.
In polemica sia con la scienza sociale avalutativa di indirizzo comportamentista e funzionalista, all’epoca dominante negli atenei statunitensi, sia con l’indirizzo storicista, tipico della cultura universitaria europea nella quale si era formato, S. ha coltivato una prospettiva teorica centrata sul recupero, da un lato, della tradizione religiosa di matrice biblica e, dall’altro, della filosofia classica (a partire da Platone), dei suoi temi fondamentali e delle sue verità al tempo stesso profonde e segrete. Tale recupero – una vera e propria strategia intellettuale di ‘ritorno agli antichi’, a difesa della grande tradizione occidentale messa in crisi, con esiti autodistruttivi, dalla modernità e dall’Illuminismo – si è realizzato non solo attraverso una lettura filologicamente puntigliosa dei classici del pensiero politico-filosofico (esemplari, in questo senso, rimangono le sue interpretazioni del Gerone senofonteo, dei testi platonici e hobbesiani, come pure i suoi commenti a Maimonide), ma anche sulla base di un approccio ermeneutico non privo di venature esoteriche che è forse l’aspetto più originale (e controverso) della sua attività critico-speculativa. Secondo S., infatti, il carattere potenzialmente sovvertitore della filosofia, rispetto all’opinione corrente e a qualunque forma di ordine costituito, ha imposto ai saggi, sin dalle origini, l’adozione di una forma di scrittura cifrata e obliqua, basata sulla reticenza e l’occultamento, sulla doppiezza e il sotterfugio: da un lato per sfuggire ai rischi di persecuzione da parte del potere, dall’altro per non rivelare alle masse insegnamenti pericolosi e potenzialmente in grado di minare l’unità sociale garantita dalla morale religiosa. Da qui la necessità, nei confronti di qualunque grande opera del pensiero, di saper leggere tra le righe, andando alla ricerca delle verità nascoste, dei simbolismi, dei messaggi cifrati, delle allusioni e degli ammaestramenti segreti che essa immancabilmente contiene e che, per non risultare distruttivi, dovrebbero restare appannaggio di ristrette cerchie intellettuali.
Esattamente con questa tecnica esegetica S. ha sviluppato il suo confronto con M., al quale ha dedicato un importante e analitico studio pubblicato nel 1958, Thoughts on Machiavelli, nato dall’elaborazione di alcune conferenze tenute nel 1953 presso l’Università di Chicago. Il rigetto delle teorie del Fiorentino – definito un «uomo malvagio» e un «maestro del male» (teacher of evil), un pensatore «immorale e irreligioso» – è esplicito e radicale sin dalle prime pagine del testo e sembra richiamare i giudizi di condanna dell’antimachiavellismo controriformistico. S. contesta che M. possa essere considerato l’iniziatore della scienza politica (nel significato empirico-descrittivo tipico del positivismo), dal momento che le sue opere contengono a ogni passo giudizi di valore e presentano un chiaro intendimento normativo: M. non si limita infatti a spiegare, da osservatore neutrale o da tecnico del potere, i meccanismi che presiedono l’agire politico degli uomini, bensì sostiene la costruzione di un modello di ordine politico orientato, più che al bene comune o al senso di giustizia, alla potenza e basato su una concezione secolarizzata della storia e una visione naturalistica dell’uomo.
Ma la veemenza delle critiche non basta a nascondere un fondo di ammirazione nei confronti del Fiorentino (l’unico autore, insieme a Baruch Spinoza e a Thomas Hobbes, al quale S. abbia dedicato una monografia) e il convincimento che la sua vera colpa non sia stata quella di aver elaborato una visione della politica cinica e cupa – basata sull’esaltazione della forza e sul disconoscimento della fede, sull’enfatizzazione della fortuna a scapito della provvidenza, sull’assolutizzazione della politica a danno della sfera divina, sulla deliberata rimozione della differenza (ben nota agli antichi) tra la figura del re e quella del tiranno – ma di averla rivelata in modo irresponsabile. Se il vero filosofo si lascia guidare dalla prudenza e dalla circospezione, M. ha tradito questa antica vocazione, nella convinzione di avere scoperto «nuovi modi e ordini», profondamente innovativi rispetto a quelli ereditati da una tradizione secolare secondo la quale le leggi sociali e l’ordine politico rispecchiano l’eternità del disegno divino che regge il mondo, e non la volontà dell’Uomo, il cieco determinismo della Natura o, peggio, la casualità della Storia.
Naturalmente, per l’epoca in cui ha scritto, ancora fortemente intrisa di valori religiosi e profondamente segnata dall’eredità della filosofia greco-cristiana, M. non ha potuto essere esplicito nelle sue formulazioni. Ha dovuto invece adottare una strategia discorsiva subliminale e astuta, nella quale i silenzi contano quanto gli errori, entrambi deliberati e consapevoli. Leggendo controluce il Principe e i Discorsi – da S. considerati in modo sostanzialmente unitario, con la sola differenza che il primo, una sorta di manuale tecnico, si rivolge ai principi della sua epoca, mentre i secondi hanno come destinatari i principi potenziali – si scopre infatti facilmente come quella machiavelliana sia una dottrina svelata per gradi e in modo allusivo, giocata sul filo della dissimulazione, fondata sull’omissione volontaria dei concetti chiave su cui si basava la filosofia classica (anima, bene comune, coscienza), persino diabolicamente blasfema allorché l’unica citazione machiavelliana riconducibile al Nuovo Testamento (in Discorsi I xxvi 2) viene utilizzata per presentare – «orribile bestemmia», scrive S. – Dio nelle vesti di un tiranno.
La lettura straussiana di M., proprio per le suggestioni esoterico-iniziatiche che contiene (non escluse talune digressioni numerologiche derivanti dai suoi interessi cabalistici), si presenta in effetti come potenzialmente ambigua. Al punto da aver spinto alcuni interpreti (ad es. Shadia B. Drury) a considerare le scomode verità imputate al Fiorentino l’espressione dei convincimenti più autentici dello stesso S., che quest’ultimo avrebbe rivelato a sé stesso e ai suoi lettori in modo obliquo coprendosi dietro le parole del primo. Se è vero infatti che S. accusa M. di ogni possibile nefandezza, giudicando la sua dottrina amorale e irreligiosa, sovvertitrice e nociva, è anche vero che non sostiene mai, in modo esplicito, che essa sia sbagliata o falsa, dando così l’impressione di condividerla intimamente pur nella durezza della condanna. In realtà, per quanto suggestiva, questa lettura paradossale non tiene conto della polarità che S. stabilisce, sin dalle prime pagine del suo testo, tra il machiavellismo, pure intriso di ideali repubblicani e, in senso lato, democratico-popolari, e il sistema di valori che ha fatto nascere l’esperimento costituzionale degli Stati Uniti, del quale S., dopo la sua fuga dall’Europa, si fece un sostenitore convinto: un caso storico, quello americano, che secondo S. dimostra, a smentita delle teorie di M., come la fondazione della grandezza politica non si basi necessariamente sul delitto, sullo spirito di conquista e sulla tirannide, ma possa avere come proprio fondamento politico-morale la libertà e la giustizia, nonché accettare il riconoscimento nella sfera pubblica dei valori religiosi.
Bibliografia: Thoughts on Machiavelli, Glencoe (Ill.) 1958 (trad. it. Milano 1970); Niccolò Machiavelli, in History of political philosophy, ed. L. Strauss, J. Cropsey, Chicago 1963 (trad. it. in L. Strauss, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Torino 1998, pp. 271-93).
Per gli studi critici si vedano: S.B. Drury, The hidden mean ing of Strauss’s Thoughts on Machiavelli, «History of political thought», 1985, 3, pp. 575-90; D. Germino, Blasphemy and Leo Strauss’s Machiavelli, «Review of politics», 1991, 53, pp. 146-56; G. Giorgini, Machiavelli “maestro del male”: i pensieri su Machiavelli di Leo Strauss, in Machiavelli e le Romagne, a cura di R. Caporali, Cesena 1998, pp. 153-63; S. Suppa, Machiavelli nel mondo conservatore di Leo Strauss, in Anglo-American faces of Machiavelli. Machiavelli e machiavellismi nella cultura anglo-americana (secoli XVI-XX), a cura di A. Arienzo, G. Borrelli, Monza 2009, pp. 487-508.