LEOCARE (Λεωχάρης, Leochăres)
Scultore ateniese, fra i più famosi del secolo IV a. C. Notizie sparse dell'attività di L., in base alle opere, ci sono fornite da Plinio il Vecchio, da Pausania e da Plutarco. I limiti estremi dentro i quali rimane compresa l'attività dell'artista, sono le date approssimative del 390 e del 315 a. C. Il nome di L. si afferma abbastanza presto nel campo dell'arte, poiché circa la metà del secolo egli si trova a lavorare alle sculture del Mausoleo di Alicarnasso, in compagnia di Scopa, Timoteo e Briasside, che sono, insieme con Prassitele e con Lisippo, gli altri più noti scultori suoi contemporanei. Nella distribuzione del lavoro sarebbe toccato a L. di eseguire le sculture del lato occidentale del Mausoleo. Subito dopo la battaglia di Cheronea (338), L. è chiamato a Olimpia per eseguire le statue destinate al Filippeīon, santuario o herōon dedicato a Filippo di Macedonia: e cioè le statue-ritratti di Filippo, della moglie Olimpia, dei genitori Aminta ed Euridice, e del figlio Alessandro: le statue erano d'oro e avorio. Circa il 320 poi L. eseguisce, insieme con Lisippo, per il santuario apollineo di Delfi, un grande gruppo in bronzo, rappresentante Cratero, uno dei generali di Alessandro, in atto di salvare il suo re in una pericolosa avventura di caccia al leone.
Questi i capisaldi cronologici dell'attività dell'artista. Quanto a farci un'idea dell'arte sua, essendo tuttora impossibile ricavare alcun elemento distintivo stilistico dallo studio delle lastre scolpite (con scene di Amazonomachia) provenienti dal mausoleo di Alicarnasso, e conservate nel British Museum, il materiale disponibile è oltremodo scarso e insufficiente. Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 79) ricorda e descrive di L. un gruppo di Ganimede rapito dall'aquila e la breve descrizione pliniana si accorda con un epigramma dell'Antologia greca (III, 82, 63; Palat., XII, 221). Tali testimonianze letterarie hanno servito per identificare come una copia dell'opera un piccolo gruppo marmoreo del museo Vaticano rappresentante Ganimede giovinetto, clamidato, che regge ancora nella destra il pedum pastorale, nel momento in cui viene sollevato da terra dall'aquila. Questa, con le ali largamente spiegate, tiene afferrato il giovinetto per la persona, con gli artigli aderenti alla clamide per non offendere il tenero corpo. Anche nella mediocre e tarda copia romana, il gruppo è altamente espressivo, pieno di aspirazione verso l'alto. Diritti al cielo mirano infatti gli occhi dell'aquila, quelli del giovinetto, nonché il fedele cane col muso levato e le fauci aperte a un lamento per la dipartita del suo padrone. Il tronco arboreo verticale collocato dietro il gruppo, ha permesso all'artista di conferire alla sua composizione plastica tutta la leggerezza possibile. Ma è certo che nell'originale, eseguito in bronzo, il gruppo doveva suggerire un'impressione di leggerezza anche maggiore.
A L. è stato attribuito, da F. Winter, l'originale, perduto, da cui deriva la statua notissima dell'Apollo del Belvedere, non priva, infatti, di affinità stilistiche col Ganimede. Anche l'originale dell'Apollo del Belvedere, nell'atto di scoccare la freccia dall'arco, doveva essere di bronzo. Non meno di tre sono le statue di Apollo ricordate dalle fonti come opera di L. Un'assai meno sicura e persuasiva attribuzione a L. è quella recente di Th. Schrader della statua di Hypnos a Madrid (Museo del Prado).
Un altro scultore dello stesso nome è ricordato in tre iscrizioni, due delle quali da Atene, del sec. II-I a. C.
Bibl.: Bieber, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXIII, Lipsia 1929, s. v., p. 66 segg.; G. Lippold, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XII, col. 1992 segg.; W. Amelung, Saggio sull'arte del sec. IV a. C., in Ausonia, III (1908), p. 91 segg.; Revue de l'art anc. et mod., giugno 1932, p. 239.