Alberti, Leon Battista
Figlio naturale di Lorenzo Alberti, Leon Battista Alberti (Genova 1404 - Roma 1472) visse i primi anni lontano da Firenze, con il padre esule, in varie città dell’Italia settentrionale (Genova, Venezia, Padova); successivamente si recò a Bologna per laurearsi in diritto canonico, poi come abbreviatore apostolico presso la Curia a Roma, quindi come architetto a Rimini e Mantova.
La produzione albertiana è bilingue, latina e volgare, e molto ampia: trattati morali, opere comico-umoristiche, scritti sull’amore e il matrimonio, trattati d’arte, scritti linguistici, opuscoli e frammenti vari (questa la classificazione prevista nel piano delle opere per l’Edizione Nazionale). La riflessione sulla lingua è una costante (sugli studi linguistici su Alberti cfr. la rassegna di Siekiera 2004). Oltre alle opere propriamente linguistiche (Proemio al terzo libro della Famiglia e Grammatichetta), grande rilievo hanno molti passaggi dei trattati tecnico-artistici, in cui si sofferma sulla necessità della trasparenza soprattutto lessicale dei testi di questo tipo.
Agli inizi del Quattrocento la diffusione del volgare come lingua di cultura era rallentata, in connessione con la riscoperta e la valorizzazione del latino classico da parte dell’Umanesimo. Alberti, che ha solida formazione umanistica e grande competenza della lingua latina, riconosce l’immenso valore del latino, tanto da ritenere, come Valla, la sua perdita come il più grave danno prodotto dalla caduta dell’Impero Romano; ma la sua ammirazione per il latino non lo distoglie dal volgare, anzi lo stimola a valorizzarlo. Lo spingono due forze: da un lato la constatazione che il volgare è la lingua usata dalla maggioranza; dall’altro la sensibilità che lo rende consapevole delle potenzialità del volgare, a suo vedere pari al latino sia per struttura sia per espressività. Per questo, condividendo la tesi di Flavio Biondo, secondo cui il volgare non è che una degenerazione dal latino, dovuta alla catastrofe dell’Impero Romano e alla corruzione conseguente alle invasioni barbariche, la sviluppa fino alle estreme conseguenze nel Proemio al terzo libro della Famiglia (circa 1437), forzandone le conclusioni a favore del volgare: se il latino è una lingua storica e ha potuto raggiungere gli altissimi livelli che tutti gli riconoscono grazie ai grandi scrittori, anche per il volgare può aprirsi una strada analoga, purché sia amato, curato, perfezionato, diffuso, usato dai letterati nei registri alti della lingua, rifondato secondo i canoni umanistici.
Alberti diventò così l’iniziatore di quel movimento di recupero della lingua volgare che si sarebbe sviluppato e rafforzato grazie all’opera di esponenti illustri come Lorenzo de’ Medici, Cristoforo Landino, Angelo ➔ Poliziano, e, fuori dalla Toscana, Matteo Maria ➔ Boiardo, Giovanni Pontano, Iacopo Sannazaro. Il diffondersi di questo movimento sposta progressivamente l’asse delle discussioni dall’antagonismo latino / volgare alla questione del volgare da scegliere come modello per la lingua degli scrittori. Il contributo di Alberti fu quindi fondamentale, anche se la scelta del modello si orientò ben presto su un piano di forte imitazione dei classici volgari e quindi lontano dal volgare umanistico albertiano.
Una delle iniziative per la promozione della lingua volgare fu il Certame coronario, concorso pubblico di poesia in volgare sul tema dell’amicizia, che Alberti ideò e organizzò a Firenze il 22 ottobre 1441. Alla gara parteciparono quattordici poeti, dei quali solo otto furono ammessi a recitare (o a far recitare) i propri testi pubblicamente in S. Maria del Fiore, sottoponendoli a dieci giudici prescelti fra i segretari del papa Eugenio IV. Ma la giuria umanistica, che nelle intenzioni di Alberti indicando un vincitore avrebbe legittimato la poesia alta in volgare, si rifiutò di assegnare il premio; e di ciò si lamentò Alberti nella Protesta (che circolò anonima nei giorni immediatamente successivi alla gara, ma la cui paternità albertiana è sicura). Al di là del risultato negativo, l’iniziativa, che ebbe comunque grande successo di pubblico, è importante per il suo significato e per ciò che rivela: il tema scelto, la vera amicizia, è squisitamente umanistico e la gara rievoca concorsi analoghi diffusi nel mondo latino e soprattutto greco (Bertolini 2003). È evidente dunque l’idea di Alberti di spostare il raggio d’azione del volgare proprio in quegli ambiti che costituivano una roccaforte del latino di stampo umanistico: una valorizzazione della lingua volgare che, in parte dimenticando la tradizione poetica trecentesca, ponesse i suoi fondamenti su quelle caratteristiche che avevano dato prestigio al latino, seguendo esattamente la strada maestra disegnata nel Proemio al terzo libro della Famiglia.
Ma l’operazione più importante per la valorizzazione della lingua volgare è quella di farne emergere la struttura in modo inequivocabile, descrivendola in una grammatica, con gli stessi criteri e secondo le stesse categorie usate per il latino. Alberti, secondo un piano ben articolato e delineato, negli stessi anni del Proemio e del Certame si dedica alla composizione della Grammatichetta, tramandataci dal codice Vaticano Reginense Latino 1370 della Biblioteca Apostolica Vaticana (e, per la tavola con l’Ordine delle lettere, anche da un autografo conservato presso la Biblioteca Moreniana di Firenze). La Grammatichetta, composta probabilmente fra il 1438 e il 1441 (ma la datazione va forse anticipata), è un testo di sorprendente modernità, prima di tutto perché ha il carattere di una grammatica sincronico-descrittiva. La lingua oggetto della Grammatichetta è sempre etichettata da Alberti come toscana, ma le descrizioni in essa contenute corrispondono sostanzialmente al fiorentino quattrocentesco (Bonomi 1999; Poggi Salani 2001; Manni 2007).
Com’è noto, fra la seconda metà del Trecento e il primo Quattrocento il fiorentino aveva subito una trasformazione, assorbendo dalle varietà toscane circostanti alcuni tratti ormai identificati e studiati in modo preciso: spesso questi emergono anche dal testo di Alberti, grazie alla sua capacità di cogliere la modernità della lingua che descrive (per es., l’articolo el / e, le forme verbali come sete, fusti, fussi). La Grammatichetta non è quindi soltanto la prima grammatica italiana, ma è anche la prima con un’impostazione sincronica; e per l’italiano si tratta di un’eccezione, rispetto alla tradizione successiva, basata sulla lingua degli scrittori del Trecento. Nella Grammatichetta è costante il riferimento all’uso e al parlato, senza richiamarsi all’autorità degli scrittori (gli esempi sono inventati sulla base del parlato quotidiano fiorentino quattrocentesco), con grande attenzione all’oralità (Patota 1996). Conformemente a tutta la politica linguistica albertiana, la descrizione è «umanisticamente» fondata sul modello classico: Alberti descrive la lingua d’uso mediante le categorie applicate dai grammatici classici alla lingua latina, anche con l’intento di dare prestigio alle strutture della lingua volgare.
Di grande modernità è poi la proposta di un sistema ortofonico (su cui si veda anche Cardini 2009), che anticipa le ipotesi cinquecentesche, da Trissino a Bartoli, ponendo l’accento sulla mancanza di biunivocità tra il sistema fonetico del volgare e il sistema grafico di origine latina che si stava lentamente stabilizzando. Con la creazione di un alfabeto ortofonico, funzionale alla descrizione pratica e chiara dell’inventario dei fonemi del fiorentino contemporaneo, Alberti di fatto è il primo a individuare alcune coppie minime (➔ coppia minima) per la nostra lingua (per es., /ˈskɔrse/ ~ /ˈskorse/, /riˈpɔsi/ ~ /riˈposi/, /ˈpɔrtʃi/ ~ /ˈportʃi/, /ˈnɛra/ ~ /ˈnera/, e anche /ˈpɛlle/ ~ /ˈpelle/).
Molto interessante è il confronto fra la lingua descritta da Alberti nella Grammatichetta e quella che emerge dai suoi scritti. A proposito va precisato che gli autografi albertiani, gli unici su cui si possano fare considerazioni di tipo grafico-fonetico e morfosintattico, non sono molti: le lettere, il codice Riccardiano 2608 per l’elegia Mirtia (l’unico relativo a un testo creativo ad avere una certa organicità), la citata carta moreniana con la tavola dell’Ordine delle lettere. Tuttavia è noto che Alberti prevalentemente dettava i suoi scritti, il che consente, con una certa precauzione, osservazioni di tipo sintattico; e comunque li correggeva di suo pugno, così che fra i materiali autografi possiamo aggiungere il corpus di annotazioni (Bertolini 2001) e avere un campione sufficientemente vasto per l’analisi della lingua albertiana. Gli studi recenti hanno fatto emergere un impasto di base fiorentina con tratti di origine settentrionale (legati forse ai soggiorni dell’infanzia e della giovinezza, ma anche ai viaggi dell’Alberti architetto nell’Italia settentrionale). Ma la polimorfia albertiana non ha solo origini diatopiche: è stata da tempo sottolineata la sua capacità di muoversi fra i vari registri di lingua, anche a livello sintattico (da uno stile colloquiale a una trama di tipo latineggiante, come nei libri della Famiglia).
La varietà linguistica albertiana è senza dubbio attestata dal lessico, entro cui è più facile svincolarsi dalla dipendenza dagli autografi. Alberti è anche onomaturgo, e questa sua tendenza a creare nuove parole emerge in particolar modo nei testi tecnici (per quanto riguarda il volgare si spazia dalla pittura all’architettura, alla matematica). Al lessico tecnico dà un contributo fondamentale anche per il latino, in particolar modo con la versione latina del De pictura e con il De re aedificatoria, in cui tende a usare una terminologia omogenea di matrice endogena (rifuggendo, per es., le parole greche o grecizzanti presenti in Vitruvio). Per ottenere questo risultato ricorre a tutto il repertorio disponibile, ma inventa nuovi tecnicismi ove non vi sono parole che vanno incontro ai principi, per lui fondamentali, della chiarezza e della trasparenza. Sul fronte del volgare Alberti attinge essenzialmente alle botteghe artigiane o artistiche della Firenze contemporanea, e al mondo dei cantieri (lo confermano i parallelismi rintracciati con il lessico presente negli archivi dell’Opera di Santa Maria del Fiore, come, per es., cherica per la «parte superiore della cupola»); ma non mancano le neoconiazioni sulla base di una risemantizzazione tecnica del lessico comune (per es., buccia per la «parte esterna di una superficie», ghirlanda per «circonferenza»; cfr. Maraschio 1972; Biffi 2007).
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Alberti, Leon Battista (1996), Grammatichetta e altri scritti sul volgare, a cura di G. Patota, Roma, Salerno Editrice (2ª ed. rivista: Grammatichetta. Grammaire de la langue toscane précédée de Ordre des lettres, Paris, Les Belles Lettres, 2003).
Alberti e la cultura del Quattrocento (2007). Atti del Convegno internazionale del Comitato Nazionale VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti (Firenze 16-18 dicembre 2004), a cura di R. Cardini & M. Regoliosi, Firenze, Edizioni Polistampa, 2 voll.
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Maraschio, Nicoletta (1972), Aspetti del bilinguismo albertiano nel “De pictura”, «Rinascimento» 12, pp. 183-228.
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Siekiera, Anna (2004), Bibliografia linguistica albertiana (1941-2001), Firenze, Edizioni Polistampa.