Leon Battista Alberti
Leon Battista Alberti è spesso considerato uno dei promotori della modernità economica e del capitalismo borghese laico ed emancipato dalla morale cristiana. La diffusione della sua opera fin dall’Ottocento dimostra l’importanza del suo contributo alla formazione della cultura economica moderna. I Libri della famiglia sono tuttavia una sintesi in volgare di concezioni ascetiche e gestionali radicate nella cultura filosofica e religiosa della fine del Medioevo: offrono una visione sociale e governativa dell’individuo e della comunità familiare e politica tipica dei ceti ecclesiastici e laici che governano le città italiane.
Secondo figlio naturale del mercante Lorenzo di Benedetto Alberti e di Bianca Fieschi, Alberti nasce a Genova il 18 febbraio 1404, durante l’esilio della sua famiglia, allontanata da Firenze nel 1401. La vita lo porterà in alcuni dei più grandi centri intellettuali, economici e politici della penisola, dove incontrerà i più famosi umanisti e uomini di potere del suo tempo. Dopo un periodo a Venezia, sembra aver frequentato la scuola padovana dell’umanista Gasparino Barzizza. Studia il diritto canonico a Bologna, dove si laurea nel 1428. Vi scrive le sue prime commedie morali, tra cui la Philodoxeos fabula (1424-27 ca.), dedicata a Leonello d’Este, e si dà allo studio della fisica e della matematica.
A Roma dal 1431 o 1432, entra come segretario al servizio di Biagio Molin, patriarca di Grado e reggente della cancelleria pontificia, nella quale è nominato abbreviatore apostolico. Dedica al suo protettore la Vita Sancti Potiti (1433), che doveva essere la prima di una serie di vite di santi e martiri, mai realizzata; nello stesso periodo celebra gli studi liberali nel De commodis literarum atque incommodis. Grazie a Eugenio IV, il quale nel 1432 leva l’impedimento che gli vietava, in quanto figlio illegittimo, di assumere gli ordini sacri, diventa priore e poi pievano (1448). Durante i suoi anni romani frequenta gli umanisti della corte papale, studia le rovine della città antica (Descriptio urbis Romae), si dedica a esperimenti ottici e scrive in volgare i primi tre libri Della famiglia (1432-34).
Assieme a Eugenio IV, fugge da Roma nel 1434 e si reca a Firenze, dove incontra e frequenta i più famosi artisti, poeti e letterati della città. Si lega di amicizia a Piero di Cosimo de’ Medici, e nel 1434-35 scrive l’opuscolo De pictura, dedicato all’amico e protettore Giovanni Francesco Gonzaga, gli Elementi di pittura e il trattato De statua.
Dal 1436 al 1438 accompagna il papa a Bologna e Ferrara. Nel 1437 scrive un opuscolo, De iure, sulla buona amministrazione della giustizia, e un altro Pontifex, sulle virtù e sulle qualità necessarie per assumere le responsabilità del vescovo.
Dal 1439 al 1443 dimora di nuovo a Firenze, dove scrive due opere in volgare, Theogenius (1440-41) e Della tranquillità dell’animo (1441-42), in cui affiora un certo pessimismo, forse dovuto a difficoltà familiari e a delusioni politiche.
Torna a Roma nel 1443 con la corte papale. I Ludi matematici (ovvero Ex ludis rerum mathematicarum) sono redatti tra il 1450 e il 1452, e il De re aedificatoria nel 1452. Dal 1460 in poi, una stretta amicizia lo lega a Lorenzo de’ Medici a Firenze. Muore a Roma nell’aprile 1472.
Si è affermato in passato che l’opera fosse indirizzata alla sola cerchia familiare e laica (J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien. Ein versuch, 1860; trad. it. 1921, pp. 154-58). Ma se si prende in considerazione il fatto che Alberti è sempre vissuto vicino al potere, amato e protetto dai ‘grandi’, ed è membro di una delle più importanti famiglie mercantili di Firenze, canonista, moralista, titolare di un beneficio ecclesiastico, sembra più probabile che i Libri della famiglia presentino una riflessione di ordine più generale sull’economia e la società. Non dimentichiamo che, appena scritta, quest’opera ottenne subito un vasto successo tra la borghesia fiorentina (Grayson, Argan 1960, p. 704).
L’opera, stesa in volgare sotto forma di dialoghi, mette a confronto le opinioni di Adovardo, Battista, Carlo, Giannozzo, Lionardo, Lorenzo, Piero e Ricciardo, tutti membri della ‘famiglia Alberta’, che si immaginano riuniti a Padova nell’anno 1421. L’uso del fiorentino è spesso considerato un atto di militanza a favore del volgare, ancora poco stimato tra gli umanisti (Alberti ne scrive le lodi nel proemio del terzo libro), ma potrebbe anche essere interpretato come il risultato di un’ambizione didattica e divulgativa (Furlan 2003, p. 118). Nel proemio, Alberti si rivolge direttamente ai giovani della sua famiglia («o giovani Alberti»: I libri della famiglia, a cura di R. Romano, A. Tenenti, nuova ed. a cura di F. Furlan, 1994, Prologo, p. 4, r. 34, p. 10, rr. 226-27) e dichiara il suo desiderio di dimostrarsi utile ai loro successori (Prologo, p. 13, rr. 295-96), fondando così i dialoghi su «una finzione pedagogica» (Furlan 2003, p. 118).
La forma dialogica può spingere a chiedersi se la meta di Alberti non consista nell’opposizione semplice, posta all’inizio del primo libro, fra anziani e giovani, fra pratica e teoria, e quindi fra Medioevo e Umanesimo (Ponte 1971, pp. 288 e segg.; R. Romano, A. Tenenti, Introduzione a I libri della famiglia, 1994, pp. XXX e segg.). In termini di interpretazione, questo problema introduce ovviamente alla questione della modernità albertiana. La ‘finzione’ del dialogo serve a esporre idee e concezioni considerate da Alberti colte, anche quando sono presentate proprio come saperi pratici: per es., quando, all’inizio del secondo libro, Battista esprime un nuovo argomento a proposito delle condizioni necessarie e utili al funzionamento della famiglia, Lionardo precisa che:
Truovonsi disseminate e quasi nascoste fra molta copia di varii e diversi scrittori, onde volerle racontare tutte e ordinare, e ne’ luoghi suoi porgerle, sarebbe faccenda a qualunque ben dotto molto faticosa (I libri della famiglia, cit., Libro secondo, p. 123, rr. 642-45).
Alberti instaura in effetti un gioco retorico e dialettico molto flessibile tra conoscenza letteraria, spesso tratta dagli antichi, quindi classica e tipicamente umanista, e conoscenza pratica tratta dall’esperienza. Nel terzo libro la pratica e la teoria non entrano in contraddizione l’una con l’altra: infatti, all’inizio del libro, Lionardo osserva che la saggezza economica di Giannozzo, l’utilità e la giustezza dei suoi consigli pratici, pur non trovandosi nei testi, non entrano in conflitto con questi, e anzi la pratica e la teoria si completano a vicenda (Libro terzo, p. 203, rr. 290-93).
Il dialogo permette all’autore di creare un effetto di realismo didattico, adeguato all’ideale umanistico di ricerca e di acquisizione collettiva del sapere. Il dialogo umanistico, infatti, non consiste in un’opposizione rigida dei contrari, ma piuttosto nel sottile esercizio della ricerca del consenso collettivo (Furlan 2003, pp. 63 e segg.).
Il confronto tra un sapere «per pruova» e un sapere «per coniettura» si concreta, oltre che nel dialogo, nel personaggio di Adovardo, che nel quarto libro riesce a convincere Lionardo, difensore dell’autorità delle lettere: il fine di Alberti sembra essere soprattutto la promozione di questa «integrazione reciproca» tra esperienza pratica e analisi filosofica (Furlan 2003, pp. 138 e segg.).
È quindi molto difficile affermare l’origine puramente pratica o teorica e letteraria, antica, medievale o moderna delle opinioni e dei consigli esposti nell’opera, e determinare chi degli antichi dotti e chi dei giovani letterati abbia ragione.
In opposizione con la tesi di Werner Sombart sulla modernità di Alberti come espressione di un pensiero borghese emancipato, Max Weber definisce le opinioni di Alberti «dottrina da letterati» (Die protestantischer Ethik und der Geist des Kapitalismus, «Archiv für Sozialwissenschaft und Politik», 1904-1905; trad. it. 19652, pp. 108-12) e Gino Luzzatto «pura nostalgia per l’antichità» (Storia economica dell’età moderna e contemporanea, 1° vol., L’età moderna, 19503, p. 106). Antonio Gramsci aderisce invece alla tesi di un contributo di Alberti alla nascita dello spirito borghese, che secondo lui, però, non è affatto laico o influenzato dalla filosofia antica, ma d’ispirazione clericale (Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, 19493, p. 34, e Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 1° vol., 19772, pp. 614-15).
Amintore Fanfani e Armando Sapori hanno invece cercato nei Libri della famiglia le tracce di ciò che era ai loro tempi considerato caratteristico delle condizioni economiche reali del Quattrocento, come la preminenza del reddito fondiario e dell’economia agraria (A. Fanfani, Le origini dello spirito capitalistico in Italia, 1934, pp. 113-25), il declino della mercatura (A. Sapori, Medio Evo e Rinascimento. Spunti per una diversa periodizzazione, «Archivio storico italiano», 1957, 2, p. 160) e la nostalgia per il dinamismo mercantile e politico fiorentino della fine del Duecento e dei primi decenni del Trecento (A. Sapori, La famiglia e le compagnie degli Alberti del Giudice, in Id., Studi di storia economica. Secoli 13°-14°-15°, 2° vol., 19553, pp. 1008-11).
La diversa ricezione e interpretazione dei Libri della famiglia è legata alle differenti posizioni storiografiche nell’ambito degli studi sulla fine del Medioevo e sull’inizio del Rinascimento e all’interno dei dibattiti attorno alla modernità e al capitalismo, ma anche, ovviamente, allo stato della scienza storica nel momento in cui questi autori scrissero. Un’altra tendenza storiografica reperibile nelle varie interpretazioni dei Libri della famiglia consiste nell’individuare e separare i campi religioso, economico e politico, l’ambito laico da quello ecclesiastico, oppure la sfera privata e pubblica, di un sistema sociale in cui, invece, tutti questi elementi non erano indipendenti gli uni dagli altri e considerati autonomi: l’interrogarsi sul livello di emancipazione laica rispetto alla Chiesa e alla religione di un canonista pievano quattrocentesco è una conseguenza diretta di una tale visione anacronistica.
L’incipit dei Libri della famiglia oppone, in termini classici, la fortuna alla virtù, come avvio a una riflessione sulle possibilità dell’azione umana nel mondo, condotta attraverso la ricerca delle cause della grandezza e del decadimento delle famiglie fiorentine più ricche e potenti (Prologo, p. 4, rr. 28-32, 45-47). La meditazione sulla famiglia, il «ragionare domestico e familiare» albertiano, si svolge quindi in un quadro umanistico ampio e aperto, che gli conferisce una particolare profondità filosofica ed ermeneutica: la ricerca della conoscenza e della verità (Furlan 2003, p. 118).
Nel primo libro Alberti tratta dell’educazione dei figli, nel secondo dell’amore e dei fondamenti della felicità della famiglia, nel terzo della ‘masserizia’, del governo e dell’amministrazione del padre di famiglia, e nel quarto libro (dedicato nel 1441 al Comune di Firenze) dell’amicizia e dei prìncipi. I temi, gli argomenti e le idee sono esposti e trattati successivamente dai vari interlocutori, e circolano quindi da un libro all’altro, al di là dei limiti tematici e delle cesure imposte artificialmente dall’organizzazione della materia in quattro libri (Furlan 2003, pp. 118-19).
La struttura dell’opera, in realtà molto unitaria e coerente (Furlan 2003, pp. 86-87), si fonda dunque sulla progressione dei dialoghi, che dalla formazione morale e intellettuale dell’individuo porta all’organizzazione e al governo della città, passando per i valori della famiglia e i rapporti tra i suoi membri e per la gestione e le attività economiche (masserizia, produzione, amministrazione aziendale, mercatura e commercio ecc.). In questo contesto, le opinioni esposte da Alberti nel campo economico-amministrativo non sono limitate alle mura della casa e alla vita domestica, ma possono essere considerate e intese come parte di una visione globale della società.
L’arrivo di Giannozzo, uomo anziano («vecchiacciuolo»), pragmatico e pieno di esperienza («sperto e pratico»), coincide con l’inizio del terzo libro, consacrato all’economia. Il modello di Alberti è Senofonte. Nel libro precedente, l’argomento delle cose utili e necessarie alla famiglia ha portato gli interlocutori a considerare i rapporti tra marito e moglie e la separazione dei lavori di casa tra uomini e donne. Ma la conversazione sull’argomento è stata interrotta, e riprende nel terzo libro con Giannozzo. Questa ripresa evidenzia il legame tra l’indagine filosofica, annunciata nell’incipit e affermata da Lionardo all’inizio del secondo libro, e le concrete preoccupazioni economico-amministrative del libro successivo.
L’argomento principale del terzo libro, l’uso e la gestione delle cose materiali, specificamente della ricchezza, è introdotto da una riflessione di Giannozzo sulla giostra, «giuoco pericoloso, di niuno utile, di molta spesa», uno di quelli ai quali si dedicano i giovani (Libro terzo, p. 196, rr. 101-02). La conversazione prosegue, e Giannozzo tratta successivamente dell’avarizia e della prodigalità (p. 197, rr. 125-256), della masserizia, delle tre proprietà dell’uomo (le operazioni dell’anima, il corpo e il tempo) e «delle cose della fortuna», che non si possono possedere ma che si devono saper usare, della genealogia familiare (pp. 210-11, rr. 541-55), della partecipazione alla vita politica e all’amministrazione della res publica (pp. 220-28, rr. 810-1029), della scelta e dell’acquisto della casa (pp. 230-34, rr. 1118-1232), dei modi di soddisfare i bisogni della famiglia (autoproduzione e autoconsumo; pp. 238-47, rr. 1345-1595), delle attività indispensabili alla felicità (commercio e industria; pp. 250-59, rr. 1687-1930), dei diversi modi di spendere (pp. 259-62, rr. 1934-2038), del governo della famiglia, degli incarichi degli sposi e dell’educazione della moglie giovane da parte del marito pieno di esperienza (pp. 263-97, rr. 2061-3104).
Dopo questo lungo quasi-monologo di Giannozzo (sostanzialmente, Lionardo si oppone a lui solo sulla questione dell’impegno nella vita pubblica), l’arrivo di Adovardo imprime un’ulteriore dinamica alla conversazione, permettendo di dare una nuova sfumatura alle affermazioni di Giannozzo e di discutere di un altro argomento: il denaro («moneta» o «danaio»). Si discute della sua natura, della sua utilità e del suo uso, dei prestiti che si possono concedere ai signori, agli amici, ai membri della famiglia (pp. 301-45, rr. 3226-3606). La conversazione scivola lentamente verso gli argomenti del quarto libro attraverso il tema della fiducia, presente in tutte le considerazioni di Giannozzo ma ancora più evidente quando egli parla del credito e dei prestiti (pp. 318-19, rr. 3706-42): i nostri Alberti si chiedono sempre di chi ci si possa fidare veramente.
Il discorso introduttivo di Giannozzo sulla spesa (pp. 197-201, rr. 125-256) è denso di significato e conferisce al terzo libro il suo tono generale. Questo libro non è solo una raccolta di cauti consigli su come amministrare la casa o l’azienda familiare. Giannozzo biasima un modo eccessivo di spendere, considerato irragionevole («cognosco chi getta via il suo esser pazzo»; p. 197, r. 126). Lionardo suggerisce però una distinzione tra il «tanto fuggire le spese» e l’«essere» o «parere avaro» (p. 197, rr. 140-41), perché «chi non vuole parere avaro, lo tiene necessità essere spendente» (p. 198, rr. 152-53). Giannozzo risponde che l’avarizia «è cosa odiosissima» (p. 198, r. 146) e la definisce non solo come «il desiderare troppo» ma anche come lo spendere inutilmente: per lui,
figliuoli miei, e’ si vuole essere massaio, e quanto da un mortale inimico guardarsi dalle superflue spese. [...] Ogni spesa non molto necessaria non veggo io possa venire se non da pazzia (p. 197, rr. 138-39; p. 199, rr. 180-81).
Giannozzo prosegue con un discorso in cui coloro che non sanno spendere, perché scialacquano i loro beni in cose inutili, sono definiti pròdigi.
Una lunga tradizione testuale che comincia con i Padri della Chiesa associa il comportamento economico immorale di colui che tesaurizza la ricchezza e quello di colui che spende in beni superflui, definendoli entrambi come forme di avarizia, dannose al benessere della comunità. Alberti pone dunque all’inizio del dialogo sulla masserizia e alla base delle sue considerazioni di carattere più strettamente economico i notissimi riferimenti biblici e patristici all’avarizia del ricco stolto e del figliol prodigo. Inoltre, per definire l’avarizia di colui che spende sconsideratamente, ricorre all’opposizione (di significato giuridico-teologico) tra necessità e superfluità, sviluppata in particolare dalla scuola francescana tra Due e Trecento, e da questa posta come regola fondamentale per gli scambi (G. Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, 2004). L’avaro non «sa usare le cose a’ bisogni» e non sa soddisfarsi di quello che ha («a me non pare buono colui il quale non vive contento del suo proprio», Libro terzo, p. 223, rr. 884-85).
Gli «spendenti» attirano una «brigatina» di «bugiardi» e di «vilissimi e disonesti uomini» (paragonati a «una scuola e fabrica de’ vizii»), che li portano alla rovina, alla povertà, all’«infamia», a «solitudine e deserto» (p. 200, rr. 210, 207-08, 211, 216, 226). Nel vocabolario quattrocentesco di Alberti, l’‘infamia’ che colpisce tali uomini rinvia alla categoria elaborata in ambito teologico-giuridico e nella prassi giudiziaria per definire gli infedeli, gli ebrei, i sospetti di eresia e, per estensione, i poveri e i malviventi (G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, 2007, in partic. pp. 205-25). Nella nozione albertiana di deserto è inoltre riconoscibile l’influenza del riferimento agostiniano, ripreso dalla tradizione esegetica medievale, alla ‘terra selvaggia’, allo spazio incolto e non civilizzato fuori dalla città, in cui vivono e si nascondono coloro che rifiutano o non conoscono i misteri della fede, e che per questo sono incapaci di vivere civilmente. L’estraneità alla città di questi uomini ‘selvaggi’ coincide con la loro esclusione dalla comunità dei fedeli. Lionardo conferma questa interpretazione, commentando poco oltre i sensati consigli gestionali di Giannozzo: «Oggi impariamo non solo quale sia la vera masseria, ma insieme l’ottimo civilissimo vivere, diventare virtuoso, adoperare la virtù» (p. 210, rr. 529-31).
In termini elaborati da secoli nella cultura cristiana occidentale, secondo un processo ormai ben noto e studiato, Alberti esprime, in poche pagine molto dense, una perfetta identificazione tra l’avaro, il ricco stolto o prodigo, il povero, l’uomo sciocco e senza ragione, l’essere vizioso e ignorante e per questo escluso dal cerchio elitario della fede, coincidente con l’ambito della fiducia civica ed economica. Colui che non sa spendere, che non sa «usare le cose» secondo precise regole, cioè colui che non conosce le regole del gioco economico, non è né un buon cristiano né un buon cittadino e risulta pericoloso per tutti («Pon mente che niuna cosa sarà atta a fare ruinare non solo una famiglia, ma uno comune, uno paese», Libro terzo, p. 199, rr. 190-92), perché il suo comportamento è contrario al bene della comunità.
La masserizia è invece presentata da Alberti come il contrario di questa «scuola e fabrica de’ vizii» («Sicché per essere brieve dico così: quanto la prodigalità è cosa mala, così è buona, utile e lodevole la masserizia. [...] Santa cosa la maserizia!», Libro terzo, pp. 200-01, rr. 230-35). Essa è quindi la via migliore per evitare la povertà e l’infamia. La sua pratica è legata alla capacità e alla necessità di «conservare l’anima a Dio» e «rendere l’anima virtuosa» (p. 208, r. 463; p. 209, r. 507). La masserizia consiste in «non serbar le cose ma usarle a’ bisogni» (Libro terzo, p. 205, rr. 356-57; p. 264, rr. 2105-08). È quindi l’esatto contrario dell’avarizia e di un comportamento economico fondato su di essa: il buon massaio sa spendere la ricchezza a seconda dei bisogni, della necessità. Questa frase sintetizza una concezione della buona gestione in termini molto simili a quelli che nelle regole monastiche, nei sermoni e nei trattati teologici definiscono le modalità dell’amministrazione sacra, in particolare quella monastica e conventuale, a partire dall’alto Medioevo (V. Toneatto, Les banquiers du Seigneur. Évêques et moines face à la richesse IV-debut IX siècles, 2012).
Formulata nei termini usati da Alberti, l’idea di «uso» rinvia specificamente all’usus francescano, un modo di impiegare i beni e di gestire la ricchezza fondato sulle nozioni di bisogno e di necessità (G. Todeschini, Ricchezza francescana, cit.) che presiede in pratica alla gestione dei conventi francescani (C. Lenoble, L’exercice de la pauvreté. Economie et religion chez les franciscains d’Avignon XIIIe-XVe siècles, 2012). Questa vicinanza tra amministrazione sacra e masserizia è confermata dalla terminologia usata da Alberti per definire l’azione e le qualità del buon amministratore. Per Giannozzo, e forse ancora di più per Adovardo alla fine del libro, il massaio o il padre di famiglia deve sempre essere e dimostrarsi «pieno di fede e di carità», «sollicito», «diligente», «operoso», deve agire con «diligenza», «cura» e «discrezione», «fuggire l’ozio» per l’«esercizio» e l’«industria» (nell’opera ci sono 163 citazioni per «diligenza» e «diligente», di c ui 63 solo nel terzo libro, 92 per «cura», 60 per «industria» e «industrioso», 33 per «sollecitudine» e «sollecito»). Come spiega Giannozzo alla moglie, «mai fu la casa per vostra bellezza ricca, ma sí spesso diventa per diligenza ricchissima» (p. 294, rr. 3016-17). Le qualità del massaio sono il miglior modo di arricchirsi, e questa è la ragione per la quale, alla fine del terzo libro e poi nel quarto, Adovardo (simbolo dell’equilibrio tra lettere e pratica) torna a insistere sulle stesse virtù.
Dalle omelie dei Padri della Chiesa e dalle prime regole monastiche del 5°-6° sec. fino agli scritti dei mercanti del Tre e Quattrocento, questa stessa terminologia, che ritroviamo anche nei sermoni e nei trattati di Pietro di Giovanni Olivi, di Giordano da Pisa, di Giovanni Duns Scoto e di Bernardino da Siena, così come in altri maestri delle scuole domenicana e francescana, ha acquisito un preciso significato etico e tecnico-amministrativo (G. Todeschini, I mercanti e il Tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, 2002, passim): sono le qualità del buon amministratore dei beni sacri, del monaco esperto incaricato della gestione del monastero come il cellerario, del banchiere cambiavalute che sa distinguere tra la vera e la falsa moneta, del mercante utile alla città (per la sua attività, che fa circolare il denaro) e pienamente affidabile (per la sua perizia tecnica). È significativo che nei Libri della famiglia queste qualità siano spesso combinate, come nella testualità ecclesiastica, in espressioni del tipo: «cura e sollecitudine», «diligenza e industria» e così via. Tali qualità o virtù del «vero e sollicito massaio» sono presenti anche nei libri di ricordanze e nei trattati di mercatura trecenteschi e quattrocenteschi (cfr., per es., quelli di Francesco Pegolotti, Dino Compagni, Giovanni Morelli, Benedetto Cotrugli). Questo linguaggio è diventato quindi, negli ultimi secoli del Medioevo, il modo più frequente, quasi stereotipato, di definire le virtù assieme amministrative, religiose, economiche e politiche dei mercanti e degli uomini d’affari che governano le città.
Riferendosi a queste qualità in modo quasi sistematico, Giannozzo spiega concretamente come si deve fare masserizia. Bisogna sempre «misurare», quindi valutare, trovare il «giusto mezzo» e l’equilibrio tra le risorse e le spese:
La masserizia sta in bene adoperare le cose. [...] Sempre mi piacque avere in casa tutte le cose comode e necessarie al bisogno della famiglia (p. 229, rr. 1085-88).
Questo atteggiamento deriva dalle qualità esposte prima ed è caratteristico dei principi amministrativi elaborati in ambito monastico e conventuale (V. Toneatto, Les banquiers du Seigneur, cit.; C. Lenoble, L’exercice de la pauvreté, cit.). L’attenzione alla misura e al «giusto mezzo» in questo contesto non è tanto legata, come è stato scritto, a un ideale ispirato dalla riscoperta dello stoicismo, quanto alla tradizione amministrativa ecclesiastica: il controllo e la valutazione dei propri bisogni è la condizione iniziale dell’acquisizione legittima della ricchezza. Le «cose comode e necessarie al bisogno» sono la casa e la terra, che devono essere scelte bene, «dove io potessi vivere sano senza disagio e con onore», «ariosa e spaziosa» e «in questa cercherei spendere manco quanto potessi danari» (p. 231, rr. 1142-44, 1150; p. 233, rr. 1210-11). La terra deve produrre «le buone cose al cibo e al vivere nostro» p. 233, rr. 1199-1200. Il massaio non deve comprare in troppa quantità e vendere quello che non può essere conservato («E quello che io non potessi bene serbare se non con grande sinistro e troppo ingombro della casa, io quello venderei»; p. 237, rr. 1329-31), però «dare’mi piacere e modo di pascere la famiglia copioso e bene» e «che mai alla famiglia mia volsi minima cosa alcuna mancasse» (p. 229, rr. 1084-87).
Non si tratta quindi di privarsi e di sottoporsi all’ascesi. Per Alberti come per i teologi della fine del Medioevo, tutto può essere comprato e acquisito, se viene utilizzato nel modo giusto e senza essere guastato: «non faccendo masserizia di quello che usandolo diventa nostro, sarebbe negligenza ed errore» (p. 218, rr. 755-57). Non è il fatto di comprare e utilizzare le cose a essere erroneo ma il fatto di non gestirle nel modo giusto: l’amministrazione serve a rendere la ricchezza legittima e utile. Ciò che è stato interpretato come una riserva prudente di Alberti verso la ricchezza deve piuttosto essere inteso come la definizione dei modi più opportuni e adeguati per acquisirla e usarla. Lo dice sin dall’inizio del terzo libro Giannozzo: il denaro è molto utile, anzi indispensabile, per comprare quello che serve alla felicità della famiglia.
Si trovano idee simili negli altri umanisti (Gilli 1998) e, applicate a livello della città e della comunità dei fedeli, nei trattati di Duns Scoto e nei sermoni di Bernardino da Siena. Per il catalano Francesc Eiximenis, alla fine del Trecento, senza ricchezza la civiltà e l’urbanità sarebbero perse: egli difende così l’idea che il ricco non merita di essere condannato alla dannazione. Secondo Bernardino da Siena, il denaro è come il sangue della città. In termini simili a quelli usati dai mercanti del Trecento e del Quattrocento e dai maestri francescani, si trova quindi espressa da Alberti l’idea che l’amministrazione della ricchezza è una scuola o un esercizio per imparare, sviluppare e mettere in pratica le virtù e le qualità del buon cristiano e del buon cittadino.
Un altro principio legato a quello dell’uso giusto della ricchezza è precisato nell’affermazione di Giannozzo: «a ciascuno dare quello sia necessario e comodo». Appare fondamentale la capacità del massaio, legata al suo discernimento e alla sua diligenza, di saper ‘distribuire’ a ciascuno secondo il bisogno.
Le nozioni di bisogno e di necessità erano state definite in modo analogo, in termini di relatività, nelle regole monastiche altomedievali, secondo le quali l’abate e il cellerario devono, per es., saper adeguare la qualità e la quantità del vitto a seconda dei bisogni individuali di ogni monaco, che si tratti di un giovane sottoposto allo sforzo di un lavoro manuale, di un anziano, di un malato, o a seconda delle caratteristiche atmosferiche locali (V. Toneatto, Les banquiers du Seigneur, cit.).
Questa concezione era stata espressa nel Duecento da Bonaventura da Bagnoregio e applicata alla società intera: secondo Bonaventura il necessario e il superfluo variano da persona a persona, a seconda della condizione, perché il povero, l’infermo, il nobile non hanno gli stessi bisogni, e quello che sarà superfluo per la gente comune non lo sarà per un malato o per un signore. In questo senso, dunque, quando Giannozzo parla delle cose necessarie al «vivere nostro», l’espressione potrebbe essere intesa come relativa al modo di vivere dei mercanti, degli uomini d’affari e dei proprietari di aziende agricole.
Le poche frasi ed espressioni qui citate bastano per suggerire che la necessità e l’utilità del denaro e della ricchezza, pur essendo legate alla cura della casa e al rifornimento dei vestiti e del cibo, non hanno come obiettivo finale la sola soddisfazione dei bisogni vitali. La necessità imperativa è quella dell’onore e della fama, ai quali sono subordinati l’uso della ricchezza e la dimostrazione pubblica del possesso delle qualità e delle virtù utili all’essere un buon massaio (176 citazioni per «onore», 106 per «fama», 48 per «gloria»). Bisogna sempre «dimostrarsi», «parere», «essere onorato» dagli altri. L’attenzione alla fama interviene, per es., anche nella scelta dei vestiti («le veste onorano te»; p. 249, r. 1647) perché in caso di negligenza nel vestire la famiglia, «sare’ne spregiato, quelli di fuori me ne biasimerebbono, sare’ne riputato avaro» (p. 249, rr. 1637-40).
Come tutti gli autori laici ed ecclesiastici della fine del Medioevo e della prima età moderna (G. Todeschini, Visibilmente crudeli, cit., in partic. pp. 241-60; Todeschini 2011, p. 220), Alberti è ossessionato dalla fama, dall’onore e dalla reputazione. I modi di procurarsi, mantenere e usare le ricchezze devono obbedire a regole e principi riconosciuti da tutti come onorevoli e virtuosi, ma la ricchezza, una volta legittimata dalla qualità di chi la gestisce, deve essere utilizzata e spesa a beneficio di amici ricchi, potenti e protettori (si vedano a questo proposito le molte volte in cui Giannozzo allude a regali e cene offerte agli amici, i dibattiti del quarto libro sul ruolo della ricchezza nei rapporti con i potenti e l’insistenza di Adovardo sul ruolo delle qualità di diligenza, cura, sollecitudine e industria). La ricchezza dev’essere spesa in occasione di matrimoni e battesimi (bisogna scegliere padrini ricchi e potenti); la città e il quartiere in cui vivere dovranno essere scelti a seconda della ricchezza dei vicini di casa, e si potrà prestare denaro solo a cittadini di buona fama («se i cittadini saranno onesti e ricchi, non aranno bisogno, né voglia di rapire l’altrui, anzi aiuteranno gl’industriosi e onoreranno i buoni»; p. 232, rr. 1171-73).
In modo simile a quello che si legge nei testi dello stesso periodo (libri di ricordanze, trattati di mercatura o teologici, sermoni), la ricchezza vale, quindi, solo perché è inserita in una rete di relazioni e di scambi materiali e sociali tra gente ricca, ed è pubblicamente riconosciuta come onorevole. Le qualità del ricco gli consentono in effetti di saper distinguere tra gli uomini quelli che sono degni di fiducia per «amare i buoni, odiare i viziosi, sdegnarsi contro a’ maligni» (p. 209, rr. 501-04). All’interno di questa comunità sociale, alla quale appartengono quelli che conoscono le regole del gioco economico e che sono riconosciuti capaci di parteciparvi, la ricchezza sembra diventare degna e produrre onore e buona reputazione, in quanto frutto e quindi segno esteriore delle qualità individuali di chi la possiede, qualità che ne consentono l’acquisizione, il mantenimento e l’incremento.
Il legame tra ricchezza, fama, capacità amministrativa, qualità e comportamento individuali appare chiaramente quando, a proposito della partecipazione al governo della città e agli affari pubblici, Giannozzo consiglia che «per reggere altri mai lasciate di reggere voi stessi» e «per guidare le cose publiche non lasciate però le vostre private» (p. 227, rr. 1021-22). Alberti illustra qui l’idea, derivante dal discorso sull’avarizia e l’infedeltà dell’avaro o del prodigo, che chi governa la città dev’essere maestro di se stesso e dei suoi affari privati. Questo tipo di concezione, che lega la buona amministrazione pubblica a quella privata, personale e morale dell’amministratore, si è sviluppato tra 12° e 15° sec., particolarmente nelle accuse contro i crimini imputati ai vescovi (J. Théry, ‘Atrocitas/enormitas’. Per una storia della categoria di ‘crimine enorme’ nel basso Medioevo (XII-XV secolo), «Quaderni storici», 2009, 2, pp. 329-76).
Da questi luoghi comuni della cultura medievale, che da una parte lega la mancanza di fede cristiana ai comportamenti devianti (in generale, ma soprattutto rispetto alle cose materiali e all’economia) e dall’altra associa la ricchezza a precise qualità individuali e sociali, derivano la diffidenza e l’esplicito disprezzo di Alberti per i poveri e per i lavoratori.
Questo giudizio è espresso tramite varie considerazioni stereotipate diffuse nell’opera, anch’esse caratteristiche degli ultimi secoli del Medioevo e frutto di una lunga maturazione lessicale (G. Todeschini, Visibilmente crudeli, cit., passim). Alberti fa sfilare un drappello di malviventi, «trombetti, sonatori, danzatori, buffoni, ruffiani», «villani», «contadini malvagi, «donnicciuole vedovette», «lavoratori negligenti», cittadini di «simili costumi villani e dispettosi» che, per avarizia, ignoranza, «ignavia» e «malizia odiosa», rubano, mentono, non sanno prendersi cura degli affari del padrone e lasciano andare a male i loro propri (molto significativi sono l’esempio del contadino che non riesce a rimborsare il suo credito e chiede sempre più aiuto al padrone, e la favola delle vedove che per avarizia non vendono ma neppure mangiano la frutta raccolta e la tengono da parte fino a quando non marcisce). Giannozzo insegna che
Cosa da nolla credere, quanto in questi aratori cresciuti fra le zolle sia malvagità. Ogni loro studio sempre sta per ingannarti; [...] sempre cercano in qualunque via avere e ottenere del tuo. [...] Molto si lagnerà e dirassi povero. Sempre gli mancherà qualche cosa. (pp. 240-41, rr. 1414-16, 1417-18, 1426-27).
Meglio quindi «non avere a trafficare con troppa famiglia di villani» (p. 240, rr. 1413-14) o «conversare con troppa moltitudine di lavoratori» e imparare a proteggersi da «tali ingegni villaneschi».
Il disprezzo e la diffidenza non si limitano ai poveri, ai contadini e ai marginali, ma colpiscono anche i piccoli commercianti, gli artigiani e gli impiegati delle compagnie commerciali, insomma, tutto il mondo dei lavoratori e della gente comune. A questa gente «malvagia» sono associati da Alberti i debitori (abbiamo già notato la sua diffidenza per i contadini incapaci di rimborsare i prestiti a loro concessi), caratterizzati, sulla stessa base ideologica, da «perfidia e fallacie» (p. 246, r. 1555). Anche loro, si capisce, non sanno «usare le cose a’ bisogni» e non vivono contenti del proprio. Anche loro sono in preda della «perfidia», cioè senza fede, e quindi inaffidabili. Il solo fatto di essere indebitato sembra dunque costituire per Alberti una macchia, perché rappresenta sia un’evidente mancanza di qualità e virtù cristiane e civiche, sia un’incapacità di comportarsi nel modo giusto nel campo economico e sociale.
Il nesso strettissimo tra qualità, virtù, amministrazione virtuosa, conoscenza e intelligenza delle regole del gioco economico, ricchezza, onore, fama, dignità, affidabilità, si trova riassunto nelle parole di Lionardo a proposito dell’educazione dei figli:
Tutto quello el qual’e’ tuoi figliuoli non sapranno maneggiare e governare, tutto quello sarà loro superfluo e incommodo. Manco nuocerà ai’ figliuoli procacciarsi al bisogno, che insieme col superfluo e isconcio incarco perdere quella parte la qual era utile e commoda, come sanza dubbio aviene a chi non sa reggere e usufruttare e’ beni della fortuna. Però si vuole insegnare a’ tuoi virtù, farli imparare a reggere sé in prima ed emendare gli apetiti e le volontà sue, instituirli che sappino acquistare lodo, grazia e favore, molto più che ricchezze, ammaestrarli che sieno doti come nell’altre cose civili, così a conservarsi onore e benivolenza. Già però chi non sarà ignorante in questo modo ad essornarsi di fama e dignità, per certo sarà saputo e dotto a conquistar ogni altra minor cosa (p. 66, rr. 1494-1504).
La ricchezza e il profitto possono essere ottenuti e meritati solo da quelli che sono iniziati alle regole del funzionamento sociale e le applicano. Tramite i suoi consigli e le sue considerazioni economiche, Alberti offre una visione della posizione del cittadino ideale all’interno della città ideale.
In questo senso, i Libri della famiglia non sono isolati rispetto al resto dell’opera albertiana, ma devono essere letti in parallelo alla riflessione morale generale dell’autore, e in particolare a quella sull’architettura e sulla città ideale che si trova nel De re aedificatoria ma anche, per es., negli Ex ludis rerum mathematicarum, in gran parte dedicati ai principi di misura e di calcolo per la realizzazione di una città idealmente proporzionata e adeguata al buon svolgimento delle attività umane (sulla portata sociale del De re aedificatoria, si veda Choay in Alberti, humaniste, architecte 2006, pp. 93-110).
Benché ideale, la visione di Alberti non è per niente idealista o utopista: le sue considerazioni socioeconomiche e politiche sono invece molto concrete. In modo simile a quello, più tradizionale, tipico del pensiero ecclesiastico della fine del Medioevo, l’economia virtuosa di Alberti si sviluppa a partire da una complessa riflessione sull’avarizia, sull’uso della ricchezza e sull’‘infamia’ di coloro che non capiscono le regole del gioco economico e del funzionamento della società dei fedeli/affidabili. Essa è fondata su principi, termini e concezioni elaborati in ambito ecclesiastico durante il Medioevo, riguardanti le qualità, la fama e la ricchezza del buon amministratore. Non è pensata quindi in un quadro idealistico generale ma in quello di una comunità di iniziati, all’interno della quale si sviluppano gli scambi materiali e sociali e dalla quale sono esclusi i poveri, i piccoli lavoratori, la gente comune che per la sua povertà o mediocrità dà prova di non essere degna di fiducia e di onore.
Se i Libri della famiglia non sono, ovviamente, il luogo di una riflessione teologica, bisogna però sottolineare quanto le concezioni e il vocabolario (prestati innanzitutto a Giannozzo, ma anche ad Adovardo) siano carichi di un significato teologico-governativo che alla fine del Quattrocento è frutto di lunghe elaborazioni lessicali realizzate dai teologi ed è condiviso anche dai ceti mercantili cittadini.
I libri della famiglia, a cura di R. Romano, A. Tenenti, nuova ed. a cura di F. Furlan, Torino 1994.
Per le edizioni di altre opere rinviamo a P.-H. Michel, La pensée de L.B. Alberti (1404-1472). Un idéal humain au 15e siècle, Paris 1930, pp. 11-39, e a G. Grayson, G.C. Argan, Alberti, Leon Battista, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1° vol., Roma 1960, pp. 708-09.
H. Baron, Franciscan poverty and civic wealth as factors in the rise of humanistic thought, «Speculum», 1938, 1, pp. 1-37.
G. Grayson, G.C. Argan, Alberti, Leon Battista, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1° vol., Roma 1960, ad vocem.
G. Ponte, Etica ed economia nel terzo libro “Della famiglia” di Leon Battista Alberti, in Renaissance. Studies in honor of Hans Baron, ed. A. Milho, J.A. Tedeschi, Dekalb (Ill.) 1971, pp. 283-309.
R. Romano, “I libri della famiglia” di L. B. Alberti, in Id., Tra due crisi. L’Italia del Rinascimento, Torino 1971, pp. 137-68.
R. Fubini, A.M. Gallorini, L’autobiografia di Leon Battista Alberti. Studio e edizione, «Rinascimento», s. II, 1972, pp. 21-78.
P. Gilli, La place de l’argent dans la pensée humaniste italienne au XVe siècle, in L’argent au Moyen âge, 28e Congrès de la SHMES (Société des Historiens Médiévistes de l’Einsegnement Supérieur public), Clermont-Ferrand 1997, Paris 1998, pp. 309-26.
F. Furlan, Studia albertiana. Lectures et lecteurs de L.B. Alberti, Torino-Paris 2003.
Alberti, humaniste, architecte, éd. F. Choay, M. Paoli, Paris 2006 (in partic. F. Choay, Le “De re aedificatoria” et l’institutionnalisation de la société, pp. 93-110).
G. Todeschini, Theological roots of the medieval/modern merchants’ self-representation, in The self-perception of early modern ‘capitalists’, ed. M.C. Jacob, C. Secretan, New York 2008, pp. 17-46.
Leon Battista Alberti. Gli Este e l’Alberti. Tempo e misura, Actes du Congrès international, Ferrara 2004, a cura di F. Furlan, G. Venturi, 2 voll., Pisa-Roma 2010.
G. Todeschini, Come Giuda. La gente qualunque e i giochi dell’economia alle origini dell’età moderna, Bologna 2011.