BOTTA, Leonardo
Di antica e nobile famiglia cremonese, nacque verso il 1431 da Giovanni, che si era segnalato al servizio degli Sforza. Studiò con l'umanista Francesco Filelfo dal quale apprese latino e greco, e seguendo la tradizione familiare entrò al servizio sforzesco: in un documento del 4 genn. 1467 figura come segretario di Alessandro Sforza signore di Pesaro.
Restò al seguito dello Sforza, con qualche interruzione, almeno fino al 1471, ma dell'attività svolta in questi anni non si hanno notizie. Certo è che nel 1470 era entrato già in rapporti con Galeazzo Maria Sforza duca di Milano, al servizio del quale svolse una missione a Venezia. Nell'agosto di quell'anno trattava infatti con la Signoria in qualità di ambasciatore ducale e insieme con l'altro ambasciatore sforzesco G. Colli la riconferma della lega italica del 1455, alla quale le potenze italiane e in particolare modo Napoli, Venezia e Roma si videro spinte dalla caduta di Negroponte in mano ai Turchi nel luglio del 1470. Le trattative si conclusero felicemente e il rinnovo della lega fu promulgato solennemente a Roma da papa Paolo II il 22 dic. 1470. Il B. riappare al servizio ducale nel 1473 e di nuovo come ambasciatore a Venezia. L'istruzione in data dell'11 agosto di quell'anno gli raccomandava di far presente l'intenzione sforzesca di riprendere "la bona et vera amicitia" di una volta. Una seconda istruzione riservata del 12 ag. 1473 precisava le direttive della politica ducale che mirava a staccare Venezia da Napoli e Roma.
Il B. differì la partenza di alcuni mesi e arrivò a Venezia solo il 5 nov. 1473. Il giorno dopo chiese udienza in Signoria e manifestò tutti i buoni propositi del duca. Ricevette la migliore accoglienza e l'assicurazione del doge che le intenzioni di Galeazzo Maria venivano accolte "in amore et benivolentia con ogni sincerità d'animo". Il suo lavoro, iniziato sotto i migliori auspici, si protrasse per tutto un anno e si concluse con un formale trattato di alleanza tra Venezia, Milano e Firenze. A questo brillante risultato il B. arrivò con un paziente e tenace lavorio diplomatico, necessario per vincere la diffidenza veneziana verso la politica sforzesca molto più forte di quanto non lasciassero intendere le dichiarazioni ufficiali di amicizia e buon vicinato.
La prima occasione di intervento gli era stata offerta dalla questione di Cipro sulla quale, dopo la morte del re Giacomo II luglio 1473), s'indirizzarono le mire veneziane e quelle napoletane. Incunearsi nel contrasto insorto fra le due potenze amiche fu per il B. assai facile. Egli promise infatti tempestivamente l'appoggio milanese, offrendo "navi galee et cose asai". L'effetto di tale mossa fu quello sperato. Una nuova offerta di aiuto (questa volta si trattava della promessa di un prestito di cinquantamila ducati) fu avanzata nel luglio, con l'occasione dell'assedio posto dai Turchi a Scutari, e se pure non fu accettata per via della "condictione della cauzione con la quale l'era facta", lasciò capire a chiare lettere quanto fosse interessato il duca di Milano all'amicizia veneziana. Su questa base fu possibile al B. avviare trattative concrete per la formazione di una nuova lega tra Milano, Venezia e Firenze. Le resistenze della Signoria si fecero sempre più deboli e nell'ottobre si poté passare alla definizione di tutti i termini dell'alleanza. Il 21 dello stesso mese il B. si riunì in seduta segreta con l'ambasciatore fiorentino Tommaso Soderini e tre gentiluomini veneziani all'uopo delegati. Il 2 nov. 1474 le tre potenze si unirono in "mutua unione et alleanza per 25 anni". Accolta dal duca con grandissimo compiacimento, l'alleanza fu resa di pubblica ragione il 20 novembre a Venezia nel corso di una solenne cerimonia. La conclusione del trattato tanto pazientemente perseguita rappresentò per il B. un grande successo personale che gli apriva le migliori prospettive di carriera diplomatica al servizio sforzesco. E riconoscimento di Galeazzo Maria non tardò a giungere sotto forma di un cospicuo aumento di stipendio e della nomina a membro del Consiglio segreto del ducato. Anche la Signoria di Venezia volle fargli giungere un segno del suo gradimento e gli conferì la dignità di cavaliere.
L'alleanza con Venezia non conservò a lungo quella precisa funzione antinapoletana che era nelle intenzioni di Galeazzo Maria. I comuni interessi antiturchi tendevano fatalmente a riavvicinare le due potenze mediterranee e a raffreddare inesorabilmente i rapporti di Venezia con Milano. Le linee della politica sforzesca furono accompagnate inoltre di lì a poco dalla morte di Galeazzo Maria, assassinato il 26 dic. 1476. Bona di Savoia e il piccolo Gian Galeazzo Maria, che raccolsero la successione e assunsero con l'assistenza di Cicco Simonetta il governo del ducato, conservarono al B. il posto di ambasciatore a Venezia. I servigi dell'esperto diplomatico erano tanto più necessari in una situazione politica assai delicata che non avrebbe mancato di riacutizzare vecchie ambizioni veneziane mai del tutto sopite. Il B. informava quotidianamente i duchi degli umori e atteggiamenti che si facevano strada negli ambienti politici veneziani: il desiderio di una dissoluzione del ducato era forte, ma non tanto da provocare un intervento armato che avrebbe potuto favorire le ambizioni milanesi di re Ferdinando. Le mene napoletane sempre più scoperte permisero al B. di tornare a giocare la vecchia carta della lega a tre con Firenze e Venezia. La neutralizzazione di ogni mira veneziana e napoletana sul ducato fu il massimo risultato che in una situazione di crisi del governo sforzesco si potesse raggiungere.
La paralisi dell'iniziativa politica milanese si protrasse per tutto il corso della reggenza di Bona di Savoia, che vide il suo potere insidiato dai fratelli del defunto marito, dalla rivolta di Genova e da un pericolosissimo attacco degli Svizzeri. Aggravò ancor più la già difficile situazione del ducato la guerra seguita alla congiura dei Pazzi, che impose a Venezia e Milano di soccorrere l'alleato Lorenzo de' Medici dalla minaccia di napoletani e pontifici. Il colpo di scena dell'8 sett. 1479 segnò, con il ritorno a Milano del duca di Bari Ludovico il Moro, la fine della crisi politica milanese e la ripresa della iniziativa sforzesca con il peso tradizionale sullo scacchiere italiano.
Rispetto al Moro il B. osservò lo stesso atteggiamento mantenuto verso i passati responsabili del governo ducale. Restò così ambasciatore a Venezia, garantendo la continuità diplomatica in un posto di tanto vitale importanza per gli interessi del ducato. Già l'11 sett. 1479 egli si affrettò ad informare il Moro della reazione veneziana ai mutamenti intervenuti nella direzione politica del ducato. La preoccupazione maggiore riguardava l'ipoteca napoletana che l'aiuto fornito da Ferdinando al Moro avrebbe fatto pesare su Milano.
Ai cambiamenti sopraggiunti alla vetta della politica milanese si aggiunse di lì a poco il viaggio di Lorenzo de' Medici a Napoli, che sconvolse il quadro della situazione politica italiana e mise Venezia, l'alleata di Firenze e Milano, davanti al fatto compiuto di un rovesciamento delle alleanze. Il primo provvedimento veneziano per fronteggiare il viaggio di Lorenzo fu il richiamo delle truppe dalla Toscana e il loro trasferimento in Romagna. Questi avvenimenti dettero il via a un serrato gioco diplomatico tra Venezia e Milano, accusata di connivenza con Lorenzo e di tramare un rovesciamento di alleanze ai danni della Serenissima, la quale a sua volta non mancò di avviare trattative con il nemico di ieri, Roma.
Il gioco veneziano non si esauriva, tuttavia, nella sola direzione della Curia: ai primi di febbraio del 1480 la Signoria fece sapere al B. che desiderava procedere al rinnovo formale dell'alleanza con Firenze e Milano. La mossa era certamente abile e mirava a mettere in difficoltà i due infidi alleati nelle loro trattative con Napoli alle spalle dell'alleato veneziano. In seconda istanza la Signoria specificò che, ove Firenze non avesse aderito, si poteva procedere al rinnovamento della lega anche solo tra Venezia e Milano. La proposta era quanto mai insidiosa, perché conteneva un'accusa esplicita al Moro di fare il doppio gioco tra Venezia e Napoli. La risposta del Moro fu immediata: ancora non risultava che Lorenzo avesse concluso a Napoli accordi con re Ferdinando a danno degli alleati milanesi e veneziani. Conveniva quindi aspettare la conclusione dei negoziati condotti a Napoli dal Magnifico, prima di prendere una decisione sulla riconferma della lega. La proposta venne accolta dai Veneziani che non trascurarono però di portare avanti il negoziato con il papa per un'alleanza a due da contrapporre agli eventuali accordi napoletani di Lorenzo. Le trattative napoletane andavano però ancora per le lunghe e l'irritazione veneziana aumentava sempre più.
Finalmente il 13 marzo 1480 fu firmata a Napoli la pace tra Firenze, Milano e Napoli con un protocollo aggiuntivo che istituiva una lega fra le tre potenze, teoricamente aperta anche a Roma e Venezia ma in effetti diretta contro queste due ultime. La notizia della conclusione del trattato fu accolta a Venezia con grande indignazione. Inutilmente il B. cercò di giustificare l'atteggiamento milanese dichiarando che "chi considerava bene le condictioni di Stati de Italia potrà indicare che la liga predicta sia vero condimento della dicta pace, et succesive del riposo de Italia". I Veneziani, che pure ostentavano indifferenza se non addirittura cordialità verso il B., si ritennero giocati, "decepti, inganati et derelicti" e accelerarono i tempi delle trattative con Roma. Il 16 apr. 1480 fu concluso nel massimo segreto un trattato di alleanza tra Venezia e Roma che dava mano libera a Sisto IV sulla Romagna e su Pesaro, dove governava Costanzo Sforza, congiunto dei duchi di Milano. L'iniziativa della guerra doveva spettare ai pontifici e la vittima designata era il signore di Pesaro. Il colpo fu avvertito a Milano e la reazione fu immediata: il 1º maggio 1480 iniziarono i sondaggi per una lega a tre con Firenze e Napoli in funzione antiromana. Nello stesso mese il B. si presentò al Senato per avvertire che, ove Sisto IV avesse attaccato Pesaro, Milano avrebbe reagito con la massima energia, sollecitando l'appoggio dei suoi alleati. Il 21 maggio il B. si presentò alla Signoria e le notificò le dichiarazioni ducali, ottenendo una generica professione di pace. In realtà, come venne a sapere attraverso conversazioni private con esponenti del patriziato veneziano, il fermo atteggiamento di Ludovico il Moro ottenne l'effetto sperato e introdusse il dubbio sull'opportunità di appoggiare Sisto IV con la prospettiva di magri vantaggi e grossi rischi. Alle pressioni sempre più insistenti di Roma, Venezia cominciò a tentennare, annacquando progressivamente le proprie offerte di aiuto. Il B. in questo gioco ebbe un ruolo determinante: attento a cogliere le oscillazioni dei dirigenti veneziani in rapporto alle smanie bellicose di Sisto IV, egli avvertì abbastanza presto che "ad molti de costoro non piace questa avidità del pontefice", e non mancò di esercitare tutta la possibile pressione per provocare un raffreddamento nei rapporti con Roma. Il gioco riuscì perfettamente, al punto che la Signoria decise nel corso del mese di maggio di mandare a Roma un inviato speciale con il compito di distogliere il papa dalla pericolosa impresa di Pesaro. Il 27 maggio il B. riferì a Milano di un colloquio riservato con un patrizio fra i più impegnati nella direzione della politica veneziana, dal quale aveva saputo in via ufficiosa quanto poco favorevoli alla politica di Sisto IV fossero gli umori veneziani. Nel giugno il B. riuscì a strappare alla Signoria una formale dichiarazione di neutralità, della quale riferì a Milano con comprensibile compiacimento: l'isolamento di Sisto IV era ormai un fatto compiuto.
Il 22 giugno il B. poté scrivere a Milano che Sisto IV aveva promesso formalmente ai Veneziani di voler "desistere dalla impresa de Pesaro". Il sagace lavorio diplomatico del B. otteneva così il più pieno successo.
L'azione svolta dal B. a Venezia, che, in quanto alleata del papa, figurava come una potenza avversaria, suscitò i sospetti di Firenze e Napoli che cominciarono a temere un nuovo rovesciamento di alleanze ai loro danni e fecero sapere al Moro che non vedevano la ragione di mantenere ancora un ambasciatore presso una potenza nemica. Il 3 giugno il Moro ordinò così al B. di lasciare Venezia con la scusa di dovere accudire a suoi affari privati in patria. In pari tempo l'ambasciatore veneziano a Milano Francesco Diedo fu congedato. Il B. ebbe appena il tempo di concludere l'operazione diplomatica che portò al fallimento dei progetti pontifici contro Costanzo Sforza: il 27 giugno 1480 egli fu costretto a lasciare Venezia, dietro una precisa intimazione della Signoria che reagiva prontamente al congedo del proprio ambasciatore a Milano.
Rientrato a Milano dopo lunghi anni di soggiorno veneziano, il B. contava di potere attendere veramente ai suoi affari privati in Cremona, ma fu vana speranza. La sua abilità di esperto negoziatore diplomatico era troppo nota al Moro perché lo lasciasse in disparte. Alcuni mesi dopo il suo rientro fu incaricato infatti di una missione diplomatica a Roma, dove Sisto IV in conseguenza dello sbarco turco a Otranto (28 luglio 1480) aveva convocato una dieta per organizzare una lega in soccorso del re di Napoli. Il 5 nov. 1480 il B. fu nominato rappresentante degli Sforza a Roma insieme con il vescovo di Como Branda da Castiglione e il protonotario Trivulzio. La dieta fu aperta il 24 novembre, ma il negoziato per la conclusione della lega si trascinò per mesi senza arrivare a una conclusione. Ancora nell'aprile del 1481 il B. si tratteneva a Roma con i suoi colleghi milanesi, finché le trattative non approdarono a un fallimento ufficiale.
Dopo questa data del B. non si hanno più notizie fino al 1499, quando riappare, in veste di cancelliere ducale, con un nuovo incarico diplomatico presso la Repubblica di Venezia.
Dal 1496 Venezia era in guerra contro Firenze per sostenere l'alleata Pisa, senza riuscire tuttavia a modificare la situazione, rimasta stazionaria. Al Moro si offriva così la possibilità di intervenire per caldeggiare una soluzione diplomatica e rimettere la questione a un arbitrato del duca di Ferrara Ercole d'Este. La proposta fu accolta dai belligeranti e dall'arbitro, che si dichiarò disposto a recarsi a Venezia per incontrarvi i rappresentanti delle potenze in guerra e pronunciare il suo lodo arbitrale. Nominato oratore ducale il 24 febbr. 1499, il B. raggiunse Ferrara, dove si uni agli oratori fiorentini per seguire il duca a Venezia. Doveva favorire la rapida soluzione del conflitto, inducendo le potenze belligeranti ad accettare l'arbitrato del duca di Ferrara. La missione fu conclusa felicemente: il 6 aprile Ercole d'Este pronunciò la sua sentenza arbitrale che le parti si erano impegnate preventivamente ad accettare, l'8 dello stesso mese il B. poté congedarsi dal Senato della Repubblica e rientrare a Milano.
Fu l'ultima missione svolta al servizio sforzesco: l'occupazione francese del ducato sanzionò per lui, ormai in tarda età. la conclusione di una lunga e onorata carriera diplomatica. Ritiratosi a Cremona, vi godette, come era logico, di grande prestigio e considerazione. Quando i Veneziani, alleati di Luigi XII, irruppero nel Cremonese, il B. fu mandato dai suoi concittadini alla testa di una delegazione al campo veneziano per annunciare la decisione di Cremona di passare sotto la signoria di Venezia. L'8 sett. 1499 parlamentò con i Veneziani e chiese di potere presentare dei capitoli a nome della città che il giorno successivo furono accolti. Il 10 settembre le truppe veneziane fecero il loro solenne ingresso in Cremona ricevuti dal vescovo e dai cittadini più eminenti con il B. alla testa. La dedizione della città negoziata dal B. non mancò di suscitare un ampio risentimento popolare contro il dominio veneziano che rischiava di degenerare in aperta rivolta. A evitare tumulti il B. si presentò l'11 settembre dal provveditore veneziano e gli consigliò di abolire tempestivamente il "dazio dei minuti" che rendeva solo duemila ducati e la cui soppressione avrebbe riportato certamente la calma in città. Il provvedimento fu adottato dal provveditore Morosini il 15 settembre, ma questo ritardo di pochi giorni avrebbe potuto costargli caro: si sa di contatti cremonesi con Francesco Gonzaga, alleato di Ludovico il Moro, intesi a cacciare i Veneziani, ai quali invece il B. mantenne tutto il suo appoggio, al punto da rinchiudersi nel palazzo del provveditore per proteggerlo con la sua presenza da eventuali attentati. Consolidatosi il dominio della Serenissima su Cremona, nel novembre dello stesso 1499 il B. si recò a Venezia per conto della sua città, con il compito di chiedere il risarcimento dei danni provocati in territorio cremonese dalle truppe veneziane di occupazione. La lunga dimora a Venezia come ambasciatore sforzesco, le amicizie e le relazioni che vi aveva contratto lo rendevano particolarmente adatto a tenere i rapporti con la Dominante e spiegano i frequenti viaggi, in così tarda età, a Venezia. Vi fu ancora nel febbraio e nell'aprile del 1503, nel novembre del 1505. Nel corso di quest'ultima missione sollecitò l'invio di un avogadore a Cremona per sindacare l'attività del podestà Bortolo Minio accusato di "stranij portamenti", "di rebuffi fatti a' primarij citadini, et manzarie fate per li soi oficiali".
Il B. riappare nelle fonti nel giugno del 1512, quando, ritornata a divampare la guerra, il cardinale Matteo Schiner con gli Svizzeri si accampò sotto Cremona. Anche in questa occasione il B. fu mandato a negoziare la resa della città alla testa di una delegazione di notabili cremonesi. La dedizione della città fu pattuita sulla base della somma di trentamila ducati che la garantiva dal saccheggio. All'ingresso dei collegati a Cremona il B. espresse la sua gioia di "esser ritornati soto San Marco".
Allievo di Francesco Filelfo, il B. ebbe una buona cultura umanistica e letteraria che continuò a coltivare per tutto il corso della sua lunga vita. Fu appassionato bibliofilo e collezionista di epigrafi ed epigrammi che raccolse in una ricca silloge, trascrivendo egli stesso e avvalendosi dell'aiuto di amici compiacenti. Nella Biblioteca Ambrosiana di Milano si conserva un codice (codice Ambrosiano Trotti 373) contenente la sua raccolta di epigrammi ed epigrafi insieme con un gruppo di lettere scambiate col Filelfo, con i segretari sforzeschi Vincenzo Amidano e Fabrizio Efilteo, con l'umanista Pandolfo Collenuccio del quale godé a lungo l'amicizia. Una parte del codice è di mano del Collenuccio. Esso contiene anche un rarissimo esemplare della descrizione del Peloponneso di Ciriaco d'Ancona. L'umanista veneziano Francesco Negro gli dedicò la sua Aruntina gramatica, una grammatica latina, stampata a Venezia il 21 marzo 1480.
Al B. si deve una scarna cronaca in volgare che traccia la genealogia degli Sforza e racconta sommariamente le loro imprese dal 1369 al 1455 (Una inedita cronachetta degli Sforza, in Arch. stor. per le prov. napol., XIX [1894], pp. 718-739).
Morì più che ottantenne nel 1513.
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