Leonardo Da Vinci - «Se la pittura è scienzia»
Leonardo nacque probabilmente a Vinci (anche se non nell’edificio rurale che la tradizione addita come luogo natale) il 15 aprile 1452, «a ore tre di notte», come annota il nonno Antonio da Vinci nel libro di memorie di famiglia1. Il padre è ser Piero da Vinci, giovane notaio lanciato in una prestigiosa carriera a Firenze, la madre una non meglio precisata Caterina, forse una fantesca del luogo, che secondo alcuni documenti (però da prendere con qualche elasticità) avrebbe avuto circa 25 anni. Ser Piero contrarrà di lì a poco un buon matrimonio borghese con Albiera di Giovanna Amadori, mentre Caterina viene fatta sposare, sicuramente grazie a una dote fornita dalla famiglia da Vinci, al contadino locale Accattabriga di Piero del Vacca.
Leonardo trascorre l’infanzia a Vinci, nella casa della famiglia paterna, come ricaviamo dalla portata al catasto (una sorta di dichiarazione dei redditi a fini fiscali) del 1457, in cui ancora, benché non legittimo, risulta figlio unico di ser Piero. Nel 1464 muore Albiera, partorendo morto il primogenito, seguita a breve l’anno successivo dal nonno di Leonardo, Antonio da Vinci. Con ogni probabilità ser Piero (che sempre nel 1465 si risposerà con Francesca di ser Giuliano Manfredini, destinata a morire, ancora senza figli nel 1473), già residente in Firenze, decide di portare con sé il ragazzo, per avviarlo a una professione. Le lacune culturali che, nonostante tutto, Leonardo non riuscirà mai a superare completamente, lasciano intravedere una prima educazione piuttosto modesta ed elementare; del resto è evidente che ser Piero, discendente da una stirpe di notai, intendesse trasmettere il proprio mestiere ai desiderati figli legittimi (come poi avverrà), senza investire troppo in una compiuta educazione scolastica per il figlio naturale.
Leonardo aveva dodici anni, l’età giusta per essere avviato «a bottega», e si trattò di una bottega d’arte: tanto valeva assecondare l’inclinazione naturale del ragazzo, che con ogni probabilità aveva già avuto modo di manifestarsi, verso un’attività che, per il figlio illegittimo di un medio borghese, poteva offrire discrete opportunità di affermazione economica e sociale. Fu scelta la bottega di Andrea del Verrocchio, la più prestigiosa a Firenze insieme a quelle dei fratelli Pollaiolo: se contarono forse motivi di amicizia personale, come racconta Vasari, più ancora dovette pesare il crescente favore di Andrea nella cerchia di Giuliano e Lorenzo de’ Medici, alla quale si stava legando anche il notaio di Vinci (che nel 1470 risulta infatti impiegato come notaio della Signoria).
Da questo osservatorio privilegiato Leonardo non soltanto imparerà la tecnica della pittura, della scultura in marmo (che però è dubbio se abbia mai praticato), in bronzo e della plastica in cera e terracotta, ma sarà iniziato a un interesse specifico per la tecnologia, anche non applicata alle arti figurative; il tutto mentre il suo maestro, Andrea di Cione detto Verrocchio, concepisce alcuni dei suoi maggiori capolavori (Incredulità di san Tommaso per Orsanmichele, 1467-1473; lavabo di San Lorenzo, entro il 1469; tombe di Giovanni e Piero de’ Medici ancora in San Lorenzo, entro il 1472).
Il 1472 è l’anno in cui Leonardo risulta iscritto al registro dei pittori della compagnia di San Luca: a vent’anni, pertanto, Leonardo è formalmente un maestro autonomo, pur continuando di fatto a gravitare come collaboratore del Verrocchio. Intorno a questo momento dovrebbero collocarsi le prime vere opere eseguite da Leonardo in proprio: l’Annunciazione degli Uffizi e la Madonna col Bambino (cosiddetta Madonna del garofano) della Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. A questo periodo della prima attività di Leonardo risale anche il famoso disegno, ritenuto spesso una veduta della valle dell’Arno, conservato al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, corredato da una data autografa: «dì di S(an)ta Maria della neve – addi 5 d’aghossto 1473».
Nel 1476 Leonardo è coinvolto in una accusa anonima di sodomia, sporta il 9 aprile e ribadita il 7 giugno, assieme a una brigata di farsettai e orafi, ma anche di un Lionardo Tornabuoni detto il Teri, che dovrebbe essere l’insospettabile fratello del capofamiglia Giovanni. Può darsi che l’obiettivo dell’anonimo delatore fosse proprio il Tornabuoni, esponente di rilievo di una famiglia vicinissima ai Medici, e che per comprometterlo si sia chiamata in causa una compagnia dalle abitudini notorie, così da rendere verosimile l’accusa. L’anonimo delatore del 1476 ci informa anche che il Vinci «sta con Andrea del Verrocchio»: non più, evidentemente, nella posizione di allievo, ma di maestro indipendente che si appoggia ancora alla bottega di provenienza offrendo in cambio la propria collaborazione.
Di quest’ultimo aspetto della vita professionale di Leonardo è testimonianza la Ginevra Benci, ritratto di una colta giovane appartenente a un’altra famiglia filomedicea, con la quale Leonardo rimarrà sempre in ottimi rapporti. Il dipinto, oggi alla National Gallery of Art di Washington, fu commissionato dall’ambasciatore veneziano a Firenze, Bernardo Bembo, quasi certamente durante la sua prima missione fiorentina del 1475-1476, quale celebrazione di un amore letterario cantato in alcune composizioni lette nella cerchia di Lorenzo il Magnifico.
Il 1478 rappresenta, almeno ai nostri occhi, il momento di più convinto tentativo da parte di Leonardo di raggiungere una indipendenza professionale e una posizione di prestigio: a parte il completamento del Battesimo di Cristo (oggi agli Uffizi), da tempo giacente nella bottega verrocchiesca, che dovrebbe cadere pressappoco in questo momento, va rilevata la prima importante commissione pubblica guadagnata dall’artista (a cui forse potrebbe non essere estraneo il padre, che nel frattempo, giunto al terzo matrimonio, ha finalmente ottenuto la discendenza maschile legittima); l’incarico da parte della signoria fiorentina, il 10 gennaio, di dipingere la pala d’altare per la cappella di San Bernardo in Palazzo Vecchio. Leonardo riceve un acconto che, almeno fino al 1511, gli rimarrà calcolato a debito nella contabilità della Camera dell’arme2: nei fatti, Leonardo non eseguirà mai il dipinto. Come rivela un appunto purtroppo mutilo, verso la fine dell’anno («…bre 1478») Leonardo inizia a dipingere «due Vergine Marie»: una potrebbe essere la Madonna Benois dell’Ermitage di San Pietroburgo, mentre l’altra si può forse riconoscere o in un altro dipinto per la devozione privata (a questo periodo risalgono diversi studi per una Madonna col Bambino che abbraccia un gatto), o nella stessa pala per la cappella di San Bernardo.
Su un foglio ora a Bayonne (Musée Bonnat), Leonardo traccia un rapido schizzo dal vero, con promemoria del colore degli abiti indossati, di Bernardo Baroncelli, l’ultimo sopravvissuto tra gli autori materiali della congiura dei Pazzi, catturato a Costantinopoli, consegnato dalla Sublime Porta ottomana a Firenze e giustiziato il 29 dicembre 1479: probabilmente il Vinci sperava nell’incarico di una pittura infamante, genere che già in passato aveva conosciuto interpreti prestigiosi (da Andrea del Castagno a Botticelli). Non risulta però che tale opera sia mai stata compiuta, né da Leonardo né da altri.
Significativamente, nella portata al catasto del 1480 Leonardo non risulta più a carico del padre, segno di una ormai definitiva emancipazione. Il 3 aprile dell’anno successivo, infatti, Leonardo (che conferma una certa disinvoltura nella gestione dei propri doveri) viene condannato a rimborsare al farsettaio Giovanni Bini un taglio di stoffa che si era fatto procurare senza però mai pagarlo; la cosa per noi più interessante è che l’ingiunzione destinata a Leonardo viene consegnata al «giovane», cioè l’apprendista, che abitava nella stessa casa3. Siamo quindi assicurati che a questa data Leonardo aveva ormai una piccola bottega in proprio. Nel luglio dello stesso 1481 ottiene una nuova commissione: la pala per l’altar maggiore della chiesa del convento agostiniano di San Donato a Scopeto, appena fuori Firenze, abbattuto durante l’assedio del 15294, di cui il padre era amministratore. Il soggetto previsto è una Adorazione dei Magi, il risultato sarà il dipinto lasciato incompiuto e oggi agli Uffizi.
Nel 1482, forse tra fine estate e inizio autunno, Leonardo, probabilmente al seguito del poligrafo e faccendiere fiorentino Benedetto Dei, con cui rimarrà in contatto anche negli anni successivi, si trasferisce a Milano, alla corte degli Sforza; ma soprattutto al servizio del tutore del giovane duca, di fatto vero padrone dello stato, lo zio Ludovico Maria Sforza, detto il Moro, figlio naturale del duca Francesco Sforza5. Secondo Vasari il pretesto fu la presentazione a corte di una lira in argento, a forma di teschio di cavallo, di cui Leonardo sarebbe stato l’inventore, e in effetti il viaggio fu condotto in compagnia del giovanissimo musicista (e poi architetto) Atalante Migliorotti oltre che dello stravagante ma fedele aiutante Tommaso Masini, detto Zoroastro da Peretola. Leonardo inviò forse al Moro una lettera di presentazione (ne rimane la minuta, scritta da un amanuense professionista, nel Codice Atlantico, f. 1082r) in cui si propone soprattutto come ingegnere militare, probabilmente per via della contingenza della guerra di Ferrara, che sarà risolta con la pace di Bagnolo del 7 agosto 1484, e solo in second’ordine come scultore, per il desiderato monumento equestre a Francesco Sforza, e ancor meno come pittore.
La prima testimonianza certa della presenza di Leonardo a Milano risale comunque al 25 aprile 1483, allorché riceve l’incarico, insieme ai fratelli pittori Ambrogio ed Evangelista de Predis, già da tempo legati alla corte, della decorazione pittorica dell’ancona lignea realizzata da Giacomo del Maino per la prestigiosa Scuola della Concezione, sita in una cappella della chiesa di San Francesco Grande a Milano. Nel registro superiore di un polittico probabilmente a due piani campeggiavano due Angeli musicanti, opera della bottega di Leonardo, e la Vergine delle rocce della National Gallery di Londra, consegnata con ogni probabilità alla fine del 1489.
Ne seguirà una lunga vertenza legale in cui Leonardo e Ambrogio (Evangelista muore nel 1491) chiederanno un sovrapprezzo sul compenso complessivo inizialmente pattuito di 800 lire imperiali, che si trascinerà fino al 1508. Inizialmente Leonardo aveva impostato tutt’altro tema, una Adorazione del Bambino, ma è probabile che i confratelli della Concezione abbiano preteso una replica, con varianti, di una tavola che Leonardo doveva aver già dipinto, forse su incarico di Ludovico il Moro, per la cappella palatina nella chiesa ducale di San Gottardo in Corte, officiata anch’essa dai francescani: la Vergine delle rocce, oggi al Louvre, databile ai primissimi tempi del soggiorno milanese del Vinci.
Nel 1485 Leonardo assiste alla grande epidemia di peste che colpisce Milano, e ne ricava idee realmente innovative per l’urbanistica milanese, esplicitate in diversi studi del Ms. B dell’Institut de France di Parigi: ma nulla, a quanto pare, verrà effettivamente messo in cantiere. Non molta migliore fortuna ha la partecipazione, tra il 1487 e il 1490, al concorso indetto dalla Fabbrica del Duomo di Milano per la progettazione del tiburio: Leonardo presenta un modello in legno, realizzato da Bernardino Maggi, ma il concorso sarà vinto da Giovanni Antonio Amadeo, vero incettatore dei principali cantieri architettonici e sculturali della Lombardia sforzesca.
Verso la fine degli anni Ottanta Leonardo esegue alcuni famosi ritratti: la Dama con l’ermellino del Museo Czartoryski di Cracovia (circa 1485-1486), effigie giovanile dell’amante del Moro, Cecilia Gallerani, il Musico della Pinacoteca Ambrosiana di Milano (forse il maestro di cappella del Duomo, Franchino Gaffurio), e la Belle Ferronnière del Louvre, ritratto volta a volta identificato con una leggermente più matura Cecilia Gallerani (ipotesi ritenuta da chi scrive la più probabile), la duchessa Beatrice d’Este, o Lucrezia Crivelli, altra amante dello Sforza. Tuttavia manca ancora una consacrazione pubblica, e persino l’influenza esercitata da Leonardo sull’ambiente pittorico milanese è ancora limitata (fino almeno alla collocazione su un altare pubblico della Vergine delle rocce, ora a Londra), benché Leonardo cominci ad avere qualche giovane ma già importante seguace, come Marco d’Oggiono e soprattutto Giovanni Antonio Boltraffio, l’unico grande pittore tra i ‘leonardeschi’ strettamente intesi. Anche l’impegno nel monumento Sforza prosegue a stento, al punto che il 22 luglio 1489 il Moro inoltra tramite l’ambasciatore Luigi Alamanni la domanda a Lorenzo de’ Medici di mandargli scultori, o forse fonditori, più adatti a tale compito: la risposta poco ottimistica di Lorenzo convincerà Ludovico a dare ancora fiducia a Leonardo, forse previa messa alle strette. Fatto sta che l’artista, che nei mesi precedenti si era occupato a fondo di anatomia, producendo straordinari disegni dello scheletro umano (quasi tutti conservati alla Royal Library di Windsor Castle), il 23 aprile 1490 annota, nel Ms. C, f. 15v, dell’Institut de France, «cominciai questo libro e ricominciai il cavallo»: il monumento Sforza entra finalmente nella fase operativa, dopo che Leonardo ha deciso di abbandonare le prime, troppo azzardate idee compositive, per adottare la soluzione di classica nobiltà del cavallo al trotto, come prima di lui avevano fatto Donatello e Verrocchio, rispettivamente per le statue del Gattamelata a Padova e di Bartolomeo Colleoni a Venezia.
Del resto che già nel gennaio Leonardo avesse organizzato i festeggiamenti per le nozze del duca Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona, figlia del re di Napoli, culminate nella ammiratissima Festa del Paradiso (su testo del poeta fiorentino Bernardo Bellincioni, un cui sonetto, pubblicato postumo nel 1493, costituisce la prima menzione a stampa del nome di Leonardo), indica un maggior coinvolgimento nella vita di corte. Esso è confermato dall’invio a Pavia, il 10 giugno, in compagnia del senese Francesco di Giorgio Martini (ingegnere particolarmente ammirato da Leonardo) per un consulto tecnico sull’erigendo duomo di Pavia, voluto dal vescovo Ascanio Sforza, fratello del Moro.
Il 22 luglio 1490 entra nella sua bottega il decenne Gian Giacomo Caprotti da Oreno, destinato a rimanere al fianco di Leonardo per quasi tutta la vita, col soprannome di Salai, uno dei diavoli del Morgante di Luigi Pulci, testo posseduto dal Vinci: famoso più per le sue malefatte domestiche e per gli abiti lussuosi acquistatigli dal maestro-padre putativo, ma conosciuto dai contemporanei anche come pittore (e forse ora anche noi possiamo iniziare a riconoscerlo tra l’esercito di imitatori lombardi di Leonardo, se sono autentiche firma e data, 1511, del Salvator Mundi di recente donato alla Pinacoteca Ambrosiana6).
Anche l’inizio dell’anno successivo è dedicato alla vita di corte: Leonardo prepara una sfilata di «Omini salvatichi» per una giostra organizzata da Galeazzo Sanseverino, promesso genero del Moro, in occasione delle nozze di quest’ultimo con Beatrice d’Este. Intorno a questo periodo, circa 1490-1492, Leonardo compila l’attuale Ms. A dell’Institut de France, in gran parte occupato da note di pittura che confluiranno nel postumo Libro di pittura. Leonardo sta faticosamente cercando una propria dimensione come intellettuale, dedicando studi relativamente omogenei a singoli problemi. Ne costituiscono l’antefatto i lunghi elenchi di vocaboli di origine latina, estratti da volgarizzamenti dell’epoca, che infittiscono le pagine del Codice Trivulziano (circa 1487-1488, Milano, Biblioteca Trivulziana) e alcune carte del Codice Atlantico, e in parallelo possiamo leggere gli studi sul lume e sull’ombra del Ms. C dell’Institut, circa 1489-1490, e i già citati studi anatomici di Windsor, i più rifiniti dei quali sembrano già pensati per essere incisi in una pubblicazione (lasciando intuire una interazione tra testo e immagine, che sarà confermata dagli studi tecnologici del Codice Madrid II, 1493-1497 circa, di assoluta avanguardia per le consuetudini editoriali del momento). Così, è a partire dagli anni Novanta che, crescendo finalmente il suo prestigio, Leonardo inizia a ricercare le menzioni da parte dei letterati e a evolvere la sua stessa prosa verso forme più culte e verso un petrarchismo superficiale ma indubbiamente alla moda.
Nel 1493 è possibile che Leonardo riceva la commissione del Cenacolo nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie a Milano: diversi indizi lo lasciano supporre, anche se non ci sono prove definitive. Di certo è l’anno in cui viene raggiunto, come lui stesso annota, da una certa «Catelina» che con ogni probabilità è sua madre (una «Chaterina de Florenzia» muore a Milano il 26 giugno 14947, e Leonardo stesso nel Codice Forster II, f. 64v, ne registra le spese per la «sotterratura»). Si lega alla sua bottega anche un Giulio Tedesco, probabilmente un maestro fonditore e bombardiere: il sospetto è che la sua professionalità serva a Leonardo per la fusione del monumento Sforza, il cui modello in creta, alto secondo la testimonianza di Luca Pacioli oltre sette metri, era ormai pronto, in Corte Vecchia (l’attuale Palazzo Reale). Nel Codice Madrid II, f. 151v, infatti, alla data 20 dicembre 1493, Leonardo scrive che la fusione dovrà essere fatta «a diacere», in un solo blocco e senza la coda, che sarà fusa a parte8. Tuttavia l’anno successivo Ludovico il Moro, per allontanare da sé i sospetti (in realtà giustificatissimi) di aver suggerito al re di Francia Carlo VIII di scendere in Italia per rivendicare il regno di Napoli (il cui sovrano, Alfonso d’Aragona, si oppone al piano ludoviciano per diventare a tutti gli effetti duca di Milano), invia a Ferrara il bronzo accantonato per la fusione del monumento: il duca Ercole d’Este ne ha fatto richiesta per fondere cannoni con i quali tenere sotto tiro l’esercito francese, al quale ha concesso il transito sul proprio territorio. Proprio in occasione della discesa dei Francesi verso Napoli Leonardo vagheggia di scendere a Roma per unirsi a loro, segnatamente al maresciallo Luigi di Ligny, e di raggiungere Napoli. Il proposito, esplicitato in un appunto (cosiddetto Memorandum Ligny) ingenuamente cifrato del Codice Atlantico (f. 669r), rimarrà senza seguito.
Lo stesso anno Ludovico, morto Gian Galeazzo Sforza in circostanze misteriose durante il passaggio dell’esercito francese, ottiene il diploma imperiale che fa di lui il nuovo duca di Milano: questa mutata situazione istituzionale si riflette sulla parete del Cenacolo, sovrastata da lunette che celebrano il Moro duca. A questo momento dovrebbe risalire il progetto di una decorazione all’antica, con fregi, «ventiquattro storie romane» e «filosafi» di cui si legge il preventivo sul Ms. H dell’Institut de France, destinato con ogni probabilità al castello di Vigevano (amatissima città natale del Moro, visitata da Leonardo a inizio 1494) o forse meglio a quello di Milano. Sappiamo infatti che l’8 giugno 1496 il Moro scrive all’arcivescovo di Milano Guidantonio Arcimboldi, in quel momento a Venezia, per chiedergli (inutilmente) di contattare Pietro Perugino per sostituire «il pittore», non nominato, che stava dipingendo «i camerini nostri» del castello milanese e che si è reso protagonista di «certo scandalo», cioè una scenata, abbandonando il lavoro: tutto, compreso un abbozzo di lettera di Leonardo al Moro in cui l’artista si lamenta di non aver ricevuto da tempo il proprio salario (la si trova nel Codice Atlantico, f. 867r), lascia credere che il pittore fosse Leonardo. Del resto non si sarebbe cercato il Perugino, cioè il pittore più richiesto del momento in tutta Italia, per sostituire un decoratore secondario, né per lavorare in un’opera minore.
Purtroppo di queste decorazioni profane leonardesche non è rimasto nulla, se non qualche traccia (che i restauri attualmente in corso renderanno forse più leggibile) della cosiddetta Sala delle Asse al pian terreno del torrione quadrato settentrionale del Castello Sforzesco di Milano, straordinaria decorazione vegetale che però i documenti pongono al 1498 e che probabilmente rimase incompiuta.
Alla fine di giugno del 1497 Leonardo non ha ancora terminato il Cenacolo, e riceve un sollecito, per poi attendere «ad l’altra fazada», cioè a dipingere la parete opposta, su cui nel 1495 Giovanni Donato da Montorfano aveva affrescato una grande Crocifissione. Questo significa che l’inserto con la famiglia ducale in adorazione, di diversa mano e attribuita esplicitamente da Vasari a Leonardo (cui sicuramente apparteneva un paggio moro, che si vede già semisvanito nelle foto d’epoca e che è andato completamente distrutto nei bombardamenti del 1943), appartiene a un momento precedente, che la particolare iconografia (la stessa della Pala Sforzesca di Brera, opera di un anonimo maestro milanese – Ambrogio de Predis? – realizzata nel 1495) e i dati tecnici, essendo dipinta su un intonaco lasciato a risparmio dal Montorfano, indicano essere il 1495.
In ogni caso l’Ultima Cena è data per terminata nella lettera dedicatoria premessa da Luca Pacioli, il matematico francescano amico di Leonardo, al proprio trattato Divina Proportione, datata 8 febbraio 1498: il dipinto è detto «tutto di sua mano penolegiato». In ottobre il Moro dona a Leonardo, o forse ratifica una donazione già promessa, di una vigna, nel quartiere di Porta Vercellina, nel quale probabilmente Leonardo risiedeva (è lo stesso quartiere ove si registra nel 1494 il decesso della già ricordata Caterina da Firenze).
Il 1498 è anche l’anno in cui, morto Carlo VIII, sale sul trono di Francia Louis d’Orléans, che diventa re Luigi XII. Una pessima notizia per il Moro, dal momento che Luigi, che annovera tra gli antenati Valentina Visconti, non tarda a proclamarsi legittimo duca di Milano. L’inevitabile invasione avviene nell’estate dell’anno successivo; il 2 settembre il Moro lascia Milano per raggiungere Innsbruck e chiedere l’aiuto dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo. Il tradimento del castellano Bernardino da Corte spiana la strada all’ingresso a Milano delle truppe francesi, guidate da Luigi di Ligny, Robert Stuart d’Aubigny e Gian Giacomo Trivulzio, con i quali pare che Leonardo riesca subito a entrare in rapporto. Il 6 ottobre 1499 Luigi XII entra da trionfatore a Milano, anche se la situazione rimane incerta e caotica: nel successivo febbraio il Moro, al comando di un esercito in gran parte formato da mercenari svizzeri, riconquista Milano, per poi perderla definitivamente nella battaglia di Novara (13 aprile 1500). In tali circostanze Leonardo, che con ogni probabilità non si sente sicuro, decide di abbandonare la Lombardia: pare però che i suoi soggiorni e le sue missioni degli anni successivi siano sempre effettuati in un contesto di sostanziale fedeltà al governo francese9.
Dopo aver fatto depositare il proprio denaro al banco di Santa Maria Nuova di Firenze, Leonardo si reca a Mantova, ospite nell’inverno 1499-1500 di Isabella d’Este, che lo incarica di dipingere il ritratto, di cui rimane al Louvre un cartone parzialmente bucherellato per lo spolvero: nonostante i ripetuti solleciti, la marchesa non otterrà mai il sospirato ritratto. Da Mantova si reca a Venezia: il suo compito è ispezionare le difese della Repubblica di Venezia sul fronte orientale segnato dal corso del fiume Isonzo, per fronteggiare le incursioni dei Turchi di cui si teme una vera e propria invasione. Non disponiamo di una cronologia precisa: dopo l’avvenuto trasferimento del denaro da Milano a Firenze il 14 dicembre 1499, Leonardo, già reduce da Mantova, è documentato a Venezia il 13 marzo 1500.
Scende quindi a Firenze, dove durante un breve soggiorno offre un parere sulla statica del convento di San Salvatore all’Osservanza sul Monte San Miniato, mentre l’11 agosto invia a Francesco Gonzaga, marito di Isabella d’Este, un disegno della villa di Angelo del Tovaglia. Quasi certamente la meta successiva è Roma (difficile dire se si tratti del primo impatto di Leonardo con l’Urbe, o se già in gioventù potesse averla raggiunta per brevi e comunque non documentati soggiorni): lui stesso segnala, sul Codice Atlantico (f. 618v), la visita alla Villa Adriana di Tivoli, il 20 marzo 1501.
All’inizio della primavera del 1501 è nuovamente a Firenze, dove finalmente si occupa di pittura: elabora due cartoni raffiguranti la Sant’Anna Metterza, uno poi tradotto in dipinto, oggi al Louvre, l’altro posseduto dalla National Gallery di Londra. Anche sulla scorta di quanto (con qualche imprecisione) scrive Vasari, è molto probabile che Leonardo abbia elaborato questo tema per la pala dell’altare della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Vecchio, inizialmente affidata a Filippino Lippi, e dopo la morte di lui passata a Fra Bartolomeo, il cui lavoro si interromperà alla fase della stesura monocroma. In aprile viene descritto da Pietro da Novellara, generale dei carmelitani e agente di Isabella d’Este, un altro «quadretino» dipinto per il segretario del re di Francia, Florimond Robertet: si tratta della cosiddetta Madonna dei fusi, nota in numerose versioni, due delle quali uscite dalla diretta bottega di Leonardo (non si può escludere che una di queste sia proprio quella dipinta per Robertet).
Leonardo risulta ancora a Firenze nel maggio 1504, allorché, su richiesta di Isabella d’Este, stima quattro vasi antichi già appartenuti a Lorenzo il Magnifico, e subito dopo al servizio di Cesare Borgia (sempre in un’ottica filofrancese: se Firenze era alleata del ‘re cristianissimo’, il duca Valentino era addirittura entrato in Milano con le truppe francesi nel 1499), di cui appare «architecto et ingengero generale», con amplissimi poteri; in quest’occasione conosce Niccolò Machiavelli. Un ruolo così importante farebbe pensare a una occupazione di lungo periodo, mentre ritroviamo Leonardo a Firenze, in apparenza come se nulla fosse, nel febbraio 1503.
Si sta aprendo un periodo di grande fervore lavorativo. Come apprendiamo da una nota manoscritta di Agostino Vespucci, segretario della signoria fiorentina, in quest’anno Leonardo sta già dipingendo la Sant’Anna e ha messo mano alla Gioconda, cioè al ritratto di Lisa Gherardini, moglie del mercante di seta Francesco del Giocondo, e ottiene l’incarico più importante della sua carriera: un dipinto murale di grandi dimensioni, per una delle pareti lunghe della stessa Sala del Maggior Consiglio, raffigurante la Battaglia di Anghiari; il contratto è dell’ottobre e prevede la possibilità di iniziare la pittura anche senza aver delineato per intero il cartone.
In effetti Leonardo dipingerà la scena centrale, la cosiddetta Lotta per lo stendardo, probabilmente fino alla primavera del 1506, lasciandola però interrotta per sempre dopo un rovescio dovuto secondo alcune fonti a errore tecnico del maestro, secondo altre a sabotaggio dei materiali (forse insinuando che dietro ci potessero essere i partigiani di Michelangelo, acerrimo rivale e nemico del Vinci, che nel 1504 ottiene una commissione gemella, anch’essa mai condotta oltre il cartone, per una Battaglia di Cascina).
Leonardo però non si occupa solo di pittura: dopo essersi proposto al sultano Bāyazīd II per progettare un ponte sul Bosforo, tra giugno e luglio 1503 ispeziona alcune fortezze nel territorio della Repubblica e studia un ambizioso piano di deviazione dell’Arno, in funzione antipisana (il progetto passerà alla fase esecutiva ma sarà presto abbandonato per i suoi costi proibitivi). In questo periodo studia anche con grande intensità il volo degli uccelli, finalizzato alla realizzazione di una macchina per il volo umano, vagheggiata sin dagli anni milanesi ma solo ora concepita su basi diverse: non più basata sull’energia del movimento umano, ma su quella del vento. A questi studi è quasi interamente dedicato il codice detto appunto del Volo degli uccelli (Torino, Biblioteca Reale), ma anche diversi fogli del Codice Atlantico, in uno dei quali, datato 9 luglio 1504, è annotata con apparente e notarile freddezza la morte del padre; in un altro un «ricordo d’infanzia», basato in realtà su un topos letterario sulla predestinazione infantile degli uomini illustri, su cui si baserà Freud nel comporre il suo celebre saggio su Leonardo (1910). Al novembre 1504 risale una missione a Piombino per Jacopo IV Appiani, ristabilito al potere dopo esserne stato scalzato da Cesare Borgia10.
Il 30 maggio 1506 Leonardo ottiene un permesso di tre mesi per tornare a Milano, su richiesta del governatore francese, Charles d’Amboise: in realtà l’allontanamento risulterà definitivo, tranne una parentesi tra il settembre 1507 e il marzo 1508. Quest’ultima sarà causata dalla ferma determinazione di Leonardo di venire in possesso dell’eredità lasciatagli dall’amato zio Francesco da Vinci, morto nel 1507, impugnata dai fratellastri, chiamando in aiuto persino il cardinale Ippolito d’Este e addirittura lo stesso re Luigi XII; Leonardo, ospite di Piero di Braccio Martelli, troverà comunque il tempo di collaborare con lo scultore Giovan Francesco Rustici, impegnato nell’esecuzione del gruppo bronzeo della Predica del Battista per il battistero fiorentino, e di rielaborare i suoi appunti sullo studio delle acque che confluiscono nel cosiddetto Codice Leicester (Seattle, collezione B. Gates). Dapprima le autorità fiorentine reclameranno, anche con una certa irritazione, il ritorno del maestro a Firenze, ma quando interverrà diretta- mente il re di Francia, che nomina prontamente Leonardo «paintre et ingenieur ordinaire», il discorso sarà definitivamente chiuso. A Milano Leonardo redige un preventivo per un monumento sepolcrale a Gian Giacomo Trivulzio, probabilmente nel 1506 – ma il condottiero virerà presto su un altro progetto, la cappella gentilizia ideata da Bramantino accanto alla basilica di San Nazaro Maggiore –, progetta una villa suburbana per Charles d’Amboise, e forse i rivellini del castello di Locarno e di quello stesso di Milano, rinforzato dai Francesi secondo le nuove esigenze dell’arte militare.
In questo secondo soggiorno milanese, oltre a una moderata attività pittorica, Leonardo riprende con grande impegno gli studi di anatomia, concentrandosi in modo particolare anche se non esclusivo sull’embriologia. Favorì questo ritorno di entusiasmo la presenza all’università di Pavia del giovane e geniale medico veronese Marco Antonio Della Torre, che si avvalse dell’esperienza e delle eccezionali doti grafiche del Vinci per i suoi studi, interrotti bruscamente dalla morte avvenuta nel 1511. Inizia un lento declino: le sorti politiche e militari volgono, dopo la finta vittoria di Ravenna, a favore degli imperiali, che puntano alla restaurazione sforzesca. Durante i mesi di guerra Leonardo si ritira a Vaprio d’Adda, nella villa del padre del suo più giovane e fedele allievo, Francesco Melzi. Nella primavera del 1513, nuovamente a Milano, risulta «habitans cum magnifico domino Prevostino Piola»11, parente dello storico Bernardino Corio.
Ma ormai la Milano nuovamente sforzesca è città che Leonardo, evidentemente, ritiene non più ospitale (nonostante che altri artisti non meno compromessi con i Francesi, come Bramantino, riusciranno a riaccostarsi agli Sforza senza particolari problemi): il 13 settembre, insieme a Salai, Francesco Melzi e un «Fanfoia», spesso identificato con lo scultore Agostino Busti detto il Bambaia12, si mette in cammino alla volta di Roma. Abiterà al Belvedere in Vaticano, ospite di Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo e fratello del nuovo papa Leone X. Probabilmente Leonardo a Roma non ebbe mai l’ambizione di rivaleggiare con i ben più giovani astri di Michelangelo e Raffaello, e, pur concedendo qualcosa alla pittura (il completamento della Sant’Anna e una sostanziale rivisitazione della Gioconda, rimasta sino a quel punto incompiuta), i suoi interessi sono piuttosto rivolti all’anatomia, agli studi sugli specchi (forse a fine industriale) e a una strana passione per le trasformazioni dei solidi geometrici.
A settembre 1514 si reca in Emilia, a Parma e a Sant’Angelo (di questo viaggio resta traccia in alcuni appunti del Ms. E all’Institut de France, ff. 80r, 96r). Nell’ottobre si iscrive alla confraternita di San Giovanni, che raccoglie i Fiorentini in Roma, ma ne verrà espulso già in dicembre in quanto moroso nel pagarne le quote sociali.
Sicuramente è ancora a Roma nell’agosto del 1516, allorché misura la basilica di San Paolo fuori le Mura (Codice Atlantico, f. 471r), benché già il precedente 17 marzo fosse prematuramente morto Giuliano de’ Medici. Con ogni probabilità parte poco dopo alla volta della Francia, accogliendo l’invito del nuovo re Francesco I.
Viene ospitato nel castello di Cloux (oggi Clos-Lucé), presso Blois, dove il 10 ottobre riceve la visita del cardinale Luigi d’Aragona, descritta dal segretario Antonio de Beatis: Leonardo, colpito da paralisi alla mano destra, mostra ai suoi ospiti diversi manoscritti, tra cui alcuni di anatomia, e tre quadri, la Sant’Anna, il San Giovanni Battista e un ritratto che si potrebbe identificare con la Gioconda. Leonardo riceve una pensione di 1000 scudi annui: oltre al riordino dei propri manoscritti, si occupa dell’ambizioso progetto di un palazzo reale sulla Loira, destinato a rimanere sulla carta (ma non è escluso che alcune idee siano poi confluite in quello, effettivamente realizzato, di Chambord).
Nel 1518 Salai, rientrato a Milano, cede per una cifra astronomica alcuni dipinti a Francesco I: è molto probabile che si tratti di opere di Leonardo, non solo per la prossimità del Caprotti al maestro toscano, o perché pochi anni dopo l’umanista Paolo Giovio menziona la Sant’Anna nelle collezioni reali, ma anche perché nel testamento dettato da Leonardo il 23 aprile 1519 non si fa cenno di essi (mentre al Melzi sono assegnati tutti i manoscritti e i cartoni), e lo stesso Salai riceve assai poco, ciò che sarebbe logico se in realtà avesse già avuto in anticipo la propria parte di eredità.
Leonardo muore il 2 maggio 1519, e viene sepolto nella chiesa di Saint-Florentin, poi devastata durante la Rivoluzione. Pare solo una leggenda quella narrata da Vasari, secondo cui il Vinci sarebbe spirato tra le braccia stesse di Francesco I. Non ne fa cenno neanche il Melzi nella lettera scritta ai fratellastri di Leonardo, il 1° giugno 1519, per annunciare la scomparsa del maestro: «Credo siate certificati della morte di Lionardo fratello vostro, e mio quanto ottimo padre, per la cui morte sarebbe impossibile che io potesse esprimere il dolore che io ho preso: e in mentre che queste mie membra si sosterranno insieme, io possiederò una perpetua infelicità [...]. È dolto ad ognuno la perdita di tal uomo, quale non è più in potestà della natura. Adesso Iddio onnipotente gli conceda eterna quiete».Percorso pittorico dal Quattrocento alla ‘maniera moderna’
Gli inizi
«Alla sera ho fatto una passeggiata con un compatriota, disputando sul primato di Michelangelo e Raffaello; io tenevo per il primo, egli per il secondo: finimmo per sciogliere entrambi un inno a Leonardo»13.
Questa annotazione dell’Italienische Reise di Goethe è posta sotto la data del 31 luglio 1787, e ambientata a Roma, in un momento in cui lo scrittore tedesco frequentava assiduamente artisti come Wilhelm Tischbein e Angelica Kaufmann (che forse possedeva un dipinto di Leonardo, il San Girolamo oggi alla Pinacoteca dei Musei Vaticani), si cimentava egli stesso nel disegno e componeva la versione definitiva del Wilhelm Meister; tuttavia l’effettiva stesura risale solo al periodo 1815-1817, in perfetta contemporaneità con l’uscita (1817) della recensione al libro dedicato da Giuseppe Bossi al Cenacolo di Leonardo nel 1810, punto di partenza dei moderni studi vinciani.
Che Goethe presenti «l’inno a Leonardo» come un fatto in qualche misura sorprendente, che valga la pena di narrare a un pubblico colto e pronto a vedere in lui una guida intellettuale, ci mette in guardia dal considerare la ‘leonardolatria’, nata proprio all’inizio dell’Ottocento e potentemente spinta dal gusto tardoromantico e simbolista, come un fatto da sempre indiscusso e acquisito. Per un erudito del Seicento o del Settecento Leonardo, di cui peraltro si aveva una idea alquanto imprecisa, dal momento che il suo catalogo comprendeva opere oggi restituite a pittori diversi, quali a esempio Cesare da Sesto o Bernardino Luini, era sicuramente un grande artista, ma non paragonabile a Raffaello – la fama di Michelangelo è invece più contrastata – o, spesso, a Correggio e a Tiziano.
Tale considerazione ci deve incitare a storicizzare, fuori da qualunque mito (nessun dubbio che il ‘mito di Leonardo’ rappresenti un elemento importante della cultura occidentale moderna14), il ruolo di Leonardo nella storia dell’arte italiana: punto di svolta dal ‘classicismo prematuro’ del tardo Quattrocento alla maniera moderna del Cinquecento. In questo senso è ancora un passo letterario che dobbiamo meditare, considerandolo una sorta di tonalità generale su cui verrà costruendosi il discorso che svolgeremo nelle pagine seguenti.
Al di là della propria aperta partigianeria fiorentina e michelangiolesca, questo decisivo passaggio della nostra storia figurativa è stato delineato, con mirabile icasticità e stupefacente sicurezza, nel Proemio della terza parte delle Vite di Giorgio Vasari, fin dalla prima pubblicazione, edita a Firenze nel 1550 da Lorenzo Torrentino; nessuno dopo di lui ha saputo dare un giudizio storico su Leonardo meglio fondato ed espresso: «[I pittori del Quattrocento], per sforzarsi, cercavano fare l’impossibile dell’arte con le fatiche, e massime negli scórti e nelle vedute spiacevoli che, sì come erano a loro dure a condurle, così erano aspre e difficili agli occhi di chi le guardava; et ancora che la maggior parte fussino ben disegnate e senza errori, vi mancava pure uno spirito di prontezza, che non ci si vede mai, et una dolcezza ne’ colori unita, che la cominciò ad usare nelle cose sue il Francia Bolognese e Pietro Perugino; et i popoli nel vederla corsero come matti a questa bellezza nuova e più viva, parendo loro assolutamente che e’ non si potesse già mai far meglio.
Ma lo errore di costoro dimostrarono poi chiaramente le opere di Lionardo da Vinci, il quale dando principio a quella terza maniera che noi vogliamo chiamare la moderna, oltra la gagliardezza e bravezza del disegno, et oltra il contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura così apunto come elle sono, con buona regola, migliore ordine, retta misura, disegno perfetto e grazia divina, abbondantissimo di copie e profondissimo di arte, dette veramente alle sue figure il moto et il fiato»15.
Nato nel 1452, Leonardo fu introdotto verso il 1464 nella bottega di Andrea del Verrocchio. Grande soprattutto come scultore, Verrocchio aveva iniziato praticando il mestiere di orafo ed era anche un esperto fonditore. Probabilmente, proprio quando Leonardo si stabilì presso di lui, egli si stava affacciando sulla scena pittorica fiorentina, attraversata da una profonda crisi involutiva (la Firenze pittorica degli anni Sessanta non regge il confronto, quanto a novità di proposte, con la Mantova di Mantegna, con la Ferrara di Cosmè Tura, con la Venezia del primo Giovanni Bellini, con la Urbino di Piero della Francesca) che non poteva essere colmata solo dai fratelli Pollaiolo. Nella sua bottega, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta transitarono come collaboratori, insieme a Francesco Botticini e Biagio d’Antonio, i giovani Botticelli e Perugino, mentre in parallelo a Leonardo vi compirono la propria formazione pittori come Lorenzo di Credi e scultori e plasticatori quali Francesco di Simone Ferrucci, Agnolo di Polo, e poco dopo Giovan Francesco Rustici. Nell’arco della sua permanenza presso Verrocchio (vi è ancora documentato nel 1476), Leonardo poté assistere, e forse in qualche misura partecipare, alle più importanti imprese, non solo e non soprattutto di pittura, del suo maestro: il lavabo marmoreo della Sagrestia Vecchia in San Lorenzo, la tomba di Giovanni e Piero de’ Medici nella stessa chiesa (1469-1472), il gruppo bronzeo dell’Incredulità di san Tommaso per Orsanmichele (1466-1483), il Putto con delfino in bronzo oggi a Palazzo Vecchio, eseguito su incarico di Lorenzo il Magnifico per la villa di Careggi come il rilievo fittile della Resurrezione ora al Museo del Bargello, fino al collocamento della grande ‘palla’ in rame sulla lanterna di Santa Maria del Fiore (27 maggio 1472). A quest’ultima operazione Leonardo assistette di sicuro, con grande attenzione: lui stesso scrive, ormai verso il 1510, «ricordati delle saldature con che si saldò la palla di Santa Maria del Fiore [...] di rame improntato in sasso, come li triangoli d’essa palla»16. Entro la bottega verrocchiesca Leonardo poté pertanto ricevere una formazione non solo artistica ma squisitamente tecnologica, che lo spinse ad approfondire per proprio conto il funzionamento delle macchine che aveva sotto gli occhi, tra cui le complesse e spettacolari apparecchiature messe a punto da Filippo Brunelleschi per l’erezione della cupola del duomo fiorentino (copie e derivazioni dagli ‘ingegni’ brunelleschiani si trovano in alcuni fogli del Codice Atlantico17). Tuttavia questi disegni risalgono, per stile di tratto e di scrittura, a un periodo intorno al 1478-1480, quando Leonardo ormai da anni era attivo come pittore e scultore, e paiono le prime concrete manifestazioni dell’insoddisfazione del Vinci per il proprio mestiere e dell’ambizione, nutrita con alterna fortuna per tutta la vita, di affermarsi quale ingegnere sia civile sia militare.
I motivi formali elaborati dal Verrocchio si ritrovano spesso, persino con una certa crudezza, negli studi giovanili di Leonardo, ma non di rado si impressero in profondità nella sua fantasia, costituendo un giacimento di immagini capaci di riemergere, improvvisamente trasfigurate, nel corso della sua maturità. La stessa cosa avviene con le idee compositive create dal giovane maestro in una formazione che, lungi dall’esibirci un enfant prodige, fu lenta e faticosa, ma concentratissima nell’incanalare energie inventive destinate a nutrire una intera vita artistica in una disciplina intellettuale che, contrariamente al luogo comune del genio incostante, fu di estremo rigore. Altri esempi incontreremo via via, ma se focalizziamo l’attenzione solo sulla Resurrezione modellata dal Verrocchio per Careggi, ci accorgiamo facilmente che il soldato a destra, che cerca di fuggire quasi strisciando, torna pressoché identico in un disegno vinciano degli anni Settanta (Amburgo, Kunsthalle, n. 21487), trasformato in Aristotele ridotto, come vuole la leggenda medievale, dalla cecità dell’amore a fare da cavallo all’amata Fillide; mentre l’altro, fortissimo, soldato di sinistra, bloccato in un grido disperato e colmo di terrore, sarà risvegliato, un quarto di secolo dopo, dalla matita nera di Leonardo, come testa furente di Niccolò Orsini della Battaglia di Anghiari (disegno a Budapest di cui si parlerà ancora).
Gli esordi pittorici di Leonardo sono tuttora oggetto di discussione, ma continua a parermi convincente riconoscere la sua prima opera a noi nota nella minuscola Madonna Dreyfus della National Gallery di Washington (cat. 1). Le acerbità riscontrabili nelle incerte proporzioni del Bambino dall’aria imbambolata – che riprende comunque un tipo non raro nella pittura fiorentina degli anni Sessanta – e nel paesaggio ancora generico tradiscono l’opera di un pittore immaturo; ma inutilmente si cercheranno nelle superfici smaltate dei dipinti del Verrocchio, quasi l’orgogliosa esibizione di un intarsio di pietre dure, e men che meno nell’opera di Lorenzo di Credi (che pure contende a Leonardo la paternità del quadretto), l’intenso dialogo di sguardi delle due figure, calate dall’assenza di elementi secondari in una intimità tenera e silenziosa. Soprattutto non vi si troverà la ricchezza di effetti luministici resi da corpi straordinariamente sensibili all’illuminazione ‘naturale’ filtrata attraverso l’apertura (interrotta da un drappo verticale, che sostituisce l’idea iniziale, rivelata dalle riflettografie, di due tende raccolte ai lati) spalancata sulla campagna al tramonto. Estranea alla pratica corrente della bottega verrocchiesca è anche l’idea dell’aureola dorata e trasparente, simile però a quelle dei tre santi Giacomo, Vincenzo ed Eustachio dipinti, sul finire degli anni Sessanta, da Piero del Pollaiolo nella pala d’altare della cappella del cardinale di Portogallo in San Miniato al Monte e oggi agli Uffizi. Il balenare di un tenue rossore sugli incarnati, lo scorrere un poco disordinato dei «lustri», quasi schegge dorate, dei capelli, l’avvolgersi concentrico dei panneggi sulla spalla della Madonna, e più di tutto il soffice incresparsi dell’abito rosso, sulla cui consistenza tra il liquido e il cristallino la luce compie evoluzioni continue, mi pare richiedano per questa sorta di miniatura su tavola l’intervento del giovanissimo Leonardo. Ritengo adeguata una cronologia intorno al 1469-1470: una piccola opera destinata alla devozione privata poteva già venire delegata a un giovane di talento.
Il 1469 è anche la data della famosa giostra organizzata a Firenze, alle cui decorazioni contribuì proprio il Verrocchio. Di questa impresa effimera ma non meno prestigiosa rimane, al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, lo studio preparatorio di uno stendardo raffigurante una ninfa dormiente insidiata da Amore (212 E), per il quale sarebbe difficile spingere la datazione fino alla successiva giostra svolta a Firenze, e vinta da Giuliano de’ Medici, nel 1475. A ragione molti studiosi, per motivi di stile ma anche per la presenza di tratteggi sinistrorsi, tipici del mancino Leonardo, vi sospettano l’intervento del giovane Vinci, al quale spetta la parte sinistra del disegno e l’organizzazione complessiva delle ombreggiature; Leonardo apparirebbe quindi, già nel ruolo di aiuto del maestro, nell’esile figura di Amore, vero fratello della Madonna Dreyfus, nelle particolareggiatissime piante sulla destra, e nella roccia dal fremente chiaroscuro e quasi inserita a forza nel disegno, su cui la ninfa si appoggia un po’ innaturalmente. Vale la pena di osservare che un disegno del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, raffigurante la Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo (445 E), presenta somiglianze non indifferenti con la parte sinistra dello studio per lo stendardo, e anche qualche timida ma riconoscibile anticipazione di idee del Leonardo futuro. Non escluderei quindi che questo foglio sia da riaggregare al corpus grafico vinciano, di cui potrebbe addirittura rappresentare il numero più antico, ancora negli anni Sessanta, e forse testimoniarci l’esistenza di un’altra tavoletta di soggetto sacro eseguita dal giovanissimo pittore. Una tavoletta la cui composizione si muoverebbe sempre nell’alveo dei temi formali presenti in bottega, basata su un modello il cui esemplare più noto, anche se forse leggermente più tardo, è la Madonna col Bambino e due angeli della National Gallery di Londra (cat. 2). Quest’ultima è caratterizzata dalle tende aperte in alto, come nella primitiva impostazione della Madonna Dreyfus, e dal curioso spuntone di roccia sullo sfondo verso destra, vistosamente aggiunto in un secondo momento, reso con una pittura lucida e stillante, quasi alla fiamminga, del tutto in linea con le ricerche pittoriche di Leonardo dei primi anni Settanta, a cui, secondo me giustamente, questo dettaglio è stato attribuito da Marani18.
Dal punto di vista compositivo anche la piccola Madonna di Washington altro non è che la raffinata variazione su un fortunato tema più volte riprodotto dalla bottega del Verrocchio (l’esemplare più noto è forse quello del monastero di Camaldoli). Un disegno a punta d’argento del Kupferstichkabinett di Dresda (C 32) raffigura la medesima Madonna e anch’esso è stato variamente attribuito a Leonardo, a Lorenzo di Credi o genericamente alla bottega verrocchiesca. A parte la sostanziale indeterminatezza della posa del braccio sinistro della Madonna, le numerose ripassature rivelano un dubbio sulla collocazione del Bambino (in piedi, come nella Madonna Dreyfus, o seduto, secondo una soluzione alternativa presente in altre versioni, una delle quali stiamo per incontrare) e una più elaborata pettinatura della Vergine. Il disegno si allontana dalla piccola versione dipinta soprattutto per la meno aggraziata definizione del volto, un po’ più pesante nei tratti, e la meno eterea consistenza fisica. L’autore del disegno di Dresda (poi forse ripassato anche da altri artisti, come era logico che capitasse al materiale ‘di bottega’) ha davanti agli occhi un modello vicinissimo o coincidente con la Madonna Dreyfus, interpolata però con altro di maggior espansione volumetrica, che doveva essere anch’esso disponibile nel patrimonio di atelier. Sono tutti elementi che si ritrovano, infatti, in una successiva versione leonardesca dello stesso tema, la cosiddetta Madonna del garofano della Alte Pinakothek di Monaco di Baviera (cat. 5). Leonardo continua a lavorare sulla stessa idea di base tradotta su scala alquanto più grande, arricchendo la scena di elementi secondari – la semplice apertura squadrata si trasforma in una lussuosa coppia di bifore di gusto michelozziano, l’acconciatura di Maria, elaboratissima, sfrutta idee del Verrocchio quali ci vengono restituite, a esempio, dal disegno con Studio di testa femminile (1895-9-15-785) del British Museum di Londra, nato forse proprio per la Ninfa dormiente elaborata per la giostra del 1469 – , ma ancora di più cercando di risolvere i problemi che la tavoletta di Washington aveva, per così dire, lasciato in sospeso. Il paffuto e sgambettante Bambino si muove con altra naturalezza rispetto al suo predecessore (idea che piacerà anche a Filippino Lippi e a parecchia pittura fiorentina non solo di fine Quattrocento19), e il difficile scorcio della mano sinistra della Madonna appare ora molto più convincente, sia nella saldezza del disegno sia nel gioco permeabile e sofisticato di luce e ombra. L’elaboratissimo panneggio, quasi inquietante nel suo pulsare vitalistico, moltiplica gli episodi di complicazioni formali e luministiche già timidamente suggeriti nella Madonna Dreyfus. Il paragone talvolta avanzato con la pratica scultorea della bottega verrocchiesca serve soprattutto a evidenziarne la già accennata maturazione volumetrica: una consapevolezza delle tre dimensioni che si traduce anche in un più insistito scavo delle superfici, e quindi in una più corposa presenza delle ombre nell’economia del quadro. Inoltre osserviamo qui lo sforzo di ammorbidire la materia, renderla quasi porosa al posarsi degli scuri sapientemente graduati, evitando programmaticamente i profili troppo secchi e delineati. Tale effetto appare oggi accentuato dalle svelature e da un fastidioso arricciamento della pellicola pittorica sugli incarnati, causato forse dall’uso come legante di un medium troppo oleoso: indizio importante che Leonardo sta sperimentando, lontano ancora dalla perfetta padronanza, una tecnica sostanzialmente estranea al Verrocchio ma utilizzata dai Pollaiolo e ritenuta nella percezione comune del tempo tipica della pittura fiamminga.
Si tratta inequivocabilmente di un processo che Leonardo perseguirà per tutta la propria carriera, e che teorizzerà parecchi anni dopo (egli solitamente arriva a fissare in parole un concetto dopo averlo sperimentato in pittura, che per lui rimarrà sempre un privilegiato strumento di indagine e di conoscenza), circa il 1490-1492: «L’ombre, le quali tu discerni con dificultà e i loro termini non poi conoscere, anzi con confuso giudizio le pigli e trasferisci nella tua opera, non le farai finite overo terminate, ché la tua opera fia di legnosa resoluzione»; e ancora: «Fa che sempre l’ombre fatte sopra la superfizie de’ corpi da varii obietti usino ondeggiare con vari torcimenti, mediante la varietà de’ membri che fanno l’ombre e della cosa che riceve essa ombra»20. A parte la comparsa, oltre le finestre della Madonna di Monaco, di un paesaggio montuoso già tipicamente ‘leonardesco’, dobbiamo ancora registrarne il carattere di competizione – a partire, lo si è detto, dalla tecnica esecutiva – con qualche «tabuleto» delle Fiandre, di gran moda a Firenze negli anni Settanta. A differenza di Piero Pollaiolo, anche lui particolarmente attento alla lezione fiamminga, la pittura nordica sembra per Leonardo non uno specchio di infinita tersità, bensì un infinito variare di situazioni luminose. Leggiamo questo dato nell’intonazione bruna dell’ambiente, in cui entra la luce serotina che crea forti contrasti, e nel virtuosismo del garofano tenuto dalla Madonna, del fermaglio di quest’ultima e soprattutto del vaso in basso a destra, dal raffinato disegno di gusto fedelmente verrocchiesco. E come sottovalutare la portata innovatrice di questa luce fredda, quasi gelatinosa, che tende a ristagnare sugli anfratti dei panneggi delle maniche e del busto della Vergine?
Una volta letta, nella filigrana di due opere apparentemente assai simili, la decisa e per certi versi imprevedibile maturazione di Leonardo in senso luminoso e tridimensionale, possiamo forse chiederci quale spazio abbia avuto la scultura, arte praticata ai massimi livelli dal Verrocchio, nella sua formazione: le fonti cinquecentesche, da Vasari al pittore e trattatista milanese Giovan Paolo Lomazzo (Trattato dell’arte de la pittura, scoltura et architettura, 158421), ricordano opere plastiche del Vinci, Madonne, teste di fanciulli ridenti e di vecchi. Leonardo stesso, in un passo risalente all’apertura degli anni Novanta del Quattrocento, dice di sé: «esercitandomi non meno in iscultura che in pittura e faciendo l’una e l’altra ’n un medesimo grado»22. La tentazione, in apparenza ragionevole ma in realtà non più che tautologica, è di ingegnarsi a cercare ‘tutto’ il Leonardo scultore e plasticatore tra le pieghe della produzione verrocchiesca: i risultati sono ovviamente deludenti quando non involontariamente comici.
Esiste tuttavia una Madonna in terracotta al Victoria and Albert Museum che ha attirato l’attenzione di molti specialisti di Leonardo di inizio Novecento e che recentemente gli è stata di nuovo avvicinata da Francesco Caglioti, in opposizione al corrente riferimento, canonizzato da John Pope-Hennessy, ad Antonio Rossellino (attribuzione tanto insoddisfacente che si sono fatti i nomi anche di Desiderio da Settignano e pure del giovane Sansovino)23. La base compositiva è verrocchiesca, compreso il panneggio vibrante ma come disidratato, lontano da quelli sin troppo morbidi ed espansi che già abbiamo visto nella Madonna di Monaco e che incontreremo ancora, ma prossimo a quello di un disegno di Andrea del Verrocchio, quale lo Studio di Madonna del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (444 E), risalente forse ai primissimi anni Settanta, così come la logica rotatoria, appena accennata ma inflessibile. Ne esulano la mobilità espressiva, i sorrisi così dolci e naturali: la testa della Madonna è un’impressionante anticipazione di quella della Sant’Anna del Louvre, opera dell’avanzata maturità di Leonardo. Il problema è di cronologia: l’opera, alta circa 50 cm, appare ben più risolta, da ogni punto di vista, della Madonna Dreyfus, ma, se di Leonardo, apparterrebbe a un momento di riflessione formale che ancora non vede la crescita ‘spaziosa’ della Madonna di Monaco (saremmo cioè intorno al 1470-1472); si dovrebbe quindi credere, rovesciando la comune opinione, a una più precoce crescita del Vinci come scultore che come pittore. Proprio questo è l’argomento – che peraltro non impegna chi riferisce la tavoletta di Washington al Credi –, forse unico, che impedisce di sciogliere ancora ogni riserva su una attribuzione che la qualità del modellato, fremente, velocissimo, intessuto di continui scarti tra luci e ombre, giustificherebbe appieno.
Molti elementi della poetica del piccolo dipinto monacense si ritrovano, con maggiori ambizioni, nella Annunciazione degli Uffizi (cat. 4), proveniente da San Bartolomeo a Monteoliveto: forse dipinta per una chiesa olivetana, in una sistemazione memore, in scala minore, della Annunciazione dipinta da Alesso Baldovinetti nella cappella del cardinale di Portogallo in San Miniato al Monte, che si conferma luogo privilegiato di studio per il giovane Leonardo, o forse pensata nel contesto di un lussuoso arredo privato. Ne risulterebbe una originaria collocazione in alto del dipinto, studiata per una visione ribassata che impone, come notato da Antonio Natali24, anche una diversa valutazione dell’impostazione prospettica dell’opera, spesso criticata e invece di sorprendente sapienza, pur nel fin troppo scoperto virtuosismo. A favore di una originaria esposizione pubblica del dipinto milita forse la considerazione che esso fu tenuto ben presente da Fra Bartolomeo nella pala di analogo soggetto dipinta per il duomo di Volterra nel 1497. Ma anche – ed è un dato di fortuna visiva ancor più significativo – da Domenico Ghirlandaio negli affreschi della cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, 1485-1490 (si vedano l’angelo e l’altare nella scena dell’Annuncio dell’angelo a Zaccaria e l’impressionante apertura di paesaggio sullo sfondo della Visitazione). Viene da chiedersi se tale omaggio, tanto vistoso quanto estrinseco, non sia stato inserito dal Ghirlandaio per compiacere i gusti del committente Giovanni Tornabuoni, offrendo una suggestione per la committenza della Annunciazione: non dimenticando poi che Leonardo nel 1476 risulta, sia pure in circostanze non troppo commendevoli, in contatto con un Tornabuoni, Leonardo detto ‘il Teri’. Quest’ultimo sembra non poter essere altri che il fratello di Giovanni, Leonardo di Francesco (1426-1492), il cui nonno si chiamava Tieri: lo stesso che aveva scelto un amico di Angelo Poliziano, Gioviano Crasso da Monopoli, come precettore di uno dei figli25. Proprio i prestiti operati dal Ghirlandaio spiegano forse perché la tavola di Leonardo entrò agli Uffizi, nel 1867, con attribuzione al Bigordi.
La consistenza quasi marmorea conferita alla tavola fiorentina dal recente restauro non impedisce di cogliere le somiglianze con la più sofferta Madonna di Monaco: il volto della Vergine è pressoché lo stesso, così come la resa delle ciocche dei suoi capelli, del giglio offerto dall’angelo e del trattato di botanica illustrato nel prato-tappeto su cui si posa, come spazzandolo, l’ombra cupa del messaggero celeste. Al fondo vediamo già un anticipo dei paesaggi cari a Leonardo, in cui le alte cime si confondono e quasi evaporano nell’indistinto grigiore nebbioso di un porto investito da un precoce autunno. È un preludio, ancora empirico e incerto, al principio della «prospettiva aerea», enunciato dopo numerose prove pittoriche, all’apertura degli anni Novanta: «Tu sai che in simile aria [un’aria spessa, definita appena prima «un poco grossa»] l’ultime cose viste in quella, come sono le montagne, per la gran quantità dell’aria che si truova infra l’occhio tuo e la montagna, quella pare azzurra, quasi del colore dell’aria, quando il sole è per levante»26.
La maggior levigatezza di questo dipinto, non ancora disposto a rinunciare del tutto ai «termini spediti» e ai contorni taglienti, indica inequivocabilmente una leggera anteriorità rispetto alla più accarezzata Madonna di Monaco: appare credibile la datazione tradizionale al 1472-1473 (forse la prima commissione di peso ottenuta individualmente da Leonardo, già iscritto alla compagnia di San Luca, e quindi formalmente maestro autonomo, nel 1472), che farebbe ipotizzare almeno il 1473-1474 per il quadro monacense. Per il resto l’opera si dimostra completamente inserita nel milieu verrocchiesco: a partire dall’ornatissimo leggio della Madonna, sempre e opportunamente messo in rapporto con la tomba di Piero e Giovanni de’ Medici in San Lorenzo, terminata nel 1472, fino alle evoluzioni dei panneggi – che si dimostrano, questi sì, ben compatibili con la terracotta londinese prima considerata. Se per la manica dell’angelo si conosce uno studio a penna alla Christ Church di Oxford (n. 0036), il manto che avvolge le gambe della Vergine si apparenta in qualche misura a quello della Fortezza dipinta da Botticelli verso il 1470 per l’Arte della Mercanzia (ora agli Uffizi), ma soprattutto si inserisce nella pratica, propria della bottega del Verrocchio, degli studi di panneggi a pennello su tela di lino. Particolarmente prossimi alla fase della Annunciazione sembrano i due studi, 2256 del Louvre e 420 E degli Uffizi, per il tratto deciso e ancora un po’ secco, in cui gioca un ruolo decisivo la luce amministrata coi rialzi di biacca, in un modo che resterà memorabile, a Milano, per Marco d’Oggiono e forse per Giovanni Agostino da Lodi (dimostrando che Leonardo portò con sé in Lombardia alcune di queste esercitazioni). Viceversa sembra più morbido e propriamente atmosferico un altro studio (2255) del Louvre, apparentemente legato alla postura delle gambe della Madonna, ma vicino per concezione piuttosto alla tavola di Monaco se non alla successiva Madonna Benois: questi lavori non erano pertanto un banco di prova per il principiante, bensì l’esercitazione continua dei collaboratori del Verrocchio. Proprio di quest’ultima teletta abbiamo un secondo esemplare, assai simile, attribuito a Lorenzo di Credi (Londra, British Museum, 1895-9-15-459), che si direbbe eseguito fianco a fianco con Leonardo; così come fianco a fianco sono eseguiti, da Leonardo e da un suo condiscepolo (probabilmente ancora Lorenzo di Credi) i due fogli, rispettivamente, del Gabinetto Nazionale della Grafica di Roma, Fondo Corsini, inv. F. C. 125770, e di collezione privata, inedito. Questi confronti ci fanno comprendere l’origine pratica di qualche precetto didattico del Vinci: «Dico e confermo che ’l disegnare in compagnia è molto meglio che solo per molte ragioni: la prima è che tu ti vergognerai d’essere visto nel numero de’ disegnatori, essendo insofiziente [...]; l’altra che tu piglierai de’ tratti di chi fa meglio di te, e se sarai meglio degli altri, farai profitto di schifare i mancamenti, e l’altrui laude accresceranno tua virtù»27. A meno che, e forse meglio, data l’estrema vicinanza, non si tratti dei disegni di Lorenzo di Credi ottimamente copiati da modelli di Leonardo ricordati da Vasari nella seconda edizione delle Vite, pubblicata nel 156828.
Il piccolo nucleo di dipinti sin qui esaminati condivide sostanzialmente la cronologia col primo disegno datato che si conosca di Leonardo: il celebre paesaggio degli Uffizi (8 P recto), segnato «dì di S(an)ta Maria della neve – addi 5 d’aghossto 1473». Ritenerlo «il primo paesaggio moderno» è sicuramente una esagerazione, legata al vecchio riflesso condizionato di considerare Leonardo precursore di quasi tutto, vedutismo compreso, e poco interessante la caccia al punto preciso da cui Leonardo avrebbe tratto il suo disegno (inutile dire che ciascun cacciatore ha individuato in un luogo diverso il ‘punto preciso’). Altro non è, nella realtà, che uno studio finalizzato alla pratica pittorica, specificamente al ‘far paesi’ di gusto filofiammingo (basti considerare lo sperone roccioso di destra, esemplato sostanzialmente su uno analogo a quello delle Stigmate di san Francesco di Jan van Eyck, opera nota in due versioni al Museum of Art di Philadelphia e alla Galleria Sabauda di Torino, e che rivedremo nel Battesimo di Cristo iniziato dal Verrocchio e terminato da Leonardo), che di lì a poco conoscerà un vertice nello sfondo del Martirio di san Sebastiano (Londra, National Gallery, già nella cappella Pucci della Santissima Annunziata) di Piero del Pollaiolo, circa il 1475. Se si vuole trovare un dato innovativo in questo disegno, esso va semmai individuato nella tendenza a rendere curvilinea l’immagine man mano che ci si sposta verso i margini, come a suggerirne una sorta di dilatazione infinita, quale la prospettiva tradizionale non può restituire: inizia qui la lunga storia dell’insoddisfazione di Leonardo per la «prospettiva liniale», di cui diremo tra poco. Ma soprattutto, una volta di più, bisogna valutare questo disegno nell’economia della bottega del Verrocchio, in cui sono riscontrabili inserti paesistici e naturalistici per i quali anzi si è talvolta chiamato in causa il Vinci: l’ipotesi più intrigante è quella di riconoscerlo in alcuni passaggi del Tobiolo con l’angelo della National Gallery di Londra (cat. 3), nel pesce di epidermico realismo ancor più che nel cagnetto o nelle maniche operate dell’abito di Tobiolo, dipinte quasi in gara con quelle del sant’Eustachio pollaiolesco già in San Miniato.
Il giovane maestro
Un paesaggio non meno incantato, privo di montagne ma con l’orizzonte sempre più disciolto nell’azzurro dell’aria – un’aria per la verità tersissima, nient’affatto «grossa», ma presente e quasi misurabile – si vede alle spalle della Ginevra Benci, effigiata in una tavola mutila della National Gallery di Washington (cat. 6). L’opera risale quasi certamente al 1475-1476, data della prima legazione a Firenze del patrizio veneziano Bernardo Bembo, il padre di Pietro, l’autore degli Asolani e delle Prose della volgar lingua. Bembo instaurò un amore letterario con Ginevra, dedicandole versi letti nell’ambiente mediceo (al gioco parteciparono altri letterati legati al Magnifico, quali Cristoforo Landino e Alessandro Braccesi). Il legame, sancito da Jennifer Fletcher29, mi pare indiscutibile, nonostante qualche arricciatura di naso anche recentissima.
Il retro, dipinto a imitazione di tipologie fiamminghe note a Firenze (si pensi al verso del Ritratto di Benedetto Portinari di Hans Memling, oggi agli Uffizi, che è però già del 1487) e anche a Venezia, dove sono imitate da Jacometto Veneziano, presenta sul finto porfido l’intreccio di un ramo di alloro e uno di palma, vegetali la cui simbologia era già cara a Petrarca30, ma che costituiscono esattamente un emblema di Bernardo Bembo; il cartiglio che corre intorno al ramo di ginepro (allusione all’identità dell’effigiata) recita un neoplatonico virtvtem forma decorat – tema che arriverà fino al sonetto 54 di Shakespeare –, dipinto però sopra un precedente virtvs et honor, rivelato dalle riflettografie, che è per l’appunto un motto dello stesso Bembo (lo si incontra per la prima volta a noi nota nella tomba di Dante a Ravenna, 1482-1483, eseguita da Pietro Lombardo su incarico di Bembo, allora podestà della città romagnola). Si tratta peraltro di un dipinto sconosciuto alle fonti veneziane, sia scritte sia visive, mentre a Firenze risulta noto, già verso il 1516, ad Antonio Billi, che scrive una breve raccolta di biografie degli artisti locali, e prima ancora a Lorenzo di Credi, che ne dipinge una sorta di replica oggi al Metropolitan Museum di New York. Dobbiamo quindi credere che la tavola rimase sempre a Firenze, forse nella casa dei Benci – famiglia tra l’altro in ottimi rapporti con i Tornabuoni –, che possedevano anche altre opere vinciane (il fratello di Ginevra, Giovanni Benci, manterrà sempre legami di vera amicizia con Leonardo). Il ritratto risulta ancora in forte dialettica con l’opera del Verrocchio, e particolarmente con la celebre Dama col mazzolino, busto in marmo conservato al Museo del Bargello che, per tratti somatici, acconciatura e abbigliamento dell’effigiata, appare quasi un gemello tridimensionale del ritratto vinciano. Oltre al rapporto dichiaratamente competitivo con la scultura, evidente anche nella accennata torsione della modella, che le fa delicatamente piegare il collo, l’opera scopre altri elementi destinati a lunga vita nella pittura di Leonardo, come il risalto del volto pallido su un fondo scuro (in questo caso un cespuglio di ginepro, richiamato dal ramo sul verso), il depositarsi dell’ombra secondaria della sciarpa e, appena suggerita, dei legacci del corpetto, o il tremolare dell’immagine degli alberi riflessa sul fiume in secondo piano. La nostra valutazione è però ostacolata dalla perdita della parte inferiore della tavola, che sicuramente esibiva le mani della modella: non però, come si è proposto qualche tempo fa con tanto di ricostruzione al computer, secondo la traccia del bellissimo disegno della Royal Library di Windsor (12558), risalente per motivi di stile al 1488-1490 circa e pertanto realizzato a Milano. Piacerebbe considerare legati a questo dipinto – magari per una coperta di ritratto – i disegni che, sempre entro una sagoma rettangolare che fa capire la destinazione dipinta, Leonardo dedica al tema dell’unicorno dolcemente catturato da una fanciulla, che ha abbigliamento, acconciatura e fattezze assai prossimi alla nostra Ginevra Benci (Londra, British Museum e Oxford, Ashmolean Museum). Il prestigio della committenza proiettava ormai Leonardo, il cui profilo ci appare fino a questo momento piuttosto defilato, tra i pittori più in vista nella Firenze di metà anni Settanta. La cura estrema nella realizzazione del ritratto, in cui, forse per la prima volta, Leonardo cerca di ammorbidire i passaggi di tono sfumando e mischiando i colori, ove voglia evitare una profilatura netta (per esempio agli angoli della bocca), direttamente con la punta delle dita, sembra suggerire che lui per primo era consapevole dell’importanza di questo lavoro per la sua carriera.
Verso la fine del 1478 Leonardo inizia a dipingere due Madonne, come lui stesso annota in un foglio degli Uffizi (446 E recto): «[...]bre 1478 incho- minciaj le 2 Vergine Marie». Lo stile rende probabile che una di esse sia la cosiddetta Madonna Benois, conservata in travagliate condizioni all’Ermitage di San Pietroburgo (cat. 7). Siamo di fronte a una versione del tema ormai imparagonabile rispetto alle precedenti, tanto statiche e giocate sul filo di un silenzioso gioco di sguardi quanto questa è dinamica, quasi concitata, con lo scatto di infantile ilarità della Madonna contrapposto alla altrettanto infantile serietà del Bambino, intento a osservare i fiorellini che la madre stringe tra due dita. L’ombra è più avvolgente, lo scalare di piani dei personaggi e la loro collocazione spaziale più definita e pesante; la luce che cola sulla manica verde della Maria bambina ha una consistenza che già si riscontrava nella Madonna di Monaco, ma più liquida, anzi propriamente vischiosa. Addirittura la posa della Vergine, con la gamba destra piegata e la sinistra distesa, e tra questa e il braccio piegato lo sbuffo del vestito che suggerisce una delle direttrici diagonali del quadro, pur derivando da un rilievo in marmo attribuito a Donatello (la Madonna Dudley del Victoria and Albert Museum di Londra, modello ineluttabile anche per la Madonna della scala del giovane Michelangelo), è una prefigurazione della Maria nella ben più tarda Sant’Anna del Louvre.
Il foglio degli Uffizi con l’annotazione sui due dipinti mariani è particolarmente prezioso anche da altri punti di vista, anzi si rivela un’autentica miniera di informazioni. Intanto dobbiamo riconoscere nel profilo languido di giovane (contrapposto al marziale vecchio il cui tipo Leonardo eredita dai bassorilievi con profili all’antica, specialità del Verrocchio) una citazione diretta e precisa dall’angelo in alto a destra della Porta della Mandorla di Santa Maria del Fiore, opera di Nanni di Banco. Sicuramente il Verrocchio aveva studiato a fondo questo glorioso capolavoro del primo Quattrocento nell’elaborazione del modello, pagato nel 1477 e oggi custodito al Victoria and Albert Museum di Londra, per il Cenotafio Forteguerri, che sarà poi realizzato nel duomo di Pistoia (e a Pistoia rimanda anche una nota leonardesca del citato foglio degli Uffizi).
Agli stessi temi formali e iconografici si riallacciano due rilievi in terracotta del Louvre, raffiguranti ognuno un angelo reggimandorla: quello volto verso la propria destra è stato spesso riferito a Leonardo stesso, a partire almeno da una intuizione di Valentiner del 193031. Tale attribuzione è senza dubbio da confermare: per quanto meno risolto rispetto al gemello, questo angelo appare eccezionalmente sperimentale nella torsione del corpo, costruito su tre assi diversi per la testa, il busto e le gambe, nel tentativo di far come inghiottire il suo corpo dal fondo, che assume quasi la consistenza di una nebbia avvolgente. Richiamano poi la grammatica di Leonardo il serpeggiare animato dei panneggi e lo straordinario naturalismo delle morbidissime ali. Ma a fugare ogni dubbio, restituendoci quindi un’opera plastica che con certezza possiamo ormai riferire al Vinci, diventando pietra di paragone per ogni altra attribuzione, viene, oltre alla mobilissima sensibilità alla luce delle superfici, proprio nella stessa direzione che in pittura è perseguita dalla Madonna Benois, la considerazione che la testa sognante, il collo elegantemente piegato, e la posa del braccio destro dell’angelo, costituiscono una fulminante prefigurazione dell’angelo della seconda versione della Vergine delle rocce, dipinta, come vedremo, intorno al 1489. L’unico scultore verrocchiesco in grado di anticipare di dieci anni abbondanti una idea che Leonardo avrebbe perseguito in pittura, a Milano, era Leonardo stesso32.
Devo ammettere che è entrata in crisi la mia convinzione che spetti a Leonardo in persona, piuttosto che a un Lorenzo di Credi al massimo delle sue possibilità, la piccola Annunciazione del Louvre, probabile parte di predella della pala oggi nel duomo di Pistoia, commissionata al Verrocchio nel 1478 e dipinta quasi interamente dal Credi entro il 1485. Le due figure si impongono con indubbia autorità nel limitato spazio della tavoletta, e i panneggi cadono con morbidezza forse insolita per Lorenzo, ma i colori non possiedono la duttile trasparenza di quelli vinciani, né le espressioni alquanto fisse la sua capacità di esprimere le emozioni anche riposte; senza considerare una certa genericità nella raffigurazione della vegetazione, già segnalata da D.A. Brown (1998). A margine va osservato che la tavoletta parigina si dovrebbe accompagnare con quella, sicuramente di Lorenzo, raffigurante San Donato e il gabelliere del Worcester Art Museum, di identica altezza e di larghezza inferiore perché tagliata ai lati (come mi comunica Vincent Delieuvin): sul piano dell’iconografia, è importante notare che il santo di Worcester ha esattamente gli stessi tratti di quello di Pistoia.
Il rovello manifestato da Leonardo nel rilievo del Louvre, risalente pertanto al 1478 circa, si rinnova in altri lavori che fanno capo a questo momento: a esempio nel bellissimo foglio di Windsor (12276r). Lo schizzo centrale mostra una Madonna (forse in rapporto con una delle «Vergine Marie» iniziate nel tardo 1478), il cui busto è quasi una speculare immagine della Benois, che si volge alternativamente verso il Bambino che sta allattando o verso il vuoto, in un’aria di malinconica sospensione; la parte inferiore del corpo, tracciata con pochi segni, indica una rotazione di notevole effetto; in basso compare il piccolo Battista, in una posa che occuperà a lungo la fantasia di Leonardo.
La complessa posa della Madonna abbozzata su questo foglio di Windsor rivela concettualmente molti punti di contatto con il celeberrimo angelo che Leonardo aggiunse, insieme al paesaggio di sinistra e a diverse altre riprese, nel Battesimo di Cristo del Verrocchio, già in San Salvi a Firenze e oggi agli Uffizi (cat. 8). Ritenuto da Vasari l’esordio folgorante del giovane pittore, questo intervento leonardesco su un quadro più vecchio, rimasto in bottega per lungo tempo, è oggi riferito a un momento più maturo del suo percorso: la complessa posa triassiale e la nuova ipersensibilità melanconica staccano quest’angelo dalla Ginevra Benci, che compie appena i primi passi sulla strada del dominio spaziale, mentre sono del tutto consentanee all’angelo fittile del Louvre, con cui condivide una cronologia alla fine dell’ottavo decennio, 1478-1480 circa (meglio forse il pri- mo termine). Quanto alla conduzione pittorica con cui Leonardo ammorbidisce e ammoderna la scabra pittura verrocchiesca, essa costituisce il punto d’arrivo della competizione con la pittura fiamminga (e forse anche con i culmini dell’arte di Piero Pollaiolo, il citato Martirio di san Sebastiano del 1475 circa, già nella cappella Pucci alla Santissima Annunziata, ora alla National Gallery di Londra, e il minuscolo Apollo e Dafne, anch’esso alla National Gallery di Londra): difficile andare oltre il paesaggio tremolante, fatto d’aria e di vernici colorate soprammesse a velature, e l’acqua del Giordano che scorre scintillante a bagnare le gambe di Cristo, il cui corpo perde in secchezza nervosa e si intenerisce fin quasi alla cedevolezza.
Da adesso Leonardo, ormai autonomo, esplorerà nuove strade; mentre il Verrocchio si circonderà di qualche altro pittore a sua volta specializzato in tali tremolanti lucentezze, e talvolta scambiato per Leonardo stesso. È il caso della Adorazione della National Gallery di Edimburgo (dovuta allo stesso collaboratore, un tempo identificato in Botticelli, intervenuto nell’angelo a fianco di quello leonardesco nel Battesimo di Cristo) e del paesaggio nelle due tavole del museo Jacquemart-André di Parigi, raffiguranti forse la battaglia di Pidna e il trionfo di Lucio Emilio Paolo33.
L’Adorazione dei Magi
Sul sopra richiamato foglio 12276r di Windsor, accanto al gruppo sacro, vediamo numerosi profili umani, alquanto banali, e altri, più interessanti, di un leone e di un drago affrontati, la cui lotta Leonardo disegnò anche in altri studi databili intorno al 1480; nonché, in alto a destra, un piccolo nudo maschile basato sulla figura di uno scudiere nel secondo piano del Martirio di san Sebastiano di Piero Pollaiolo, opera che evidentemente Leonardo studiò con particolare amore. Non si tratta d’altronde dell’unico prestito da questo dipinto: la soluzione del monticello semisferico che separa il primo piano dallo sfondo sarà adottata dal Vinci nella Adorazione dei Magi, mentre il bassorilievo con scena di battaglia che adorna l’arco di trionfo diroccato sulla sinistra si riaffaccerà alla mente del maestro all’epoca della Battaglia di Anghiari. Tutti questi elementi ci riportano, direttamente o indirettamente, all’elaborazione della scena in secondo piano dell’incompiuta Adorazione dei Magi degli Uffizi (cat. 9), commissionata nel marzo 1481 per l’altar maggiore della chiesa agostiniana di San Donato a Scopeto.
Il formato pressoché quadrato non era nuovo, a Firenze, per questo soggetto: lo aveva già adottato Botticelli, e lo riprenderà Filippino Lippi nel rifare entro il marzo 1496 proprio la pala per San Donato, oggi agli Uffizi; ma radicalmente nuova è l’impostazione compositiva, che rinuncia al lussuoso seguito dei Magi sottoponendo gerarchicamente tutta l’immagine al fulcro centrale. Lo sfondo, la cui prospettiva è accuratamente studiata in un famoso disegno degli Uffizi (436 E recto), mostra la compresenza di muratori intenti a costruire un edificio, probabilmente un tempio, e una selvaggia zuffa di soldati a cavallo, ispirata a modelli di scultura classica. Emerge per la prima volta in un dipinto la giustapposizione di due elementi che letteralmente ossessioneranno Leonardo d’ora in poi: l’organizzazione del lavoro collettivo, con uomini spesso ridotti nei suoi schizzi a brulicanti formiche meccanizzate (esemplare, ma non certo isolato, il foglio 12647 della Royal Library di Windsor, risalente al 1485-1487 circa), e l’esplosione della violenza incontrollata, così umana come naturale. Il primo piano è dominato dal gruppo senza tempo della Madonna col Bambino, che rielabora studi risalenti a una delle «due Vergine Marie» iniziate nel tardo 1478, in cui il Bambino stringeva a sé un gatto (si vedano in particolare i disegni: 1856-6-21-1, recto e verso, del British Museum e 152 del Musée Bonnat a Bayonne)34; intorno si dispone un anfiteatro di uomini e angeli colti nelle più varie attitudini, con il mago inginocchiato in primo piano a sinistra parente stretto dell’angelo nel Battesimo di Cristo. Non è facile spiegare questa improvvisa fuga in avanti – nella composizione, nella ricchezza di riferimenti classici, nell’esasperato patetismo – da parte di un seguace del Verrocchio specializzato sin qui in virtuosismi nel voltare dei panni e in un lenticolare luminismo parafiammingo. Si è suggerita l’eventualità di un suo viaggio a Roma alla scoperta delle «anticaglie», ma, pur senza escludere a priori l’ipotesi, basterà forse la notizia del cosiddetto Anonimo Gaddiano, altra fonte fiorentina cinquecentesca, e di Vasari, secondo cui egli frequentò anche il celebre Giardino di San Marco. Esso era il luogo di raccolta delle sculture antiche possedute dai Medici, che sarà poi fondamentale per il giovane Michelangelo, e in cui, tramite lo scultore Bertoldo di Giovanni che ne era il custode, Leonardo poté entrare in approfondito contatto non solo con la statuaria classica, ma anche con il lato più patetico della produzione di Donatello ed essere spinto a una nuova meditazione su opere di quest’ultimo, come il rilievo con san Giorgio che libera la principessa in Orsanmichele, ora al Bargello, del 1417 circa. Del resto lo stesso Verrocchio, nelle sue sculture degli anni Ottanta, utilizza spesso – lo abbiamo visto nella Resurrezione per Careggi – il pedale espressionista.
Ci vorranno quasi vent’anni a Leonardo per conquistare, con il Cenacolo terminato nel 1497, un linguaggio coloristico e monumentale in grado di gestire simili composizioni; e anche ammettendo che solo dopo che Filippino Lippi consegnò, il 29 marzo 1496, la pala sostitutiva di quella vinciana, l’Adorazione dei Magi abbia potuto cominciare a essere studiata dagli artisti fiorentini, dobbiamo riconoscere che soltanto a inizio Cinquecento essa diventò effettivamente comprensibile. Ciò avvenne tra Piero di Cosimo, Fra Bartolomeo e Raffaello, che ne riutilizzò la cellula compositiva nella Disputa del Sacramento e nella Scuola d’Atene, affrescate nella Stanza della Segnatura in Vaticano, e riprese quasi alla lettera la posa della Vergine nella sua Madonna di Foligno35. Una invenzione già cinquecentesca (non sospettabile dai disegni preparatori rimasti, distantissimi per novità e intensità) calata, come l’evangelico vino nuovo nelle botti vecchie, in una forma ancora quattrocentesca: un cortocircuito che più del trasferimento di Leonardo a Milano spiega l’incompiutezza dell’opera. Se infatti provassimo idealmente a completare lo straordinario abbozzo con la pelle pittorica dell’angelo del Battesimo, o della Madonna Benois, o, spingendoci persino in avanti, della prima Vergine delle rocce, avremmo pieno un fallimento, una meta mancata perché ancora troppo ambiziosa36.
Il fatto che si siano trovate tracce del pigmento bituminoso che avvolge, e talvolta ritaglia, le figure, spesso coprendo il dettagliato disegno sottostante leggibile in riflettografia, ha fatto pensare che esso sia una aggiunta tarda, dovuta a chissà quale restauro. La radicale atipicità di un simile ‘restauro’, la logica figurativa di tali aggiunte – ne risulta una sorta di finto bassorilievo, perfettamente calibrato, in cui i toni bruni che danno profondità non di rado coprono, in nome di una maggiore e già ‘moderna’ sinteticità, dettagli prolissamente aneddotici, e conferiscono un accento clamorosamente neodonatelliano a un’opera ricca invece di citazioni ghibertiane – , oltre al fatto di essere già note a un anonimo disegnatore fiorentino del Cinquecento, che copia la porzione sinistra della tavola in un disegno del Louvre, mi ha fatto piuttosto sospettare37 che tale intervento rappresenti una ripresa, dovuta a Leonardo stesso, una volta ristabilitosi a Firenze tra il 1503 e il 1505, forse su richiesta di Giovanni Benci, che quasi certamente era entrato in possesso della tavola. I primi entusiasmanti risultati del restauro in corso presso l’Opificio delle Pietre Dure, sotto la direzione di Cecilia Frosinini, e la possibilità che la ‘mobilità’ delle vernici bituminose verso gli strati sottostanti la pelle pittorica sia il frutto della stesura di beveroni in occasione di restauri seicenteschi, mi induce ora a maggior cautela circa questa ipotesi, pur mantenendola ancora nel novero delle possibilità. Tuttavia, fermo restando che le spesse masse bruno-rossastre furono indiscutibilmente stese da Leonardo, le opalescenze che balenano sulle superfici, spesso proprio a danzare sulle masse scure, già si vedono, primo dato figurativo a venir compreso in questo dipinto, nelle opere degli anni Novanta di Filippino Lippi e Piero di Cosimo, pittori tra i più attenti alla lezione di Leonardo38.
Trasferimento a Milano
Forse nel settembre del 1482 Leonardo si trasferisce a Milano, governata da Ludovico Maria Sforza detto il Moro in qualità di reggente del nipote minorenne, Gian Galeazzo Maria. Probabilmente la trasferta va letta nell’ottica della politica di ‘immagine’ perseguita dal Magnifico ‒ nello stesso momento i migliori pittori fiorentini vanno a Roma ad affrescare la Cappella Sistina –, che intratteneva eccellenti rapporti diplomatici con Ludovico.
Non si può escludere che la sostanziale inconcludenza produttiva di Leonardo cominciasse a condizionare negativamente la sua carriera. Al di là di qualche prezioso dipinto di piccole dimensioni, a trent’anni suonati egli non poteva vantare alcuna realizzazione di grande respiro e prestigio: abortita la pala per la cappella di San Bernardo in Palazzo Vecchio commissionata nel 1478, languente, almeno agli occhi del mondo, l’Adorazione dei Magi. Che nella ricca colonia direttamente o indirettamente fiorentina spedita a lavorare a Roma (Cosimo Rosselli, Perugino, Botticelli, Ghirlandaio, Signorelli, Bartolomeo della Gatta) Leonardo non compaia potrebbe leggersi come indizio di un clima ormai non favorevole. Specchio di questa situazione è il deludente bilancio, sul piano delle citazioni letterarie, del Leonardo trentenne: solo una menzione, dopo Verrocchio e accanto al Perugino, «par d’etate» ma lui solo «divin pictore», nella Cronica Rimata composta intorno al 1480 da Giovanni Santi, il padre di Raffaello. L’occasione di cambiare aria, ricominciando in una città tantodiversa pertradizione artistica, sistema politico, clima, economia, persino lingua, poteva rappresentare una opportunità da cogliere.
Nel foglio 1082r del Codice Atlantico si legge una minuta di lettera, dettata da Leonardo a un amanuense e indirizzata al «signore» Ludovico, in cui il maestro offre i propri servigi in qualità di ingegnere civile e militare, e solo dopo di pittore e scultore «in tempo di pace», proponendosi per l’incarico di realizzare un monumento equestre che da tempo il Moro aveva in animo di dedicare al padre Francesco, primo duca Sforza di Milano. Si trattava a evidenza di una impresa eminentemente politica: il Moro doveva allontanare da sé ogni sospetto di usurpare il potere, formalmente esercitato solo in reggenza, e la celebrazione del duca Francesco poteva anche ricompattare il fronte e l’orgoglio dei ‘lealisti’; a una simile esigenza l’alleato Lorenzo de’ Medici non era certo insensibile.
A Leonardo, «omo sanza lettere», come lui stesso volle polemicamente definirsi, di formazione tecnica, non poté appartenere la cultura neoplatonica delle élites intellettuali di Firenze, benché frequentando la cerchia dei Medici, dei Benci e dei Tornabuoni qualcosa ne potesse aver orecchiato; e proprio nel Ducato di Milano, dove prevaleva l’impostazione aristotelica, quindi meno spiritualista, dell’Università di Pavia, egli ritenne forse di potersi affermare in campo tecnologico prima ancora che come artista. Del resto Milano si avviava a diventare una delle città culturalmente più dinamiche d’Europa, laddove Firenze stava ormai rapidamente scivolando in una chiusura autoreferenziale che le multiformi esperienze di Filippino e la genialità pur sempre dolorosamente autistica di Piero di Cosimo non basteranno a evitare.
Il 5 aprile 1483 – prima sua attestazione certa a Milano – Leonardo riceve da parte della Scuola (cioè confraternita) della Concezione, insieme ai fratelli Ambrogio ed Evangelista de Predis, pittori legati alla corte sforzesca, l’incarico di provvedere alla decorazione pittorica dell’ancona destinata alla omonima cappella in San Francesco Grande. Si trattava di dorare una grande ancona lignea, quasi certamente a due registri, consegnata nel 1481 dallo scultore Giacomo del Maino, e arricchirla di tavole raffiguranti una «Nostra Donna con lo suo fiollo» e quattro angeli per parte vestiti alla greca, «uno quadro che cantino e l’altro che sonino». La ricca documentazione d’archivio su questa commissione, che tra pagamenti, proteste, arbitrati, giunge fino al 1508, è complessa e di difficile interpretazione. Leonardo dipinse due versioni del soggetto comunemente noto come Vergine delle rocce, la prima oggi al Louvre e la seconda, più tarda, alla National Gallery di Londra, l’unica che accertatamente sia stata collocata sull’altare della cappella della Concezione. Di solito si ritiene che l’esemplare londinese sia stato eseguito in sostituzione di quello parigino, rifiutato per ragioni oscure o misteriosamente alienato, con conseguenti, bizzarre esegesi iconologiche. Di sicuro la versione del Louvre (cat. 10) è opera ancora strettamente legata a Firenze, al punto che un grandissimo esperto di Leonardo come Kenneth Clark pensava che il Vinci l’avesse dipinta in Toscana e successivamente portata a Milano. Pur nell’eccezionale qualità, la prima Vergine delle rocce rappresenta un necessario arretramento dopo il precipizio intravisto nella Adorazione dei Magi. Si avverte, nella costruzione piramidale del gruppo, la necessità di assicurarsi a una salda griglia compositiva, a partire dalla quale studiare la consistenza corporea e luministica delle figure. Come ha perfettamente inteso Roberto Longhi, «La traccia per intendere le contraddizioni mentali che sorgono in lui, successivamente, potrà indagare perché, dalla circolazione polisensa e rapidissima dell’abbozzo fiorentino dell’Adorazione dei Magi, egli si costringa alla ‘piramide magica’ della Vergine delle Rocce»39.
Ben prima che i suoi scritti affrontino il problema in modo scientifico (nel Ms. C dell’Institut de France, circa 1490), Leonardo indaga le rifrazioni di un corpo colorato su un altro entro la penombra di una caverna, con esiti di sottigliezza quasi cerebrale – forse anche deliberati virtuosismi per imporsi sulla scena pittorica milanese – nella manica trasparente dell’angelo, che si tinge delicatamente del verde del risvolto o del rosso del mantello. La scena è alquanto diversa da quanto previsto nel contratto, che prevedeva «la Nostra Donna con lo suo fiollo e angolli [angeli]», e sviluppa il tema, esplorato dal Vinci in vari disegni intorno al 1480, della Madonna dell’Umiltà, cioè seduta o inginocchiata in terra, con la presenza del piccolo Battista. Difficile però cercare qui la ragione del presunto rifiuto, tanto più che il gruppo sarà ripreso nella tavola poi effettivamente collocata sull’altare della cappella della Concezione, dopo che Leonardo aveva già abbozzato una differente Madonna in adorazione, come rivelato dai recenti esami fisici, secondo l’iconografia, cara agli immacolisti, del «quem genuit adoravit». Il fatto che questa impostazione venga abbandonata a favore di una nuova Vergine delle rocce è segno che la committenza, altro che rifiutarla, voleva proprio quella immagine.
Una diversa ipotesi è stata avanzata per prima dalla Glasser40 e viene ora ripresa con vigore e ulteriori argomenti da Alessandro Ballarin41: la Vergine delle rocce parigina sarebbe una committenza diretta da parte di Ludovico il Moro per la cappella palatina, officiata fino al 1488 dai francescani osservanti, nella chiesa tuttora esistente di San Gottardo in Corte, dietro la Corte Vecchia (attuale Palazzo Reale). Tale ricostruzione paga un elevato tasso di ipoteticità: la fonte principale è costituita da una interpretazione di quanto affermano alcune guide sei-settecentesche di Milano, secondo cui la Vergine delle rocce di Londra proverrebbe appunto da San Gottardo e da lì sarebbe stata trasferita nella chiesa di San Francesco. Ma essa presenta anche l’indubbio e notevole vantaggio di riuscire a sistemare in modo organico e non contraddittorio tutti i dati stilistici, documentari e iconografici che risulterebbe altrimenti difficile conciliare senza forzature. La presenza nella versione del Louvre di una pozza d’acqua, assente in quella di Londra, si giustificherebbe con la originaria esistenza nell’area della cappella palatina di un fonte battesimale, cui alluderebbe anche il protagonismo del piccolo Battista, indicato dall’angelo, che si attenua nella versione di Londra.
Secondo un documento recentemente pubblicato42, il 23 dicembre 1484 Leonardo e i fratelli de Predis ricevettero il pagamento di 730 lire imperiali, sostanzialmente il saldo dell’opera, che però, giusta l’ipotesi Glasser-Ballarin, non sarebbe ancora stata nemmeno dipinta, e del resto, in una supplica di inizio anni Novanta, Leonardo e Ambrogio de Predis si lamenteranno di aver ricevuto una somma sufficiente appena a coprire le spese di doratura della grande ancona lignea. I confratelli, o «scolari», della Concezione avrebbero sopportato il differimento della consegna delle tavole dipinte in quanto Leonardo era stato ritardato dall’intervento di Ludovico il Moro, al quale né lui né la confraternita potevano naturalmente opporre un rifiuto. La collocazione in una sede oltremodo esclusiva spiegherebbe anche la ricezione sorprendentemente debole e di corta gittata (sembra esaurirsi alla metà del decennio) della pala parigina sul contesto della pittura milanese, che peraltro stava vivendo un momento di grande effervescenza. La ricezione si limita dopo tutto a pochissimi pittori, particolarmente intelligenti: oltre a condizionare gli inizi del giovane Giovanni Antonio Boltraffio, precocemente attratto nell’orbita di Leonardo (Madonna col Bambino del Museo Poldi Pezzoli di Milano, 1485 circa), si potrebbero forse cogliere echi alquanto esteriori del dipinto vinciano nella testa della Maddalena a destra della piccola Deposizione (Museo di Belle Arti di Budapest) dipinta, sempre in questo momento, da Ambrogio Bergognone. Rimane, certo, la difficoltà di sapere che strada abbia preso la tavola: dono diplomatico del Moro, forse coincidente con la «tavola d’altare, dentrovi una Natività che fu mandata dal Duca a l’imperatore» ricordata da Vasari? Bottino di guerra di Luigi XII al momento della conquista di Milano nel 149943? Sappiamo solo che ricompare in un inventario delle collezioni del re di Francia steso tra il 1608 e il 1610.
Ancora legata a modelli plastici fiorentini – penso, più che alla Dama col mazzolino di Verrocchio, al serrarsi chiastico delle braccia, che ha un precedente nella Madonna in terracotta di ambito ghibertiano alla Memorial Art Gallery di Rochester – e stilisticamente vicina alla Vergine delle rocce parigina, è la cosiddetta Dama con l’ermellino (cat. 11; Cracovia, Museo Czartoryski), quasi certamente il ritratto della milanese Cecilia Gallerani, come suggerito anche dal nome greco dell’ermellino, galè. Si può ipotizzare una leggera seriorità – e quindi una data verso il 1485, al massimo 1486 – , per il primo comparire, ancora non esente da qualche forzatura, di soluzioni destinate a lunga vita nella pittura leonardesca: la più mobile caratterizzazione dell’effigiata, il gioco millimetrico di ombre primarie e secondarie, un tono cromatico appena più freddo e addensato, accentuato dal grigiazzurro della sbernia posata sulla spalla sinistra, l’introduzione dell’uniforme fondo scuro, completamente ridipinto e reso più inerte, per esaltare il rilievo del busto, l’accentuata rotazione della figura. In Lombardia lo schema compositivo fu adottato, anche in soggetti sacri, da artisti legati a Leonardo come Marco d’Oggiono, ma esso fu chiaramente imitato, poco dopo il 1505, in un ritratto, forse della marchesa Isabella d’Este, dipinto dal ferrarese Lorenzo Costa (collezioni reali di Hampton Court), pittore di corte a Mantova, il quale peraltro collaziona questo modello con quello della Belle Ferronnière, evidentemente anch’essa nota a Mantova, poi smaccatamente imitata nel bel ritratto della Currier Gallery of Art di Manchester (New Hampshire).
La critica moderna concorda nell’identificare la tavola di Cracovia con il ritratto della Gallerani chiesto in prestito da Isabella a Cecilia, per paragonarlo con uno di Giovanni Bellini, il 26 aprile 1498. Il prestito fu ovviamente concesso, e nella sua risposta la Gallerani specifica che «più voluntiera lo mandaria, quando asimigliasse a me; et non creda già la Signoria Vostra che proceda per difecto del maestro, che in vero credo non se truova a lui un paro: ma solo è per esser fatto esso ritratto in una età sì imperfecta, che io ho poi cambiata tutta quella effigie, talmente che vedere epso et me tutto insieme, non è alchuno che lo giudica esser fatto per me». Si tratta quindi di un ritratto eseguito durante la prima adolescenza, come del resto confermano il volto ancora infantile, il petto quasi completamente piatto, le forme spigolose e acerbe: oggi sappiamo che Cecilia nacque verso il 1473, e ciò sembra confermare la data proposta su base stilistica. Negli studi recenti si è in vero formata una certa compattezza nel datare il ritratto intorno al 1490, sulla base dell’identificazione con l’effigie di Cecilia dipinta da Leonardo per Ludovico il Moro, cantata dal poeta fiorentino Bernardo Bellincioni (lo incontreremo ancora), dell’ermellino come allusione all’ordine omonimo, concesso allo Sforza dal re di Napoli, Alfonso d’Aragona, nel 1488, e sul fatto che intorno a questa data sarebbe iniziata la relazione tra lo Sforza e la Gallerani.
Ballarin ha però rettificato alcune di queste cronologie, recuperando dati già editi ma sfuggiti agli studiosi vinciani, me compreso: la relazione tra Ludovico e Cecilia iniziò nel 1485 (ne scrive lui stesso al fratello cardinale Ascanio), e il Moro ricevette l’ordine dell’ermellino nel novembre 1486: quest’ultimo dato, però, che fornirebbe un post quem tale da proiettare la cronologia almeno sul 1487, rischia di spingere troppo in avanti l’esecuzione della Dama con l’ermellino, in realtà più vicina alla prima Vergine delle rocce, 1483-1484 circa, che alla seconda, 1489. La soluzione di costringere Leonardo a dipingere il ritratto entro la fine del 1486, sostanzialmente in un mese e mezzo, pare persino ingenua, e del resto forse non vale la pena di impiccarsi al presunto dato araldico, che tanti danni sta producendo alla corretta comprensione del tardo Quattrocento lombardo44. L’ermellino può altrettanto bene interpretarsi come simbolo di purezza e castità, e basti ricordare che molte edizioni illustrate quattrocentesche dei Trionfi di Petrarca fanno precedere il corteo del Triumphus Pudicitiae da una donna che porta uno stendardo con l’emblema dell’ermellino45. Se questo elemento visivo fosse stato davvero tanto importante, Bellincioni, che altrove celebra il Moro quale «italo morel, bianco ermellino», non avrebbe trascurato di menzionarlo nel suo sonetto encomiastico. Aggiungo ancora che alla fine del 1483 venne firmato un contratto matrimoniale tra i Gallerani e Stefano Visconti, rescisso nel 1487: alla data del 1485-1486 il dipinto oggi a Cracovia potrebbe anche spiegarsi come ‘ritratto matrimoniale’ restituito a Cecilia al momento del definitivo scioglimento dei progetti nuziali. Non riesco a vedere alcunché di ‘acrobatico’ (come senza ragione ritiene uno studioso di Leonardo che però non è uno storico dell’arte – e qui stiamo parlando di storia dell’arte46) in questa ricostruzione: anzi essa è rafforzata dalla constatazione che Leonardo si fece tagliare contemporaneamente due tavole, ricavate dallo stesso albero di pioppo. Una servì per la Dama con l’ermellino, mentre l’altra, che vide cambiare poi destinazione e fu utilizzata per un altro ritratto (la Belle Ferronnière, di cui parleremo tra poco) è di dimensioni leggermente maggiori e nelle intenzioni di partenza potrebbe essere stata destinata non già al ritratto dello sposo, in dittico, come inizialmente avevo pensato, ma, meglio, come coperta di ritratto – da far scorrere sulla cornice, e quindi un poco più grande – su cui dipingere, con ogni probabilità, un soggetto allegorico, che avrebbe forse richiamato l’ermellino simbolico dell’immagine principale, in una celebrazione delle virtù richieste a una sposa. Se così fosse, la Dama con l’ermellino potrebbe tranquillamente reggere una cronologia al 1485-1486, e, pur essendo un ritratto giovanilissimo di Cecilia, la sua esecuzione non avrebbe direttamente a che fare con Ludovico Sforza.
Più avanzato appare il Ritratto di musico della Pinacoteca Ambrosiana (cat. 12). A parte la potente struttura del volto – che ha fatto richiamare gli studi anatomici sullo scheletro umano, condotti da Leonardo con esiti particolarmente profondi nel 1489 ma probabilmente avviati qualche tempo prima, nei quali la calotta cranica viene analizzata in impressionanti disegni a penna precisamente come una struttura architettonica47 – colpisce qui la ben più imponente presenza fisica e spaziale dell’effigiato, reso ancor più autorevole dall’impaginazione meno ricercata ma più solenne. Non sappiamo con certezza chi sia l’effigiato; forse la vecchia ipotesi di Luca Beltrami in favore di Franchino Gaffurio, maestro di cappella del Duomo di Milano, è dopotutto ancora la più solida, anche se, grazie alle osservazioni di Marco Bizzarini48, andrà ripresa su nuove basi (si veda anche oltre), ma non stupisce che nel Seicento, coperta la mano col cartiglio musicale, il dipinto fosse ritenuto un ritratto «del duca di Milano». Il volto è fissato, come osservato da Pietro Marani49, nell’attimo preciso dell’emissione della voce: in un primo momento Leonardo aveva pensato di non dipingere la mano che regge il cartiglio, aggiunta forse per chiarire l’espressione intenta del musicista, altrimenti di difficile intelligibilità. Aveva quindi già intravisto la possibilità di esprimere i «moti mentali» senza accompagnarli con gestualità, ma il pieno successo in pittura, così come la teorizzazione, sono leggermente successivi: «Sono alcuni moti mentali sanz’el moto del corpo, et alcuni col moto del corpo. Li moti mentali senza ’l moto del corpo lasciano cadere le braccia, mani et ogn’altra parte che mostri vita»50. Il riferimento agli studi di anatomia, condotti alla fine del decennio, si lega indirettamente alla partecipazione al concorso per il progetto del tiburio del Duomo milanese, del 1487: Leonardo concepisce, negli studi scientifici e nel Musico, la calotta cranica come una struttura architettonica, mentre al contempo si presenta ai fabbriceri del Duomo con un paragone tra «il malato Domo» e l’architetto-medico51. Un’altra ragione che ci porta a datare la tavola dell’Ambrosiana non lontano dal 1487 è il serrato confronto, del tutto alla pari, che esso instaura con Bartolomeo Suardi detto Bramantino, che negli affreschi di Casa Visconti a Milano, oggi a Brera, dipinti probabilmente a partire dal 1487 su impostazione e alle dipendenze di Donato Bramante, persegue ricerche per certi versi analoghe quanto alla monumentale prestanza delle figure umane. Si spiega così anche, per Bramantino, il passaggio dal dolente e scheletrico Cristo risorto del Museo Thyssen di Madrid alla più che statuaria cubatura dell’erculeo Cristo alla colonna già a Chiaravalle (anch’esso a Brera), dipinto secondo me dal Suardi nei primi anni Novanta, forse meditando anche sulla più scorrevole luce della seconda Vergine delle rocce oltre che sulle suggestioni nordiche di Ambrogio Bergognone.
Una simile cronologia si rafforza ulteriormente considerando che una derivazione precocissima del Ritratto di musico la troviamo nel Ritratto di giovane di Brera, su cui si è ormai creato un certo consenso circa l’attribuzione al giovane Boltraffio, che porta una iscrizione tratta da Seneca, «Vita si scias uti longa est», richiamata da Leonardo in un motto scritto nel CodiceTrivulziano, circa 1487-1488: «La vita bene spesa longa è». Se sul versante figurativo la maggiore autorità, e quindi la precedenza cronologica, spetta a Leonardo, su quello letterario il rapporto dovrebbe invertirsi, consegnando il dipinto braidense al 1487 circa e ponendogli il Musico vinciano a monte. Un ulteriore dipinto riferibile a questa ‘filiera’ è il Ritratto di Gian Giacomo Trivulzio in abiti neri di Bernardino de’ Conti (collezione privata): la vedovanza esibita dall’illustre modello, come mi fa notare Marino Viganò, dovrebbe permettere di datare il dipinto ante aprile 1487, allorché il Trivulzio si sposa in seconde nozze con Beatrice d’Avalos, fornendo così un ante quem di grande importanza per il Musico di Leonardo, che a questo punto parrebbe addirittura da collocarsi, con maggior precisione, verso il 1486.
L’insistenza sulla definizione anatomica e sulla puntualizzazione del «moto mentale», svolto in chiave di maggior patetismo, si ritrova anche nell’incompiuto San Girolamo della Pinacoteca dei Musei Vaticani (cat. 13). Il gesto teatrale del santo in penitenza rielabora in senso drammatico un’idea nata per una Madonna (testimoniata dal disegno 12560 di Windsor), che oggi sappiamo corrispondere all’abbozzo poi abbandonato della seconda Vergine delle rocce e che sarà nuovamente ripensata per il Matteo del Cenacolo. Appaiono però inediti l’imponenza monumentale di questo santo a piena figura, dal possente busto arcuato, così come la consistenza densa e stagnante dei rialzi luminosi visibili sulle sue spalle. Inoltre leggiamo nel petroso paesaggio, appena abbozzato, la crescente insoddisfazione di Leonardo per la prospettiva lineare, che proprio a Milano, tra Foppa, Butinone, Zenale, Bramante e Bramantino trovava strenui e geniali cultori; bastino come esempi la Madonna del tappeto di Vincenzo Foppa (1485), affrescata per la chiesa di Santa Maria di Brera e oggi nell’omonima Pinacoteca; il polittico della chiesa di San Martino a Treviglio, eseguito tra il 1485 e il 1490 da Bernardino Butinone e Bernardo Zenale, con cornice intagliata da Giovan Pietro e Giovanni Ambrogio de Donati; l’Argo affrescato da Bramantino nella Sala del Tesoro del Castello Sforzesco, 1490 circa52.
Vediamo cioè Leonardo maturare la convinzione – o forse sarebbe meglio dire il sentimento –, propria anche dei suoi studi scientifici, del mondo come uno spazio continuo, organico e vivente, che il pittore meglio di chiunque altro può e deve comprendere e ripercorrere nei suoi processi generativi, per poi ripeterlo sia nel senso dell’imitazione fenomenica, fuori da eccessivi vincoli di schematismo (la pittura «è sola imitatrice di tutte l’opere evidenti di natura [...] la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme, aire e siti, piante, animali, erbe e fiori, le quali sono cinte d’ombra e lume. E veramente questa è scienzia e ligitima figliola di natura, perché la pittura è partorita da essa natura»53), sia in quello della nuova creazione, anche al di là dell’esistente in natura, ma secondo le stesse leggi («La deità ch’ha la scienzia del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina; imperò che con libera potestà discorre alla generazione di diverse essenzie di varii animali, piante, fiori, paesi»54).
L’attenzione per molti dei temi posti dal San Girolamo della Pinacoteca dei Musei Vaticani, quali il movimento, la comprensione profonda dell’anatomia, la capacità di penetrare sin nei pensieri dell’effigiato, accomunano la tavola a una terracotta del Victoria and Albert Museum, forse altra immagine di san Girolamo: non escluderei che essa sia in rapporto diretto col dipinto e ne costituisca una possibile prima idea, sviluppata in un modelletto tridimensionale. Lasciando perdere, come non rilevante, il parere di chi ancora si attarda su una pregiudiziale e inammissibile svalutazione estetica dell’oggetto, il dibattito vero è tra chi lo ritiene capo d’opera del Verrocchio tardo, all’altezza cronologica del Monumento Colleoni di Venezia, e chi, aderendo alla mia proposta, lo attribuisce direttamente al Vinci. Continuo a ritenere quest’ultimo nome preferibile per la integrale omogeneità di idee e di soluzioni formali col Leonardo di questi anni, e per uno scarto ‘moderno’, protocinquecentesco, nella posa e nell’espressione, che mi sembra trascendere persino le opere estreme del Verrocchio; a non considerare la perfetta compatibilità con l’angelo del Louvre su cui ci siamo già intrattenuti55.
Il tema del ritratto a mezzo busto su fondo scuro, che informa tutto il decennio, trova compiuto esito nella cosiddetta Belle Ferronnière del Louvre (cat. 14), in cui gli elementi sperimentati da Leonardo nelle precedenti prove raggiungono un equilibrio che può dirsi definitivo. La delicata torsione del busto e il suo dominio dello spazio sono resi con sovrana sprezzatura, senza il residuo sforzo nella posa della Dama con l’ermellino e la troppo programmatica ruvidezza di impianto del Musico; la partitura chiaroscurale si svolge con una organicità che le precedenti opere ancora cercavano (siamo nel periodo immediatamente antecedente al Ms. C, 1490-1491 circa, occupato in gran parte da studi di ottica e di rifrazione della luce), rivelando effetti meravigliosi come la lama di luce calda che lambisce la guancia alabastrina della donna; lo scatto, repentino quanto appena percettibile, dello sguardo dell’effigiata alla sua sinistra, è denunciato dalla stupenda coda tremolante che la luce puntiforme e bianchissima scheggia sulle pupille nel volgersi in atto degli occhi marroni, trasferendo su questo dettaglio, inteso però in senso dinamico, la scienza dei ‘lustri’ imparata a Firenze studiando la pittura fiamminga. La sospensione emotiva, mai così labile e istantanea – e qui radicalmente ‘senza mani’, come ancora il Musico non riusciva a permettersi –, ci fa entrare in un mondo di delicatezze sentimentali tipiche della ‘cultura delle corti’ di fine Quattrocento, di cui Leonardo è ormai entrato a far parte integrante. Ce ne accorgiamo anche dalla sua evoluzione letteraria, che da un greve antipetrarchismo56 giunge alla condivisione delle istanze sentimentali della cultura cortigiana57.
Per la soluzione del problema ritrattistico, quale maturato in Leonardo negli anni Ottanta, potrebbe essere stata decisiva la comparsa a Milano di un’opera di Antonello da Messina simile o identica all’Ecce Homo del Collegio Alberoni di Piacenza: che proprio in questo momento essa faccia capolino nella capitale del ducato sforzesco sembra confermarlo il fatto che anche Bramantino pare registrarne il passaggio in un dipinto pressoché contemporaneo al ritratto vinciano (il Compianto già sulla facciata di San Sepolcro e ora in Pinacoteca Ambrosiana, circa 1488-1489), enfatizzandone piuttosto la valenza patetica, esasperata nella smorfia dolorosa del san Giovanni piangente. Continuo a non ritenere improbabile che sia proprio la Belle Ferronnière il ritratto di Cecilia Gallerani dipinto da Leonardo per Ludovico il Moro, evidentemente prima delle nozze con Beatrice d’Este, avvenute all’inizio del 1491, per il quale Bellincioni, morto nel 1492, compose un sonetto, solitamente riferito alla Dama con l’ermellino, ma che può altrettanto bene adattarsi al ritratto del Louvre58. Il confronto fisionomico tra i ritratti di Cracovia e Parigi, considerando la differenza tra una giovinetta di dodici-tredici anni e una diciassettenne «bella come un fiore» (secondo la descrizione di un diplomatico ferrarese), per quanto non risolutivo, non mi sembra nemmeno frustrante59.
L’affermazione pubblica
L’accanito studio per l’impianto tridimensionale del mezzo busto è testimoniato da un disegno a punta metallica della Royal Library di Windsor (12513), in cui Leonardo fissa sul foglio ben sedici variazioni sulla posa di una giovane modella: si rivede tra le altre l’atteggiamento della Dama di Cracovia, ma ancora non la soluzione della Belle Ferronnière. Ci si avvicina di più in un altro notissimo disegno eseguito nella stessa tecnica, il 15572 D.C. della Biblioteca Reale di Torino, prossimo alla Belle Ferronnière per la capacità di accarezzare le superfici con la luce, qui resa con lumeggiature a biacca, e soprattutto per l’intermittenza sentimentale dell’espressione. Del resto si tratta evidentemente di uno studio dal vero, con davanti la medesima modella già immortalata nell’appena esaminato foglio di Windsor. Una modella assai apprezzata da Leonardo, che ne fissa il riconoscibile volto anche in un altro foglio famoso, il 2376 del Louvre, eseguito nella medesima tecnica. Il disegno di Torino è spesso considerato preparatorio per l’angelo della Vergine delle rocce; probabilmente si tratta di uno studio dal vero non immediatamente finalizzato a un dipinto, anche se somiglianze con l’angelo della versione di Londra si possono effettivamente riscontrare.
Opera straordinariamente problematica, la tavola londinese (cat. 15), già collocata intorno al 1508 in virtù di una malintesa lettura dei documenti, è stata poi anticipata all’ultimo decennio del XV secolo, e oggi da molti studiosi è posta sul 1490, sia per la coerenza interna dell’opera di Leonardo, sia per l’eco vasta che essa ebbe sui pittori milanesi degli anni Novanta, da Boltraffio, a Francesco Galli detto Francesco Napoletano, a Zenale, al cosiddetto Maestro della Pala Sforzesca, a Bramantino (sempre in modo più dialettico). Come già detto, si tratta della pala effettivamente collocata sull’altare della cappella della Concezione in San Francesco Grande. Il pagamento sopra richiamato, del 23 dicembre 1484, presenta una frammentaria continuazione in cui si legge solo un «Mediolani [...] lxxxviiii proxime», relativo quindi a una data che non può essere che il 1489. Trattandosi del frammento di una imbreviatura, cioè della copia che il notaio, nella fattispecie Pietro Pecchi, esegue per il proprio archivio personale, è ragionevole pensare che si sia trascritto, di seguito al documento principale, una appendice del 1489, che presumo sia stata stesa in occasione della consegna del dipinto, a conferma della datazione, 1490 circa, proposta da parte della critica. Quasi certamente nella seconda metà degli anni Ottanta Leonardo aveva impostato il dipinto in modo diverso, come credo dimostri il foglio del Metropolitan Museum di New York, dove studia diverse ipotesi di raffigurazione, entro una superficie centinata, della Madonna in adorazione, in un caso con la presenza del piccolo Battista. Inoltre in uno degli ultimi documenti dell’annosa vicenda, del 18 agosto 1508, si sottolineava che l’opera era ancora in alcune parti incompiuta (come è tuttora!), e siamo pertanto indotti a sospettare che, imposta dai confratelli della Schola Conceptionis la ripetizione della Vergine delle rocce, la tavola sia stata collocata, con qualche fretta, nella grande capsa lignea di Giacomo del Maino, forse in occasione della festa dell’Immacolata, l’8 dicembre, appunto del 1489.
Che comunque nella seconda metà di quell’anno il dipinto fosse in opera, o lo si desse in ogni caso per terminato, lo suggerisce, indirettamente, anche un importante documento inedito: il testamento, steso il 6 settembre 1489, di Ercole del Maino, fratellastro del celebre giurista Giasone, evidentemente uno scolaro della Concezione. Ercole ordina di essere seppellito in un monumento «cum una lapide supra cum arma mea de Mayno et nomen mey testatoris» all’altare della Concezione nella chiesa di San Francesco a Milano, lasciando ai confratelli quattro tappeti «pro uxu ipsius altaris tantum». Che Ercole si preoccupi del decoro dell’altare con una simile donazione lascia sospettare che esso ormai non necessitasse di interventi di altro genere; data la complessiva generosità del testamento non è da credere che il lascito sia stato suggerito semplicemente dal fatto che i tappeti – oggetti comunque preziosi – fossero già in sua proprietà: tanto più che il Maino vieta esplicitamente che essi possano essere venduti60 (non c’era quindi necessità di spese urgenti per la confraternita).
Non troppo cambia, tra le due versioni, nell’iconografia (scompaiono il gesto indicante dell’angelo verso san Giovanni e la pozza d’acqua, cioè le connotazioni battesimali che non avrebbero avuto senso all’interno della chiesa francescana, mentre aureole e croce di canna presenti nella tavola di Londra sono probabilmente aggiunte successive), ma tutto nello stile e nelle intenzioni. Il dorato lucore scintillante nella penombra del dipinto di Parigi lascia il posto a una diffusa luce lunare dalla consistenza oleosa, che macera letteralmente le superfici su cui si rapprende, esaltando la scala cromatica fredda e l’aria tersa: Vincenzo Foppa, che dà nella Adorazione dei Magi, oggi alla National Gallery di Londra, la sua risposta in difesa della grande tradizione lombarda, vi avrà pur riconosciuto quanto Leonardo doveva ai suoi incarnati cinerini e perlacei e ai suoi blu e grigi minerali e adamantini. Se nella prima Vergine delle rocce Leonardo dedicava uguale attenzione, memore ancora della lezione fiamminga, a ogni dettaglio, ora, e anche in questo la tavola di Londra ci appare protocinquecentesca, esiste una gerarchia visiva: le parti non primarie (per esempio le rocce, condotte in buona parte da un aiuto che potrebbe essere Marco d’Oggiono, mentre l’esecuzione accuratissima e persino estenuata del corpo del Gesù Bambino sembrerebbe riferibile a Francesco Napoletano) ricevono una definizione meno dettagliata rispetto alle infinitesimali tessiture dei sacri personaggi; l’osservatore non è più lasciato solo nella contemplazione dell’opera, ma viene per così dire guidato, secondo le proprie strategie, dal pittore.
Di fronte alla spericolata oltranza prospettica della pittura milanese, che in quel giro d’anni pubblica capolavori come il Compianto già in San Sepolcro o l’Argo del Castello Sforzesco, entrambi di Bramantino, Leonardo, come già si intuiva nell’incompiuto San Girolamo, sembra reagire per contrasto, abbandonando la prospettiva lineare come conseguenza della scoperta del peso dell’aria, che tutto unifica e pervade, che si intromette tra l’oggetto e il riguardante, ispessendone e tingendone d’azzurro la visione in lontananza. Leonardo la chiama «prospettiva aerea» o «di colore»: «come sono di 3 nature prospettive. La prima s’astende intorno alla ragione del diminuire – e dicesi prospettiva diminutiva – le cose che si allontanano dall’occhio; la seconda contiene in sé il modo del variare i colori che si allontanano dall’occhio; la terza e ultima s’astende alla dichiarazione come le cose devono essere men finite, quanto più s’allontanano; e’ nomi sono questi: prospettiva liniale, prospettiva di colore, prospettiva di spedizione»61. In questo spazio continuo, stereometrico, Leonardo espande ancor più il volume delle sue figure, che emergono monumentali e sporgono con prepotente evidenza statuaria sul proscenio, aumentando rispetto alla prima redazione l’effetto di sott’in su, condiviso anche, benché più timidamente, dalle tavole con i due angeli musicanti, esse pure a Londra, realizzate da collaboratori di Leonardo, uno dei quali, l’autore dell’angelo ‘in rosso’, è quasi certamente de Predis. Del resto la Vergine delle rocce è chiaramente pensata per essere vista dal basso, dovendo occupare lo spazio centrale del registro superiore dell’ancona. Lo si deduce sia dalla lettura dell’iniziale «lista de li ornamenti se anno a fare» del 23 aprile 1483, dove si parla due volte della «nostra dona nel mezo» (cioè nello spazio centrale), la prima riferendosi alla scultura da colorire, e la seconda alla «tavola [...] depenta in piano», ciascuna delle quali, nel suo registro, occupa appunto il ‘mezzo’; sia da una descrizione seicentesca, benché pure successiva a uno smontaggio e rimontaggio in nuova cornice dell’ancona62. Sia soprattutto dal confronto con un’altra ancona lignea dedicata all’Immacolata realizzata dallo stesso Giacomo del Maino, quella di San Maurizio a Ponte in Valtellina, in cui la statua della Madonna in adorazione occupa appunto la nicchia centrale del registro inferiore, che sembra molto prossimo a quanto possiamo immaginare dalla lettura del documento milanese. L’angelo, fratello ancor più sognante della Belle Ferronnière, obbliga a porre sullo stesso piano cronologico (1490 circa) l’abbozzo su tavola della Galleria Nazionale di Parma, noto come la Scapiliata (cat. 16): l’impercettibile eccesso di melanconia da alta società, un minimo di residua secchezza quattrocentesca nella profilatura del volto e l’uso della biacca a ottenere effetti quasi madreperlacei impediscono di riferire quest’opera al primo decennio del Cinquecento, quando l’umanità di Leonardo fiorisce in carni di respirante e dolcissima abbondanza.
E attraverso un’opera come la seconda Vergine delle rocce si spiega la capillare penetrazione nella pittura lombarda, divulgato da allievi e seguaci, del vibrare microscopico della luce su colori preziosi e delle emozioni su volti eletti. Negli anni Novanta tale diffusione è affidata – con la luminosa eccezione della Resurrezione di Cristo tra i santi Leonardo e Lucia, dipinta da Boltraffio e Marco d’Oggiono tra il 1491 e il 1495 circa per la cappella Grifi in San Giovanni sul Muro a Milano e oggi alla Gemäldegalerie di Berlino – a opere a destinazione privata, come la Madonna Litta di Boltraffio, oggi all’Ermitage, o come il piccolo Cristo fanciullo di Marco d’Oggiono (con un possibile intervento dello stesso Boltraffio nel panneggio della camiciola), al Museo Lázaro Galdiano di Madrid. Col secolo successivo il linguaggio vinciano si estenderà, perdendo qualcosa in tensione e convinzione espressiva, alle pale d’altare, non solo di questi stessi pittori, ma dei più illanguiditi leonardeschi ‘di seconda generazione’.
Se prescindiamo dalla prima versione della Vergine delle rocce, passata, quale che ne sia la ragione, quasi inosservata, la tavola di Londra è di fatto, dopo più di sette anni di permanenza in città del pittore, il primo dipinto di Leonardo a essere esposto in pubblico a Milano. La sua data, 1489 circa, coincide sostanzialmente col momento in cui inizia a farsi più consistente la frequenza del nome di Leonardo nelle opere letterarie. Per la verità, a parte il sonetto bellincioniano, dovuto comunque a uno scrittore fiorentino come lui, all’altezza del 1490 Leonardo è celebrato quasi solo come scultore incaricato di eseguire il monumento a Francesco Sforza: ed è evidente, considerando che fino a questo momento egli non ha realizzato molto più che qualche disegno difficilmente traducibile in realtà, che si tratta di lodi encomiastiche, indirizzate al committente e non all’artista, né alla sua opera in quanto tale. Ma proprio ora, dopo anni di studi privi di sbocco concreto e dopo le prime manifestazioni di non completa fiducia da parte della corte, e forse piccato dalla prefazione di Francesco Puteolano al volgarizzamento del De gestis Francisci Sphortiae di Giovanni Simonetta, pubblicato a Milano nel 1490, in cui si afferma che solo le lettere, e non pitture e statue, garantiscono la perpetua fama, Leonardo prese seriamente in mano i lavori per il monumento equestre a Francesco Sforza: «A dì 23 d’aprile 1490 cominciai questo libro e ricominciai il cavallo»63.
In quest’ottica Leonardo approfondisce lo studio delle proporzioni equine, sul monumento imperiale del Regisole allora esistente a Pavia, e soprattutto sulla natura, e delle proporzioni umane, che si giovano sia delle ricerche anatomiche condotte in questo periodo, sia di quelle sulle misure architettoniche, condotte su Vitruvio. Ne è esemplare testimonianza il celebre Uomo vitruviano delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Il fatto certifica il definitivo coinvolgimento di Leonardo nei progetti della corte, dalle ammiratissime feste per le nozze ducali alle consulenze per l’erigendo duomo di Pavia. In questo nuovo ruolo cortigiano Leonardo inventa novelle, indovinelli, ‘profezie’, avvicinandosi, come si è visto, alla moda neopetrarchesca, fino a proporsi di diventare egli stesso autore di trattati sulla pittura, l’anatomia e la meccanica. Strettamente legata a questa sua proiezione è la partecipazione a riunioni o accademie di artisti e letterati. Le sempre più frequenti menzioni letterarie di Leonardo a opera di poeti quali Lancino Curzio, Piattino Piatti, Enrico Boscano e altri64 ce lo descrivono in rapporto con questi stessi letterati e altri quali Giovanni Ambrogio Visconti, Antonio Fileremo Fregoso, artisti come Bramante e Caradosso, musicisti e nobili intellettuali.
A questo giro di frequentazioni e di idee risalgono le sette incisioni con emblemi della Academia Leonardi Vinci, poi imitate da Dürer, la cui serie completa è posseduta dalla Biblioteca Ambrosiana, unica prova incisoria certamente uscita dalla bottega di Leonardo; e forse il celebre disegno di vecchio barbuto della Biblioteca Reale di Torino, solitamente considerato un tardo autoritratto ma da porre su basi stilistiche vicino al 1490, se non addirittura poco prima – tra le primissime prove a gessetto rosso, ma ancora condotto secondo una logica grafica tipica della punta metallica –, e probabile effigie ideale del filosofo presocratico Eraclito, secondo la descrizione che poi ne darà il Fregoso nel suo Pianto di Eraclito, Milano 150765.
Da questo momento, in perfetto parallelismo, inizia anche a crescere l’autorità di Leonardo nel campo dei pittori milanesi, che lungo il decennio saranno in qualche modo costretti a prendere posizione nei confronti della sua proposta pittorica: se Foppa, Bergognone e Bernardino Butinone finiranno col sostanziale rifiuto del ‘leonardismo’, a costo di chiudersi in una nobile retroguardia, solo Bramantino, e in misura minore Bernardo Zenale, sapranno confrontarsi apertamente con le opere vinciane senza rimanerne pericolosamente soggiogati. Proprio Zenale, documentato come pittore già dal 1477, è tra i primi, peraltro, a riorientare su Leonardo la propria bussola figurativa, proponendo nel tempo una sorta di conciliazione tra la vinciana scienza dei lumi e il rigore prospettico di Bramantino che avrà grande successo. Basti osservare come, nelle Storie di sant’Ambrogio, affrescate nella cappella Grifi in San Pietro in Gessate a Milano (circa 1493-1494) in società con Butinone, Zenale ambienti le diverse scene in paesaggi unificati, rinunciando alla tradizionale divisione in riquadri, aderendo precocemente a una raccomandazione scritta da Leonardo intorno al 149066.
Intanto, dal momento che i progetti rimasti rivelano che Leonardo, per il gigantesco modello in terra destinato alla fusione, scelse infine di effigiare il cavallo al passo, e non in atto di scavalcare un nemico, abbiamo una data affidabile, entro il 1489, per un celebre disegno su carta preparata azzurra di Windsor (12538r), che mostra ancora quest’ultima soluzione, condotto nella tecnica a punta d’argento e nel modellato reso per tratteggi paralleli e destrorsi, in modo analogo, per esempio, al sopra richiamato foglio torinese con testa di fanciulla. Esso rappresenta il momento esatto – testimoniato anche dal piccolo foglio veneziano con una testa di Cristo coronata di spine – in cui Leonardo mette da parte il graffio di tradizione fiorentina, ancora sicuramente in uso nella sua bottega, anch’essa costituita non prima della fine del nono decennio, nei primi anni Novanta, quando i suoi seguaci, primo tra tutti Boltraffio, continuano a indagarne le più virtuosistiche potenzialità a favore dei gessetti usati anche per scrivere proprio in alcuni fogli del Ms. C, del 1490-1491. Con gessetti di questo genere, grigi e rossi, questi ultimi in un secondo momento anche su carta preparata rossa, con i quali ottiene effetti di più vibrante mobilità e di più volatile trapasso luministico, Leonardo esegue i disegni, di teste, mani e panneggi, che ci sono rimasti per gli apostoli del Cenacolo, conservati a Windsor, tranne quello, in cattive condizioni e non unanimemente accettato, per la testa di Cristo, custodito a Brera.
In questi studi Leonardo abbandona ogni secchezza ereditata dalla tradizione fiorentina; la forma sempre più grandiosa si intride di luce, il panneggio traspira, i volti, idealizzati sia nella bellezza classica sia nella venerabile vecchiaia (e persino nell’abiezione, in Giuda), diventano per così dire tipi assoluti. Il più antico, quasi certamente legato al Cenacolo solo in modo indiretto, è il foglio 12552 di Windsor, in cui il gessetto rosso tratteggia velocemente un musicista intento a cantare (sembrerebbe lo stesso modello del Ritratto di musico); vi si sovrappone uno studio architettonico a penna, che difficilmente può superare il 1490 (i confronti sono con analoghi studi del Ms. B), consegnando il disegno forse già alla fine degli anni Ottanta, tra le prime sperimentazioni leonardesche di questa tecnica grafica. I disegni forse più antichi tra quelli rimasti relativi ai dettagli degli apostoli sono a gessetto scuro su carta bianca (12546 e 12551 di Windsor, rispettivamente per il braccio di Pietro e il volto di Filippo). Dovrebbero essere un poco più tardi, verso il 1495 – forse dopo aver vagheggiato, nel cosiddetto Memorandum Ligny del Codice Atlantico, un contatto nel 1494 col pittore francese Jean Pérreal da cui Leonardo si propone di imparare «il modo de colorire a secco, e ‘l modo del sale bianco e fare le carte impastate [...] e la sua cassetta de’ colori»67 –, i nn. 12547, 12548, 12550 della stessa raccolta (studi per le teste di Giuda, Bartolomeo e Simone), eseguiti a matita rossa su carta preparata rossa, immagini di una umanità eroica e più che ideale. Al confronto delude, e talvolta viene considerato un falso, lo stentato studio complessivo per un’Ultima Cena delle Gallerie dell’Accademia di Venezia (n. 254), goffamente disegnato su due piani e corredato dai nomi degli apostoli. Esso può però venire forse riabilitato considerando che si tratta di un d’aprés, quasi certamente da un affresco tardogotico similissimo a quello tuttora visibile nella cappella del castello di Monticelli d’Ongina, dovuto a un pittore della stretta cerchia di Bonifacio Bembo. Forse un simile prototipo poteva richiamare l’interesse di Leonardo proprio per la presenza dei nomi degli apostoli, così da far corrispondere un’attitudine a ciascuna identità; resta comunque la possibile spia dell’interesse del Vinci, manifestato anche in altre occasioni, per l’arte del Medioevo.
La scena dell’Ultima Cena (cat. 17) occupa la parete settentrionale del refettorio di Santa Maria delle Grazie, convento dell’osservanza domenicana della cui chiesa Ludovico il Moro voleva fare il mausoleo sforzesco. Sappiamo da documenti e fonti antiche che la conclusione dei lavori dovette avvenire nella seconda metà del 1497, ma quando fu iniziato? Un’idea ancora lontana dalla soluzione definitiva si vede in un paio di schizzi a penna del foglio 12542r di Windsor, occupato anche da studi di geometria, leggermente più antichi, dedicati alla costruzione di un ottangolo e a sue possibili utilizzazioni architettoniche, che trovano gli analoghi nei Ms. B e A (1487-1490 e 1490-1492 circa), ma anche nelle idee lasciate in fogli del Codice Atlantico e del Codice Trivulziano (1487-1488 circa) legate al progetto con il quale Leonardo aveva partecipato, nel 1487-1490, al concorso per l’edificazione del tiburio del Duomo di Milano. Se pensiamo che solo nel 1488 il refettorio delle Grazie fu portato a compimento, viene da credere che la commissione a Leonardo, non documentata, ma verosimilmente voluta o almeno favorita dal Moro, sia stata non di molto successiva; o che comunque se ne cominciò a parlare abbastanza presto, probabilmente prima del 1495, anno in cui Giovanni Donato da Montorfano appose data e firma alla Crocifissione affrescata sulla parete opposta. Non mi parrebbe improbabile ritenere che, anche per velocizzare i lavori, le due pareti siano state interessate contemporaneamente, quindi verosimilmente verso il 1493-1494, dalle rispettive campagne decorative. Una conferma ci viene dalla tradizione letteraria cinquecentesca sulla lentezza di Leonardo e sull’esasperazione dei frati, non troppo motivata se il lavorò durò il tempo, abbastanza fisiologico, di un paio d’anni.
Ma ha ragione Ballarin nel sostenere che la celebre testimonianza dello scrittore Matteo Bandello, nato verso il 1484 e che intorno ai dodici anni stava compiendo i propri studi proprio nel convento delle Grazie, in cui era priore lo zio Vincenzo Bandello, secondo cui Leonardo lavorava rapsodicamente al Cenacolo, in contemporanea con la realizzazione del modello in creta del Monumento Sforza, serve forse – ma non si può escludere che l’immagine di Leonardo che abbandona il lavoro al grande modello in creta in Corte Vecchia, per andare «quando il sole è in leone» alle Grazie, possa essere un felice abbellimento dello scrittore – a prolungare nel tempo l’esecuzione di quest’ultimo ma non, purtroppo, a retrodatare l’inizio dei lavori per l’Ultima Cena. Una chiave potrebbero fornirla le bellissime lunette con stemmi entro ghirlande: la lunetta di sinistra reca la sigla di Massimiliano Sforza, primogenito legittimo del Moro, nato il 25 febbraio 1493; quella di destra le sigle di un non meglio precisato «Sforza Anglo duca di Bari», che potrebbe alludere alla non ancora avvenuta nascita del secondogenito Francesco, venuto alla luce il 4 febbraio 1495. La lunetta centrale celebra Ludovico e Beatrice duchi, anche se manca l’indicazione «Mediolani». Considerando anche che i restauri del 1979-1998 hanno rivelato che le lunette furono oggetto di una ridipintura molto antica e tecnicamente molto vicina alla stesura originale, possiamo immaginare che esse siano state sottoposte a un precoce ‘aggiornamento’; insomma non è per nulla impossibile supporre che Leonardo avesse iniziato o forse superato la fase istruttoria, e iniziato a dipingere, già verso il 1493 (e del resto alcuni appunti destinati all’Ultima Cena si trovano nel codicetto londinese Forster II, ff. 62v - 63r, che ragioni esterne68 portano a datare 1493-1494).
C’è poi da fare un’altra considerazione sulle lunette, che forse ne relativizza un poco la portata per la cronologia: sulla parete occidentale del refettorio ne è stata dipinta un’altra, rimasta priva di iscrizioni. Pertanto è possibile che esse siano state eseguite dapprima senza iscrizioni, da aggiungere via via secondo le esigenze. Difficile o impossibile, quindi, chiedere alle lunette di fornirci il post quem del Cenacolo. Per di più, importanti documenti ci dicono che Ludovico era impegnato ben prima del maggio 1495, come solitamente si afferma, a pubblicizzare la sua nuova dignità ducale su Milano; come riporta Marin Sanudo (e come ha ricordato Ballarin), Ludovico si fregia del titolo ducale già dal novembre 1494, e immediatamente si adopera per pubblicizzarlo: già il 14 gennaio 1495, infatti, egli scrive al priore della certosa di Pavia per commettergli, «cum omne presteza possibile», di far realizzare una targa marmorea per la chiesa di Santa Maria della Misericordia a Vigevano, con una iscrizione «in littere maiuscole antiche» in cui si specifichi che «Ludovicus Maria Anglus Mediolanensium Dux septimus et optimus dedicavit»69.
La grande pittura murale inaugura di fatto il Cinquecento. La dinamica messa a fuoco dei «moti mentali», il carattere classico e ideale di questi sovrumani protagonisti, l’uso sapientemente illusivo della prospettiva – qui nuovamente ricercata, peraltro con grande libertà, forse grazie alle suggestioni di Bramante e Bramantino – e della luce, considerata in relazione alle finte finestre di fondo ma anche e soprattutto a quelle vere del refettorio, che scopre le preziosità, i motivi della tovaglia, gli arazzi mille-fleures, i riflessi e le trasparenze dei bicchieri, conferendo una straordinaria evidenza fisica a cose e persone; e più di tutto la scala monumentale che perfino Michelangelo non raggiungerà che a metà della volta Sistina, sono elementi che, con maggiore o minore profondità di comprensione, parvero subito un risultato discriminante agli artisti più intelligenti. Il muoversi nello spazio e nel tempo, il danzare delle ombre e dei colori, la scala monumentale: il recente restauro condotto da Pinin Brambilla Barcilon su direzione di Carlo Bertelli, Rosalba Tardito e Pietro Marani ha, di fatto, permesso di riscrivere un intero capitolo della storia della pittura europea; il che, di nuovo, conferma che la vera importanza storica di Leonardo, disegnatore meraviglioso, sta però tutta nella pittura.
Montorfano terminò nel 1495 la sua Crocifissione, lasciando a risparmio lo spazio per una differente intonacatura su cui far dipingere, ai due lati della scena, Ludovico il Moro col figlio Massimiliano a sinistra e Beatrice d’Este col secondogenito a destra. Le fonti cinque- e seicentesche, da Vasari a Lomazzo a padre Gattico celebrano questi ritratti come opera di Leonardo; già deperitissime e poco leggibili prima della guerra, queste figure sono state quasi interamente distrutte dai bombardamenti del 1943: ne rimane quasi solo la profilatura a sinopia sull’intonaco, in verità molto rigida, e pressoché identica alle analoghe figure nella cosiddetta Pala Sforzesca, dipinta nel 1495, su commissione del Moro, per la chiesa milanese di Sant’Ambrogio ad Nemus e oggi a Brera. Non dobbiamo dimenticare che si tratta di una traccia meramente d’uso, che mai, nell’intenzione del pittore, si sarebbe dovuta vedere; ma certo senza lo sprone delle fonti letterarie non sarebbe mai venuto in mente di avanzare il nome di Leonardo. Accanto al ritratto di Ludovico, tuttavia, fino al 1943 esisteva, dipinta direttamente sull’affresco di Montorfano, una figura già evanescente di paggio moro. L’unico studioso ad aver soffermato la propria attenzione su questa figura è il dimenticato Attilio Schiaparelli70: le foto da lui pubblicate mostrano una immagine di grande plasticità e morbidezza insieme, tale da anticipare certe soluzioni cinquecentesche di Bramantino e da far venire in mente, a esempio, Cesare da Sesto. Tuttavia l’iconografia del Moro non può che riferirsi allo Sforza, circoscrivendo quindi tale intervento pittorico a date in cui il solo pittore capace di simili exploits era proprio Leonardo, che le fonti indicano attivo esattamente in quella porzione di muro.
Tra impegni a corte di ogni genere, l’unico lavoro pittorico intrapreso dal Vinci dopo il Cenacolo di cui ci sia rimasto qualcosa è la decorazione di una sala a piano terra della torre nord-est del Castello di Porta Giovia, impropriamente detta Sala delle Asse, tra il 1498 e il 1499 (cat. 18), appena prima del tracollo, nell’estate 1499, del regime sforzesco invaso dal re di Francia, Luigi XII. Assistiamo qui attoniti, benché il nostro giudizio debba basarsi più sui due frammenti monocromi recuperati dai restauri postbellici (un nuovo restauro è in corso al momento di scrivere queste pagine) che sulla volta, integralmente ridipinta a fine Ottocento, alla sconvolgente invenzione di un mondo vegetale che, pulsante e animato, quasi spaventoso, riempie le pareti annullando ogni idea di spazio misurabile, radicalizzando, dopo l’ambigua ripresa ‘prospettica’ del Cenacolo, il superamento della «costruzione legittima» già annunciato dalla seconda Vergine delle rocce e ribadito nella già citata Resurrezione di Cristo tra i santi Leonardo e Lucia di Boltraffio e Marco d’Oggiono. Nulla meno che l’inizio della storia dello ‘spazio continuo’ in pittura, che di lì a una ventina d’anni raggiungerà la sua piena realizzazione: le cupole parmensi di Correggio, la cappella del Calvario al Sacro Monte di Varallo di Gaudenzio Ferrari, la volta della cappella Malchiostro del duomo di Treviso di Pordenone, la Sala dei Giganti di Palazzo Te a Mantova di Giulio Romano. Ci rivela l’ambivalenza dell’approccio di Leonardo alla natura il confronto tra l’angoscioso vitalismo che pullula nella Sala delle Asse e gli incantevoli, rasserenati disegni, più o meno coevi, di boscaglia a matita rossa sulle due facce del foglio 12431 di Windsor, di tanto felice, ariosa luminosità.
La maniera moderna
L’invasione francese di Milano, l’effimera riconquista da parte del Moro e la sua definitiva sconfitta nella battaglia di Novara (1500), crearono una situazione di caos, oltre al senso di fine di un’epoca di equilibrio e felicità, plasticamente rappresentata dallo splendore della corte sforzesca: ne cogliamo il senso, paragonabile se si vuole a quello novecentesco della finis Austriae, in autori quali Bernardino Corio, Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione, Francesco Guicciardini, Ludovico Ariosto e altri. Leonardo, subito accostatosi ai Francesi, si indusse comunque a riparare prima a Mantova, dove nell’inverno 1499-1500 inizia un ritratto della marchesa Isabella d’Este (cat. 19), basato sulla celebre medaglia di Gian Cristoforo Romano del 1498, mai portato a compimento e il cui cartone, forse intermedio tra il primo disegno e l’ipotetico dipinto, è oggi al Louvre, e poi, brevemente, a Venezia. Qui non dipinge ma presta consulenza alla Repubblica come ingegnere militare, riguardo al contenimento delle incursioni turche in Friuli (proprio i Turcs tal Friul del giovane Pasolini), compiendo anche un sopralluogo lungo l’Isonzo. Tuttavia è probabile – lo ha notato, una volta di più, Vasari – che Leonardo possa aver immediatamente richiamato l’attenzione del giovane Giorgione, impegnato proprio in quel momento nella pala di Castelfranco, il quale guardò anche all’opera di Boltraffio, il più geniale tra i collaboratori del maestro toscano e ormai prestigioso pittore autonomo.
Dopo una ulteriore tappa a Roma e alla Villa Adriana di Tivoli, determinante, come rilevato da Marani, per un più approfondito contatto con la statuaria classica, Leonardo è nella primavera del 1501 di nuovo a Firenze, ben più famoso di quando l’aveva lasciata quasi vent’anni prima, e qui fa subito scalpore con un’opera d’arte, il cartone di una Madonna col Bambino in grembo a sant’Anna, descritto da un informatore di Isabella d’Este, il generale dei carmelitani Pietro Gavasseti da Novellara, in una lettera del 3 aprile 1501: «... uno schizo in uno cartone: finge uno Christo bambino de età cerca uno anno, che uscendo quasi de bracci ad la mamma piglia uno agnello, et pare che lo stringa. La mamma quasi levandose de grembo ad Santa Anna piglia el bambino per spicarlo dalo agnellino (animale imolatile) che significa la passione. Santa Anna, alquanto levandose da sedere, pare che voglia retenere la figliola che non spica el bambino da lo agnellino, che forsi vole figurare la chiesa che non vorrebbe fussi impedita la passione di Christo. Et sono queste figure grande al naturale ma stano in picolo cartone, perché tutte o sedeno o sono curve, et l’una stae alquanto dinanti ad l’altra verso la man sinistra...».
A evidenza si tratta di un disegno, destinato a essere poi tradotto nel dipinto oggi al Louvre; l’unica discrepanza non è già nel fatto che le figure siano poste verso sinistra, in quanto il Novellara intende evidentemente alla loro sinistra, ma semmai nella scomparsa del gesto della mano destra di sant’Anna a trattenere la Madonna, che però si vede in diverse antiche copie e derivazioni basate o sul cartone o su uno stadio intermedio del dipinto e che, come si dirà tra poco, è stato soppresso dallo stesso Leonardo. Esiste un altro cartone, o meglio disegno di grandi dimensioni, dello stesso soggetto con il Battista al posto dell’agnello, suo simbolo traslato, alla National Gallery di Londra (cat. 20) – e in mezzo corrono veloci e dinamicissimi studi in cui si esplorano entrambe le soluzioni, per esempio al Louvre, RF 460, e alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, n. 230. Difficile dire in che rapporto stiano esattamente queste due opere tra di loro (l’invenzione londinese, documenti alla mano, segue quella parigina, anche se fu solo quest’ultima a essere tradotta in dipinto): due diverse soluzioni per la stessa opera o due opere diverse? Ha forse incontrato troppa fortuna la pur suggestiva ipotesi che la commissione sia giunta a Leonardo dal re di Francia in persona per onorare la regina, Anna di Bretagna; questa congettura, che talvolta ha spinto gli studiosi fino a collocare ancora nel 1499 l’incarico – ma implausibilmente: nel mezzo delle guerre per la conquista del ducato, Luigi XII difficilmente avrà avuto tempo da dedicare alle committenze artistiche –, potrebbe valere solo nel caso in cui le due versioni fossero da pensare come eseguite in parallelo.
Quella testimoniata dal cartone di Londra quale celebrazione del governo fiorentino, che aveva nel Battista e in sant’Anna i suoi patroni, particolarmente venerati in un momento di esaltazione dei valori repubblicani (nel giorno di sant’Anna, 26 luglio del 1343, iniziò la rivolta contro il tiranno Gualtieri di Brienne a cui seguì l’instaurazione della Repubblica), e quella poi tradotta in dipinto quale omaggio della città al suo più potente alleato. Io stesso ho proposto, con qualche seguito negli studi, questa ipotesi a partire da Vasari che, basandosi sicuramente su ricordi di testimoni oculari, descrive il cartone londinese, con una differenza di dettaglio da non sopravvalutare, come oggetto di una processione dei fiorentini presso lo studio di Leonardo, durata due giorni, «come si va a le feste solenni», che potrebbe aver avuto una specifica valenza politica oltre che estetica. In realtà, seguendo Vasari e i documenti d’archivio, la soluzione è forse più semplice. Nel maggio 1498 il governo della Repubblica aveva stanziato una somma per far eseguire una pala d’altare destinata alla Sala del Consiglio Grande, di cui verrà incaricato Filippino Lippi nel giugno 1500. Tuttavia, scrive Vasari nella Vita del Lippi71, il pittore «non cominciò altramente a mettere in opera, se bene fu intagliato l’ornamento» (da Baccio d’Agnolo, che riceve pagamenti dal 1499 al 1502: la pala, essa pure rimasta incompiuta, fu poi allogata a Fra Bartolomeo e si trova oggi al Museo di San Marco72); e nella biografia di Leonardo inserisce un dato da riconsiderare: Filippino avrebbe ceduto l’incarico della pala per la Santissima Annunziata – che invece dipinse, lasciandola interrotta per la morte improvvisa, e che fu terminata dal Perugino – a Leonardo, che si fece alloggiare nel convento e non produsse altro che il cartone della sant’Anna. Preso alla lettera, il racconto vasariano è inammissibile: la pala dell’Annunciata, una Deposizione, non è iconograficamente compatibile con la sant’Anna leonardesca. Ma è vero che il Vinci alloggiava presso il convento dell’Annunziata, ed è probabile che, scrivendo per sentito dire a mezzo secolo di distanza, e ovviamente non potendo sottolineare troppo, lui cortigiano del duca Cosimo I, le vicende legate a un’opera-simbolo del defunto regime repubblicano, lo scrittore aretino abbia sovrapposto tre fatti: gli incarichi di Filippino per la signoria e per la Santissima Annunziata, l’alloggiamento di Leonardo presso questo convento e la remissione di un incarico da parte di Filippino a favore del Vinci.
Leonardo preparò due versioni della scena centrale dell’ancona, poi, tramontato l’interesse ufficiale, elesse la prima delle due a venir tradotta in dipinto di più contenute dimensioni. Il cartone alla base del dipinto parigino, lo abbiamo detto, fu ideato per primo, e rimette in circolo, ritradotti nella diversa misura monumentale del Leonardo di adesso, spunti nati tra fine anni Settanta e inizio Ottanta, tra la Madonna Benois e le idee poi confluite nella prima Vergine delle rocce; oltre a sorprendenti recuperi medievali (si confronti la parte superiore del corpo della Madonna con la fantesca della Nascita della Vergine istoriata da Nicola Pisano nel pergamo del duomo di Siena), quasi a ristabilire un contatto con la tradizione fiorentina: d’altronde proprio nei primi anni del Cinquecento si assiste a Firenze a un revival leonardesco che porta i pittori più sensibili a ristudiare anche le opere vinciane giovanili. Viceversa il cartone di Londra è strettamente legato al mondo espressivo del Cenacolo, pur in un contesto non drammatico che favorisce una definizione quasi marmorea delle figure; entrambe le soluzioni pesarono molto sull’ingresso della maniera moderna a Firenze, e ne riconosciamo le tracce in opere di Michelangelo, Raffaello, Piero di Cosimo. Lo stesso Fra Pietro da Novellara in un’altra corrispondenza racconta che Leonardo è «impacientissimo al pennello», e si limita a «metter mano» talvolta a quadri dipinti dagli assistenti, che, a eccezione di Gian Giacomo Caprotti detto Salai, non sono più quelli di Milano. Tra questi dipinti di bottega vanno annoverate le versioni di collezione privata e del duca di Buccleuch della cosiddetta Madonna dei fusi (altra composizione vista dal Novellara, che la dice eseguita per il segretario del re di Francia, Florimond Robertet, e quindi databile al 1501), in cui ci può essere la supervisione di Leonardo ma scarso o nullo sembra essere il suo intervento diretto.
Segue per Leonardo un periodo inquieto. Dopo un anno dedicato alla vita militare, al seguito di Cesare Borgia (i cui lasciti più noti e spettacolari sono la mappa di Imola e forse la veduta della Valdichiana, entrambe alla Royal Library di Windsor, rispettivamente 12284 e 12278), impressionanti per dettaglio e precisione ma anche per il senso di pulsante e organico vitalismo, Leonardo ricompare a Firenze nella primavera del 1503. Anche qui Leonardo fu coinvolto, con il sostegno di Machiavelli, in attività ingegneresche, ma in questo soggiorno matura la sua ultima, somma stagione di pittore. Possiamo solo immaginare l’effetto sconvolgente che ebbe sui contemporanei l’abbozzo di pittura murale (con cui Leonardo cercò di far rivivere la tecnica romana dell’encausto) raffigurante la Battaglia di Anghiari, vittoria ottenuta dai Fiorentini sulle truppe viscontee nel 1440, iniziata nel 1503 su incarico del gonfaloniere a vita Piero Soderini nella Sala del Gran Consiglio in Palazzo Vecchio e lasciata interrotta nel 1506, dalle numerose ma povere copie e dalle testimonianze letterarie, e più negli echi che se ne colgono, per esempio, in Piero di Cosimo, Raffaello, Pontormo, Sodoma, Gaudenzio Ferrari. Ci restano alcuni notevolissimi disegni, sia per la composizione generale (particolarmente importanti quelli delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nn. 215A, 215), sia per le teste dei guerrieri (al Museo di Belle Arti di Budapest, nn. 1774, 1775), ma basta pensare a come ci immagineremmo il Cenacolo se non ci fossero rimasti che qualche studio preparatorio e le copie, per rendersi conto di come questo caposaldo di già esasperata maniera moderna rappresenti un’assenza non colmabile del Cinquecento italiano.
L’indicazione incrociata di documenti e copie, tra cui particolarmente autorevole la cosiddetta Tavola Doria brillantemente recuperata dal Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico dei Carabinieri, conferma che Leonardo non si limitò ad approntare un cartone ma effettivamente dipinse in Palazzo Vecchio (illudersi di ritrovarne le reliquie è però, oggi come oggi, un gioco pericoloso se non scriteriato). Leonardo mise a fuoco assai presto l’episodio centrale (la lotta per lo stendardo delle truppe milanesi, conteso tra i due condottieri Gian Paolo Orsini e Niccolò Piccinino), intorno a cui avrebbe ruotato il resto, che forse non raggiunse mai nella sua mente l’ultima definizione. O che addirittura non fu realmente previsto dal maestro: il solo episodio principale, senza elementi secondari, avrebbe trasformato, o trasformò, una piccola scaramuccia, per quanto epicamente trasfigurata, nell’idea stessa della guerra in sé. Leonardo riprende un tema classico (presente anche in un cameo romano già nella collezione di Lorenzo il Magnifico), timidamente accennato, come abbiamo detto, da Piero Pollaiolo, e da lui stesso utilizzato oltre vent’anni prima, nel secondo piano della Adorazione dei Magi. Ma qui, tradotto in una scala gigantesca che dovette apparire stupefacente ai contemporanei, Leonardo trasforma il «groppo antropo-equino»73 in una sorta di moto centrifugo di incontrollata violenza che ci immaginiamo pronto a inghiottire ogni cosa intorno a sé come il centro di un vortice, quasi che la zuffa relegata sullo sfondo della Adorazione, ingrandita a dismisura, avesse scacciato il gruppo sacro da qualunque orizzonte visivo. La guerra, definita da Leonardo «pazzia bestialissima»74, fa regredire l’uomo in preda all’ira non già alla sua natura animale, ma addirittura allo stato di elemento, distruttivo come un’inondazione, una tempesta o un terremoto. In alcuni disegni collegabili a questa impresa disgraziata, interrotta dopo un rovescio tecnico (errore di Leonardo o sabotaggio: le fonti presentano entrambe le spiegazioni) e mai più ripresa nonostante le insistenze della Repubblica, insieme a poderosi cavalli imbizzarriti si vedono soluzioni per un quadro dedicato a Leda, amata da Giove e madre di Castore e Polluce e di Elena e Clitemnestra, immaginata ora in piedi ora accovacciata, con evidenti richiami alla più sensuale statuaria romana; se ne trova una imprevedibile ecfrasi nell’Oreste di Giovanni Rucellai, che si candida seriamente a esserne stato il committente75. Si tratta di un’altra opera scomparsa, nota da copie e da notevoli disegni, soprattutto per la testa, indagata in studi a penna (Windsor, The Royal Library, 12516 e 12518), ma anche per la vegetazione, in cui l’ombreggiatura, che ha ormai superato la linearità dei fogli milanesi, è ottenuta per tratteggi curvi, che aderiscono al corpo individuato enfatizzandone la rotondità ma pure un effetto di instabile mutevolezza luministica, di vibrazione ininterrotta. Accanto all’esplosione violenta della Battaglia di Anghiari – che ha un seguito nel disegno di Windsor, 12570, raffigurante Nettuno, studio per un disegno ‘da collezione’ destinato all’amico Antonio Segni, oggi perduto, in cui si legge anche l’interesse per la statuaria michelangiolesca –, Leonardo riprende, alla luce delle sue nuove acquisizioni, la corda più elegante e cortese della ritrattistica degli anni Novanta: il morbido piegarsi del collo di Leda è chiaramente uno sviluppo delle idee alla base della Scapiliata di Parma e del san Giovanni Evangelista nel Cenacolo; l’elegantissimo nudo appare invece il più esplicito omaggio di Leonardo all’arte classica: qui in particolare alla Venus Cnidia oggi alla Glyptothek di Monaco di Baviera, ma documentata a Roma, nella collezione di Prospero Santacroce, già alla fine del Quattrocento76. La fortissima connotazione classica dell’immagine di Leda non nasconde il fatto che attraverso questo tema Leonardo si accosta allo studio anche fisiologico, e non solo psicologico come a Milano, dell’universo femminile, destinato a sfociare, di lì a poco, negli straordinari studi di embriologia di cui a Windsor rimangono impressionanti esempi.
A legare entrambe le polarità, epica ed elegiaca, dello stile leonardesco di questo momento, si pone, in modo quasi didascalico, il foglio 15577r della Biblioteca Reale di Torino, in cui sulla destra si vedono alcuni studi di Leda, in basso uno schizzo di cavalcata, legato forse ad Anghiari, e al centro alcuni disegni, variamente rifiniti, di un carnefice (memore di una figura dell’altare argenteo del battistero di Firenze, raffigurante la Decollazione del Battista, eseguito dal Verrocchio nel 1477-1478 e in cui si è di recente voluto vedere l’intervento dello stesso Leonardo77), indagato sia nell’atto di menare un fendente verso il basso, sia di presentare qualcosa, che parrebbe un viluppo di capelli, con la sinistra, mentre la destra brandisce una scimitarra. Entrambi atteggiamenti adatti al boia di una Decollazione del Battista, il che farebbe pensare che in contemporanea con la Leda Leonardo stesse pensando a un dipinto dedicato al patrono di Firenze.
Ma il dipinto che Leonardo effettivamente dedicò al tema, il San Giovanni Battista a mezza figura del Louvre (cat. 22), databile proprio al 1505-1506 (anche se l’esecuzione potrebbe essersi protratta per qualche tempo ulteriore), allontana da sé ogni idea di violenza. Esso si presenta come sviluppo dinamico di un’idea nata forse per un angelo annunciante noto da alcune copie o derivazioni. Il Battista di Leonardo riprende, quindici anni dopo, il tema della figura in rotazione – qui particolarmente accentuata: anche i suoi scritti di questo periodo insistono molto sull’illusione del «rilevo» come precipuo fine della pittura78– su fondo scuro: anzi questo giovane, delicatissimo busto è letteralmente immerso in un bagno di tenebra da cui emerge a fatica, concentrando l’attenzione del riguardante sul viso dallo sguardo diretto, forse per la prima volta nell’opera pittorica di Leonardo, leggermente strabico, e dall’aperto sorriso, in una tessitura poco meno che monocroma stesa a leggere velature, di una abilità persino dimostrativa nella gestione dei trapassi chiaroscurali e che, nella dorata morbidezza delle carni respiranti, rimarrà un riferimento ineludibile per Correggio. L’opera, annerita e restaurata, non si presenta oggi nelle migliori condizioni di leggibilità: ma quando essa mostrava ancora il braccio destro in potente scorcio (non goffamente parallelo al corpo, come appare oggi a seguito di una ridipintura che ne ha praticamente occultato la parte inferiore), lo sguardo meno fisso, il sorriso più morbido e meno provocante di come le riprese lo abbiano fatto diventare, una meno esagerata cascata di capelli (parte frutto di ridipinture), dovette suscitare un incanto, ma anche un’apparenza di solidità, oggi difficilmente risarcibili79.
Allo stesso ordine di problemi sembrerebbe rifarsi, sia pure dietro il velo di una iconografia arcaizzante e di uno stato di conservazione ridotto ai minimi termini, il Salvator Mundi recentemente e insperatamente ritrovato (cat. 23); la mano destra, uno dei particolari meglio leggibili, presenta una resa morbida e vibrante non distante da quella, pur più intrisa d’ombra, del San Giovanni. Pare francamente difficile accogliere l’ipotesi che la tavola sia stata commissionata nel 1499 da Luigi XII, in ben altre faccende affaccendato; le raffinate argomentazioni iconografiche addotte da Luke Syson80 a sostegno della committenza regale potrebbero senza problemi trasferirsi a questo momento, intorno o poco dopo la metà del primo decennio, al quale convengono anche i notevoli disegni preparatori per il panneggio, a matita rossa su carta preparata rossa, della Royal Library di Windsor (12524, 12525). Di fatto la tavolozza carezzevole ma minerale del Salvator Mundi è quasi la medesima della Madonna delle bilance del Louvre, capolavoro giovanile di Correggio dipinto forse per Charles d’Amboise, governatore del Ducato di Milano per conto del sovrano francese.
Nello stesso momento Leonardo inizia a confrontarsi con la figura «a lume universale», cioè all’aperto, lavorando al ritratto di Lisa del Giocondo (cat. 21): un esame attento delle fonti, compresa la recente scoperta di una nota di Agostino Vespucci datata 1503, che si è voluta indebitamente forzare, autorizza a ritenere pacifica la tradizionale identificazione della Gioconda del Louvre, almeno per la fase iniziale del dipinto81. Non si tratta di una innovazione da poco per Leonardo (chissà che non abbia influito qualche esempio che si poteva vedere a Firenze, come il Francesco Delle Opere di Pietro Perugino, 1494, oggi agli Uffizi). In un certo senso la Gioconda è un dipinto ‘doppio’: già una attenta analisi a occhio nudo (in parte anticipata da Kemp, Marani e anche da chi scrive) poteva suggerire una elaborazione lenta e ricca di cambiamenti anche profondi. Le approfondite analisi fisiche a cui la tavola è stata sottoposta hanno rivelato che in origine la modella presentava un volto meno idealizzato, sicuramente più ‘realistico’, l’abito era quello di una donna altoborghese della Firenze di primo Cinquecento (paragonabile, per esempio, alla Maddalena Doni di Raffaello, esemplata proprio sulla prima impostazione della Gioconda), e l’orizzonte, molto più basso, si concludeva probabilmente all’altezza delle piccole alture tra le quali si snoda il percorso del fiumicello a sinistra: con molto più cielo, e certamente più azzurro, su cui far campeggiare l’effigiata, proprio come la raffaellesca Maddalena Doni. Leonardo non concluse il ritratto, iniziato per certo nel 1503, al momento di lasciare Firenze nel 1506, per far ritorno a Milano (solo per pochi mesi, si pensava), e in città rimase il ricordo di quel ritratto, trasmessosi poi a Vasari; la cui virtuosistica ecfrasi, in assenza dell’originale da lui non conosciuto, sembra condotta in realtà sulla Ginevra Benci, a cui viene solo aggiunto l’attributo del ‘ghigno’82. C’è in verità chi pensa che quel ritratto fosse la Gioconda in quanto tale, chi un altro dipinto perduto senza lasciare tracce apparenti. Difficile però che un dipinto eseguito da Leonardo al culmine della fama possa essere passato del tutto inosservato e non aver lasciato dietro sé testimonianze né scritte né visive; sarei propenso oggi a ritenere che il ritratto di Lisa del Giocondo, rimasta sempre «Gioconda» nel gergo della bottega di Leonardo (come indicano alcuni documenti nei quali risulta che Salai possedeva una copia del ritratto, indicato esplicitamente come «quadro de una dona aretrata... dicto la Ioconda»), sia stato profondamente modificato e trasformato in un nuovo ritratto tra la fine del 1513 e l’inizio del 1516, peraltro mantenendo alcune parti, per esempio nel lato destro del paesaggio, non completamente risolte. Che la Gioconda sia nata a Firenze, e quindi coincida col «caput Lise» di Agostino Vespucci e con la Monna Lisa di Vasari, lo dimostra in modo definitivo, oltre alla Maddalena Doni di Raffaello, e al ritratto di giovane sorridente, identificato in Ippolito d’Este da Ballarin, del Museo di Belle Arti di Budapest, la Pentecoste dipinta da Ferrando Yañez de la Almedina, aiuto di Leonardo fino al 1505 per la Battaglia di Anghiari e quindi fonte di prima mano per la conoscenza dell’atelier vinciano a quella data, per il monumentale retablo, messo in opera a partire dal 1506, per la cattedrale di Valencia insieme a Ferrando de Llanos; vediamo in basso a destra una paesana che ha precisamente il volto, i capelli e la spalla della Gioconda ancora priva degli elementi accessori aggiunti in seguito e di cui abbiamo già parlato (mentre la Madonna ripete il volto del San Giovanni al Louvre, vincolandone la cronologia agli anni fiorentini).
Eppure, come abbiamo accennato, in seguito Leonardo sottopose il ritratto a una revisione profonda, anzi a una vera trasformazione: il volto viene ingentilito, si eleva il paesaggio, arricchendolo di quel secondo orizzonte di rocce e paludi (da legare agli studi di geologia, condotti con particolare impegno verso il 1508 e testimoniati dal Codice Leicester oggi in collezione Gates a Seattle e poi in molti disegni risalenti al 1510-1512, come i fogli numerati da 12393 a 12416 di Windsor), modificando il panneggio, che viene arricchito dei veli scuri sulla testa, intorno alle braccia e sulla spalla sinistra, intesi a mitigare la rotazione del busto a favore di una facies più solenne e monumentale. A quando risalgono tali rifacimenti? A giudicare sia dalla tecnica utilizzata, a base di quasi impalpabili sovrammissioni di velature leggerissime, sia dalla tavolozza, scurita dalle vernici ossidate sovrapposte nel tempo ma leggibile in filigrana nella copia fedelissima, e sicuramente di bottega, del Prado, recentemente restaurata, la Gioconda attuale si apparenta quasi più alla estrema Sant’Anna che al San Giovanni o al Salvator Mundi.
Gli ultimi anni
Da quanto abbiamo constatato è lecito sospettare che la Gioconda non sia un dipinto portato avanti a Milano, in cui Leonardo risiede stabilmente (tranne una breve parentesi fiorentina nel 1508) tra giugno 1506 e settembre 1513. La partenza da Firenze, per quanto inizialmente considerata solo una breve trasferta, non dovette riuscire sgradita a Leonardo: il fallimento tecnico, almeno parziale, della Battaglia di Anghiari e il favore apertamente accordato dal gonfaloniere a vita Pier Soderini a Michelangelo avevano sicuramente raffreddato l’entusiasmo con cui era stato accolto il suo ritorno in città. Il riconoscimento dell’immenso talento non è in discussione, ma si accompagna a una crescente diffidenza sulla concretezza del modus operandi dell’artista e sulle sue crescenti ambizioni intellettuali. Ce ne accorgiamo anche confrontando la fortuna letteraria di Leonardo a Firenze, che già a primissimo Cinquecento, nelle annotazioni di Agostino Vespucci o nei versi di Ugolino Verino si increspa di sfumature limitative che non incontriamo mai nei letterati milanesi, che hanno l’immagine più ‘leggera’ del Leonardo grande pittore di corte – immagine che sopravvive ancora, ben dentro il Cinquecento, in Matteo Bandello83 – oppure quella gloriosa dell’autore del Cenacolo.
Le imprese artistiche di questo secondo periodo lombardo sono costituite da «Due Nostre Donne di diversa grandezza in assai buon ponto condotte»84 che Leonardo, nella primavera del 1508, pensava di offrire a Luigi XII, una delle quali potrebbe forse aver costituito il prototipo di un tema di Madonna col Bambino molto fortunato in Lombardia nel primo decennio del Cinquecento (l’esemplare più alto tra le molte derivazioni è la Natività in Santa Maria dei Canali a Tortona), ma noto anche a Bernardino Luini, un progetto presto naufragato di tomba monumentale per Gian Giacomo Trivulzio, maresciallo di Francia ed ex governatore di Milano, e, nella trasferta toscana del 1508, una consulenza a Giovan Francesco Rustici, impegnato proprio allora nella realizzazione del gruppo bronzeo della Predica del Battista per la porta settentrionale del battistero di Firenze; per il resto, l’attenzione di Leonardo è occupata da studi di idraulica, geologia, anatomia e da progetti architettonici per Charles d’Amboise. Il 24 settembre 1513, come lui stesso annota, Leonardo parte per Roma, insieme ai suoi allievi più stretti: Salai, Gian Francesco Melzi (figlio di un nobile milanese e allievo devotissimo) e un «Fanfoia» che più volte si è proposto di identificare con Agostino Busti detto il Bambaia, grande scultore lombardo che unisce una delicatezza di forme di impronta leonardesca a un classicismo di stretta osservanza che ben si giustificherebbe con un prolungato soggiorno nell’Urbe.
L’invito gli proviene da Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo e fratello di Giovanni, che dall’anno precedente è divenuto papa col nome di Leone X. Mi pare ragionevole ed economico pensare che la ripresa, e radicale trasformazione, della Gioconda sia avvenuta in seguito alla richiesta di Giuliano de’ Medici di eseguire un ritratto «di certa donna firentina», probabilmente Isabella Gualandi, nata per la verità a Napoli, ma forse da famiglia originaria di Firenze: si veda la serrata argomentazione di Ballarin85, viziata soltanto dalla convinzione, comune del resto a gran parte degli studiosi, che il ritratto di Lisa Gherardini e quello mostrato da Leonardo a Luigi d’Aragona debbano per forza essere due quadri diversi. Penso invece che si possa ormai concordare sul fatto che il dipinto condotto tra il 1503 e il 1506 come effigie della moglie di Francesco del Giocondo sia poi stato ‘riciclato’, modificandolo, in modo tale da renderla irriconoscibile, come immagine forse di Isabella Gualandi, eseguita per ordine di Giuliano de’ Medici: la cortina fumogena lanciata da Leonardo ha funzionato così bene che ne siamo vittime ancora oggi!86 Sappiamo che Leonardo, nell’ottobre 1517, ormai ritirato nel castello di Cloux presso Amboise, mostrò al cardinale Luigi d’Aragona e al suo segretario Antonio de Beatis, che stese un preziosissimo resoconto, tre quadri: il San Giovanni, la Sant’Anna e, appunto, il ritratto eseguito per il Medici, che in altro punto del resoconto sembra identificato con la Gualanda (ma non possiamo escludere che il paragone tra un ritratto «dove è pintata ad oglio una certa signura di Lombardia di naturale assai bella [...] ma al mio iuditio non tanto come la Signora Isabella Gualanda» sia istituito tra due bellezze muliebri più che tra due dipinti). L’attimo in cui appena nasce il sorriso e in cui lo sguardo si distrae, oltre a costituire una sfida estrema per lo scrutatore dei «moti mentali», rappresenta una eccellente occasione di verifica degli studi anatomici, condotti a Firenze, su muscoli facciali. Ma non è questa, forse, la strada giusta per apprezzare correttamente la qualità eminentemente pittorica del dipinto, a pieno espressa nel fiorire di una carne respirante, le cui impercettibili variazioni di luce e di superficie sono restituite mediante la sovrapposizione di vernici variamente dosate di colore.
Dopo quest’opera mai del tutto terminata, l’attività di Leonardo come pittore si rarefà, il suo ideale sembra diventare quello di uno stile senza tempo e quasi astratto: è il caso della Sant’Anna del Louvre (cat. 24), tardo compimento (testimoniato da alcuni bellissimi disegni relativi, appartenenti alla fase tarda di Leonardo, e sicuramente ante ottobre 1517, allorché de Beatis vede i tre dipinti vinciani «perfectissimi») del cartone già eseguito nel 1501. Lavoro protratto a lungo nel tempo, sottoposto a ripensamenti, informato a una tavolozza schiarita (come rivelato dal restauro di Cinzia Pasquali, terminato nel 2012), che tanta importanza avrà non solo per Correggio, o per certe opere di Raffaello, ma anche per Cesare da Sesto, e per suo tramite si trasmetterà a gran parte della pittura lombarda cinquecentesca; le due figure femminili mostrano già qualcosa di diverso dalla Gioconda, come un eccesso di dolcezza, e però anche una materia ancora più diafana, una carne meno fisicamente corruttibile. Tutto mira a una stilizzazione perfetta: dai bellissimi sassi in basso al vello luccicante dell’agnello, dai panneggi di virtuosistico intellettualismo al paesaggio spettrale del fondo (preparato da alcuni disegni dal vero di Windsor, dal 12410 al 12413, quest’ultimo con appunto datato 1513), tra i più folli e inquietanti della pittura occidentale. A questa poesia scostante e cerebrale, ma pure poesia, Leonardo era già talvolta pervenuto in disegni che avrebbero dovuto essere schematici, dai diagrammi sul volo degli uccelli, nell’omonimo codice della Biblioteca Reale di Torino (1505 circa), allo schema a penna sul lumen cinereum nel f. 2r del Codice Leicester. E tuttavia, il retaggio di Leonardo alla storia dell’arte è ormai compiuto. Il completamento della Gioconda e della Sant’Anna, un ulteriore San Giovanni Battista (cat. 25), stavolta a figura intera, risposta non troppo convinta agli ignudi michelangioleschi della Sistina (custodito, molto ridipinto, al Louvre), mentre a Roma trionfano Raffaello e Michelangelo, ma anche Giulio Romano e Sebastiano del Piombo, appaiono fatti altissimi quanto isolati; quasi la confessione di una crisi o di una incomunicabilità con le nuove strade della ‘maniera moderna’ da parte di chi, col Cenacolo, l’aveva inaugurata (e la paralisi che colpisce Leonardo, negli ultimi anni, alla mano destra, appare quasi un crudele stigma somatico). Egli può tentare di superare la crisi solo grazie a una sempre maggiore astrazione intellettualistica che fatalmente lo allontana dalla pittura, e i cui esiti figurativi più avvincenti e inquietanti si riconoscono nei tardi disegni di Diluvi di Windsor (12376-12387), catastrofe meccanica, geologica e idraulica, declinata in linee di eleganza quasi neoverrocchiesca che accrescono l’angoscia di chi guardi in quel mondo rigoroso e perfetto, che per non derogare alle sue leggi perfette finisce per autodistruggersi.
Che lo spunto possa essere giunto a Leonardo dalle notizie arrivate a Roma di una catastrofe reale, che colpì Biasca e il bellinzonese nel settembre 1513, è ipotesi molto plausibile87. In uno di questi disegni, il 12388 di Windsor, si vedono addirittura degli scheletri animati, sicuramente dei risorti nel giorno del giudizio. Il disastro naturale diventa, conforme alle profezie diffuse, anche a stampa, in quegli anni difficili, avvisaglia della stessa fine del mondo. Che l’uomo che ha vissuto in prima linea la fine di un’epoca politica e culturale; che forse ha fatto in tempo a sentire, in Vaticano, notizie sull’eresiarca tedesco Martino Lutero; che ha vagheggiato macchine più o meno futuribili; che ha inaugurato una nuova stagione dell’arte occidentale; che proprio quell’uomo, nella sua vecchiaia, di fronte a un mondo in cui è sempre più difficile riconoscersi, si rifugi nella apocalittica popolare, trovando più rassicurante immaginare la ‘fine’ del mondo piuttosto che la sua prosecuzione su diversi e più aspri parametri, è idea non documentabile ma verosimile e umanissima. Accettando nel 1517 l’invito del nuovo re francese, Francesco I, di trasferirsi in Francia, Leonardo pensa forse di dedicare i suoi ultimi anni al riordino dei propri scritti, proposito frustrato da impegni di corte – che a noi fruttano alcuni bellissimi disegni di figurini per feste, quali, per esempio i fogli 12575, 12576 e 12577 e 12581 di Windsor, quest’ultima una sorta di evanescente apparizione quasi sul limitare dell’umana percettibilità, in atto di indicare verso un altrove di radicale alterità – e da una salute ormai declinante.
Oltre c’è solo la donazione, nel 1518, dei propri dipinti all’amato Salai, che li cede a Francesco I per una grossa somma88, e poi la morte, avvenuta il 2 maggio 1519: erede dei disegni e dei manoscritti sarà il fedele Francesco Melzi.
La fama che lo accompagnerà non sarà priva di qualche chiaroscuro, se già Castiglione, nel Cortegiano (1528, ma i dialoghi si immaginano svolti nel 1508) lamentava che «uno dei primi pittori del mondo sprezza quell’arte in cui è rarissimo, ed èssi posto a imparar filosofia», mentre Vasari, con felice espediente narrativo, inscena la conversione di Leonardo sul letto di morte (prima di spirare gloriosamente tra le braccia stesse del re), consapevole e pentito «di quanto aveva offeso Dio e gli uomini del mondo, non avendo operato nell’arte come si conveniva».
NOTE
1 Salvo diversa indicazione, i riferimenti documentari si intendono tratti da Leonardo da Vinci. I documenti e le testimonianze contemporanee, a cura di E. Villata, Milano: 1999. Le migliori biografie di Leonardo, intese in senso stretto, sono quelle di: E. Solmi, Leonardo (1452-1519), Firenze 1900 (ed. moderne Milano 1972, Milano 2013, col discutibile titolo Leonardo. Vita segreta di un genio); C. Vecce, Leonardo, Roma 1998, 2a ed. Roma 2006; Ch. Nicoll, Leonardo da Vinci. The flights of the mind, London 2004. Ma si veda anche G. Calvi, Vita di Leonardo, Brescia 1949.
2 F. Caglioti, Donatello e i Medici. Storia del David e della Giuditta, 2 voll., Firenze 2000, I, p. 297, nota 23; V. Arrighi e A. Bellinazzi, scheda n. III.15, in Leonardo da Vinci la vera immagine. Documenti e testimonianze sulla vita e sull’opera, a cura di V. Arrighi, A. Bellinazzi e E. Villata, catalogo della mostra, Firenze 2005, p. 128.
3 L. Böninger, Ein Gerichtsurteil zu einer offenen Geldschuld Leonardo da Vincis aus dem April 1481 (ASF, Mercanzia 7265), in «Mitteilungen des Kunsthistorisches Intitutes in Florenz», 44, 2000, pp. 340-341.
4 I documenti, dai quali appare che Leonardo aveva ricevuto anche l’incarico di decorare l’oriolo del convento, proseguono fino alla fine di settembre, in cui si ha l’ultima menzione quattrocentesca conosciuta di Leonardo a Firenze.
5 L. Böninger, scheda n. IV.24, in Leonardo da Vinci la vera immagine, cit., p. 140.
6 Su cui si veda, ma con molte cautele, M. Zecchini, Il Caprotti di Caprotti. Storia di un pittore che non c’è, Venezia 2013.
7 E. Villata, scheda n. IV.36, in Leonardo da Vinci la vera immagine, cit., p. 154.
8 Per gli aspetti tecnici del monumento Sforza si può vedere A. Bernardoni, Leonardo e il monumento equestre a Francesco Sforza. Storia di un’opera mai realizzata, Firenze 2007.
9 Sul rapporto tra Leonardo e i Francesi si raccomandano: L. Fagnart, Léonard de Vinci en France. Collections et collectionneurs (XV e-XVIIe siècles), Rome 2009; M. Viganò, Leonardo a Locarno. Documenti per una attribuzione del “rivellino” del castello 1507, Bellinzona 2009, sul piano più strettamente politico-militare. In una lettera a Isabella d’Este del 14 aprile 1501, Pietro da Novellara riferisce che Leonardo «se si potea spicare da la Maestà del Re di Franza senza sua disgracia, como sperava a la più longa fra meso uno», avrebbe dato la preferenza alla marchesa di Mantova su ogni altra committente. Quasi certamente però l’impiego presso Luigi XII era di natura ingegneresca e militare, non pittorica, dato che l’ambasciatore di Firenze in Francia, Francesco Pandolfini, in un dispaccio del 12 gennaio 1507 racconta che l’infatuazione del re per Leonardo come pittore è nata «da un piccol quadro suto conducto ultimamente di mano sua» (forse l’originale della Madonna dei fusi iniziata nel 1501 per Florimond Robertet, segretario del re?), segno che Luigi XII non aveva ancora avuto modo di apprezzarne le doti in questo campo.
10 In generale sulla missione a Piombino si veda Leonardo a Piombino e l’idea di città moderna tra Quattro e Cinquecento, a cura di A. Fara, Firenze 1999.
11 Archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, registro 301bis. Ringrazio Francesco Repishti per la segnalazione di questo documento, già noto a Luca Beltrami, ma di cui si era persa la corretta collocazione archivistica.
12 In particolare, nella letteratura moderna, da G. Agosti, Bambaia e il classicismo lombardo, Torino 1990.
13 J.W. Goethe, Viaggio in Italia, in Opere, a cura di L. Mazzucchetti, II, Firenze 1962, p. 856 (trad. a cura di Eugenio Zaniboni).
14 Sul tema del ‘mito di Leonardo’ si vedano almeno: J.-P. Guillerme, Tombeau de Léonard de Vinci. Le peintre et ses tableaux dans l’écriture symboliste et décadent, Lille 1981; E. Franzini, Il mito di Leonardo. Sulla fenomenologia della creazione artistica, Milano 1987; A.R. Turner, Inventing Leonardo. The anatomy of a legend, New York 1993; S. Migliore, Tra Hermes e Prometeo. Il mito di Leonardo nel decadentismo europeo, Firenze 1994.
15 G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di R. Bettarini e P. Barocchi, IV, Firenze 1976, pp. 7-8.
16 Parigi, Institut de France, Ms. G, f. 84v.
17 Il Codice Atlantico, vanto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, è una raccolta di fogli vinciani provenienti da manoscritti smembrati e da fogli sciolti, messa insieme a fine Cinquecento dallo scultore Pompeo Leoni, e donata da Luigi Arconati all’Ambrosiana nel 1626, insieme ai dodici manoscritti poi requisiti da Napoleone e oggi conservati all’Institut de France, contrassegnati dalle lettere dalla A alla M. Per le vicende dei codici vinciani il rimando obbligatorio è a Calvi 1925.
18 Marani 1999.
19 Per Filippino penso a opere della metà degli anni Ottanta, quali la Pala Rucellai, già in San Pancrazio a Firenze e oggi alla National Gallery di Londra, o la Madonna Wernher (Ranger’s House, Blackheath). Innumerevoli poi le riprese da parte di Lorenzo di Credi, per il cui tramite il tema del Bambino sgambettante giunge a Fra Bartolomeo (Madonna con Bambino del Museo Poldi Pezzoli di Milano), a Ridolfo del Ghirlandaio, alla cui cerchia risale la Madonna della Walters Art Gallery di Baltimora o a Raffaellino del Garbo (tondo del Castello Reale di Cracovia).
20 Parigi, Institut de France, Ms. A, ff. 94v, 101v.
21 Edizione 1973-1974.
22 Parigi, Institut de France, Ms. A, f. 105r.
23 J. Pope Hennessy, Catalogue of the Italian sculptures in the Victoria and Albert Museum, London 1964, I, pp. 126-127; F. Caglioti, Su Matteo Civitali scultore, in Matteo Civitali e il suo tempo. Pittori, scultori e orafi a Lucca nel tardo Quattrocento, catalogo della mostra (Lucca), Cinisello Balsamo 2004, pp. 29-77, in partic. p. 72.
24 A. Natali, La montagna sul mare (2001), in Id., Leonardo. Il giardino di delizie, Cinisello Balsamo 2002, pp. 45-73, in partic. pp. 49-55.
25 A. Politiani, Liber epigrammaton grecorum, a cura di F. Pontani, Roma 2002, p. 49. Per i Tornabuoni si veda E. Plebani, I Tornabuoni. Una famiglia fiorentina alla fine del Medioevo, Milano 2002. L’inventario dei beni dei Tornabuoni redatto nel 1497 registra, «nella camera in su la saletta de Giovannino» nel sontuoso palazzo di Firenze, «1 tavoletta dov’è l’annuntiatione de Nostra Donna dipinta», che temo però sia un azzardo supporre di identificare col dipinto del giovane Leonardo (Archivio di Stato di Firenze, Magistrato dei Pupilli avanti il Principato, 181, f. 148v; ringrazio Chiara Cassinelli per aver effettuato su mia richiesta questo controllo).
26 Parigi, Institut de France, Ms. A, f. 105r.
27 Parigi, Institut de France, Ms. A, f. 106v, 1490-1492 circa. Si capisce che, come Leonardo importa a Milano la tecnica fiorentina della punta metallica, imponendola ai suoi allievi, così cerca di impiantare le pratiche di bottega apprese dal Verrocchio a Firenze.
28 G. Vasari, Le Vite..., cit., [1568], IV, 1976, pp. 300-301: «E perché a Lorenzo piaceva fuor di modo la maniera di Lionardo, la seppe così bene imitare, che niuno fu che nella pulitezza e nel finir l’opere con diligenza l’imitasse più di lui, come si può vedere in molti disegni fatti e di stile e di penna o d’acquarello, che sono nel nostro libro; fra i quali sono alcuni ritratti da modegli di terra, acconci sopra con panno lino incerato e con terra liquida, con tanta diligenza imitate e con tanta pacienza finite, che non si può a pena credere nonché fare».
29 J. Fletcher, Bernardo Bembo and Leonardo’s portrait of Ginevra de’ Benci, in«The Burlington Magazine», CXXXI, n. 1041, 1989, pp. 811-816.
30 Si vedano a esempio Rerum vulgarium fragmenta, nn. 246 e 295.
31 W.R. Valentiner, Leonardo as a Verrocchio co-worker, in «The Art Bulletin», XXV, 1, 1930, pp. 43-59, e poi Id., On Leonardo’s relation to Verrocchio, in «The Art Quarterly», IV, 1941, pp. 3-52.
32 Può forse significare qualcosa che proprio l’angelo del Louvre sembra preso a modello, e semplificato, da Francesco di Simone Ferrucci negli analoghi del tabernacolo eucaristico in Santa Maria a Monteluce in Perugia, del 1483, più che in quelli verrocchieschi di Londra (l’opera definitiva per Pistoia verrà conclusa, proprio con la collaborazione del Ferrucci, solo nel 1488) che pur ne costituiscono il presupposto.
33 L. Bellosi, scheda n. 6, in Due collezionisti alla scoperta dell’Italia. Dipinti e sculture del museo Jacquemart-André di Parigi, a cura di A. Di Lorenzo, catalogo della mostra (Milano), Cinisello Balsamo 2002, pp. 68-71.
34 Che queste idee formali, private ovviamente del gatto divenuto incongruo, confluiscano nella Madonna col Bambino della Adorazione dei Magi mi pare indizio forte del fatto che la cosiddetta Madonna del gatto fu solo vagheggiata da Leonardo, ma in realtà mai dipinta.
35 Lo aveva notato Thiis, 1916.
36 Lo aveva già osservato, con ammirevole acutezza, J.-P. Richter, Leonardo da Vinci, London 1880 (nuova ed. London s.d., circa 1930, p. 9).
37 E. Villata, L’Adorazione dei Magi di Leonardo: riflettografie e riflessioni, in«Raccolta Vinciana», XXXII, 2007, pp. 5-42.
38 Si pensi, per Filippino, all’angelo ‘in grigio’ del Tondo Corsini nella Collezione Ente Cassa di Risparmio di Firenze, e ancor più al San Girolamo già nella Badia Fiorentina e oggi agli Uffizi, opera collocabile però già verso il 1493 e aggiornata sul Leonardo milanese, e per Piero di Cosimo, alla Madonna col Bambino delle collezioni reali di Stoccolma o alla pala della Galleria dello Spedale degli Innocenti di Firenze, 1493.
39 Longhi 1952, VIII/2, p. 2.
40 H. Glasser, Artist’s contracts of the Early Renaissance, New York 1977, pp. 332- 343.
41 Ballarin 2010, ma i primi testi ivi compresi risalgono al 1985.
42 J. Shell, G. Sironi, Un nuovo documento di pagamento per la “Vergine delle rocce” di Leonardo, in Hostinato rigore. Leonardiana in memoria di Augusto Marinoni, a cura di P.C. Marani, Milano 2000, pp. 27-31.
43 Questa seconda ipotesi sembra resa impraticabile dal fatto che, come ci rivelano i dispacci diplomatici fiorentini, Luigi XII non avrebbe preso visione di un dipinto di Leonardo prima del gennaio 1507.
44 Ne è vittima anche Bramantino, il cui percorso stilistico è condannato all’incomprensibilità fintanto che si continuerà a datare le Muse affrescate nel castello di Voghera a inizio Cinquecento, invece che entro la metà degli anni Novanta del secolo precedente, solo per la presenza degli emblemi di Luigi di Ligny, feudatario di Voghera dal 1500 al 1503, che si può però spiegare anche in altro modo, persino più convincente dal punto di vista tecnico.
45 Nell’elenco di libri posseduti da Leonardo, redatto nel f. 559r del Codice Atlantico, databile intorno al 1495, compare anche un non meglio precisato «Petrarca».
46 M. Versiero, Il dono della libertà e l’ambizione dei tiranni. L’arte della politica nel pensiero di Leonardo da Vinci, Napoli 2012, p. 274.
47 Si vedano in particolare i fogli 19057, 19058 e 19059 della Royal Library di Windsor.
48 Bizzarini 2013.
49 Marani 1999.
50 Libro di pittura, Codice Urbinate lat. 1270 nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di C. Pedretti, C. Vecce, 2 voll., Firenze 1995, n. 370. Il Libro, o Trattato della pittura è una compilazione apografa, redatta dall’allievo ed erede di Leonardo, Francesco Melzi, diversi anni dopo la morte del maestro, il cui manoscritto è custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Essa raccoglie, ordinandoli secondo uno schema forse impostato dallo stesso Leonardo, la trascrizione di svariati appunti originali di Leonardo. Il confronto tra il testo apografo e le note di cui è sopravvissuto l’originale leonardesco conferma l’estremo scrupolo di fedeltà della trascrizione melziana.
51 Codice Atlantico, f. 730r.
52 Non si sa nulla della storia del San Girolamo, sino alla (probabile, ma non sicura) comparsa, a inizio Ottocento, nella collezione romana di Angelica Kaufmann. Apparentemente di dimensione troppo ridotta per essere nato come pala d’altare (non ci sono tracce di resecatura sui bordi), esso potrebbe invece essere stato concepito come quadro ‘da stanza’, per un committente di rango oltre che molto aggiornato. Che ciò sia possibile lo dimostra, per esempio, un inventario milanese dei beni del fu Girolamo Figino, morto nel 1522, in cui tra le altre cose è censito «uno altro quadro de sancto Ieronimo grande» [il corsivo è mio]: E. Rossetti, Introduzione, in Squarci d’interni. Inventari per il Rinascimento milanese, a cura di E. Rossetti, Milano 2012, pp. 11-18, in partic. p. 15, n. 14.
53 Parigi, Institut de France, Ms. A, f. 100r, circa 1490-1492.
54 Libro di pittura, n. 68, inizio anni Novanta del Quattrocento.
55 Il San Girolamo fu acquistato nel 1861 dal neonato South Kensington Museum di Londra (in seguito Victoria and Albert Museum) dalla collezione Campana di Roma; in precedenza era appartenuto al pedagogo e patriota fiorentino Ottavio Gigli. Sappiamo che alcuni oggetti della collezione Gigli provenivano dalla raccolta del pittore e mercante anglofiorentino Ignazio Hugford (a esempio la Deposizione di Cristo del Sansovino). Sarebbe bello capire se è l’oggetto in questione il San Girolamo in terracotta, appartenuto a Hugford, e già segnalato come opera di Leonardo da M.-J. Rigollot, Catalogue de l’oeuvre de Léonard de Vinci, Paris 1849, pp. 5-6. L’altezza di quest’opera era segnalata in «environ 65 centimètres de hauteur», contro i circa 51 della scultura londinese, che però si presenta oggi priva di qualunque piedistallo ‘da esposizione’.
56 Milano, Biblioteca Trivulziana, Ms. 2162 (Codice Trivulziano, circa 1487-1488), seconda di copertina: «Se ’l Petrarcha amò si forte ’l lauro/ fu ch’ e’ gl’è bon fra la salsiccia e ’l tordo/ i’ non posso di lor giance far tesauro», claudicante terzina che imita scopertamente un sonetto del Bellincioni: «Se ’l targon ch’ è tra la salsiccia e ’l tordo/ vestito alla moresca in ballo viene», Rime, a cura di P. Fanfani, Bologna 1876, I, CLXXIX, pp. 239-240; ma sono molti i segnali dell’autorità letteraria a lungo esercitata dal Bellincioni su Leonardo.
57 «Non iscoprir se libertà t’è cara ch’ el volto mio è carcere d’amore» (Londra, Victoria and Albert Museum, Codice Forster III, f. 10v, circa 1493-1495. Il tema del volto dell’amata come «carcere» dell’innamorato è un topos per l’appunto di origine petrarchesca.
58 Bellincioni, 1492, ed. 1878, I, XLV, p. 72: «- Di che te adiri, a chi invidia hai, Natura? - / - Al Vinci che ha ritratto una tua stella,/ Cecilia, sì, bellissima oggi è quella,/ che a’ suoi begli occhi el sol par umbra oscura. -/ - L’onor è tuo, se ben con sua pictura/ la fa che par che ascolti, e non favella. Pensa: quanto sarà più viva et bella,/ più a te fia gloria in ogni età futura./ Ringratiar dunque Ludovico or poi/ et l’ingegno et la man di Leonardo/ che a’ posteri di lei voglian far parte./ Chi lei vedrà così, ben che sia tardo,/ vederla viva, dirà: Basti ad noi/ comprender or, quel che è natura et arte» (la punteggiatura è mia).
59 L’opinione più diffusa tra gli studiosi è che la Belle Ferronnière sia il ritratto di Lucrezia Crivelli cantato, in vero in modo alquanto generico, in alcuni distici latini di Antonio Tebaldeo; il guaio è che non abbiamo alcuna notizia della relazione tra il Moro e Lucrezia anteriore al 1495, data troppo avanzata per la tavola del Louvre (a non dire altro, è già nota al Ritratto maschile di Marco d’Oggiono della National Gallery di Londra, che porta la data 1494). Che poi non sempre a un testo poetico corrisponda per forza un’opera effettiva lo dimostra il bel sonetto (n. 189), dedicato per l’appunto a un ideale ritratto femminile che Leonardo avrebbe dovuto dipingere, composto da Niccolò da Correggio, cugino in primo grado della moglie del Moro, Beatrice d’Este, probabilmente anteriore al 1497, anno in cui si guastarono i suoi rapporti con lo Sforza (M.N. Covini, L’inventario del palazzo milanese di Tristano Sforza (1478), in Squarci d’interni, cit., pp. 54-55). Molto suggestiva, ma difficile da provare, anche dal punto di vista iconografico, l’idea che si tratti invece di un ritratto di Isabella d’Aragona, infelice duchessa di Milano fino all’ascesa di Ludovico al soglio ducale (Ballarin 2010).
60 «Item lego indico et sine institutione legato relinquo d. deputatis seu scholaribus scholle altaris conceptionis d. Sancte Marie constructis in dicta ecclesia Sancti Francisci nomine ipsius altaris et scholle tapedos quatuor quod de presenti habeo penes me in domo infrascripti d. Lanzaloti de Mayno et quos tapedos vollo quod teneantur pro uxu ipsius altaris tantum et nollo posse nunquam vendi ipsis deputatis seu schollaribus dandos et tradendos» (Archivio di Stato di Milano, Notarile, 3614, notaio Giovanni Antonio Cairati, 6 settembre 1489).
61 Parigi, Institut de France, Ms. A, f. 98r, 1490-1492 circa.
62 M.C. Passoni, Nuovi documenti e una proposta di ricostruzione per l’ancona della Vergine delle rocce, in «Nuovi Studi», 11, 2004-2005, pp. 177-197.
63 Parigi, Institut de France, Ms. C, f. 15v.
64 Leonardo da Vinci: la vera immagine, a cura di V. Arrighi, A. Bellinazzi, E. Villata, catalogo della mostra, Firenze 2005; J. Pederson, Henrico Boscano’s Isola Beata. New evidence for the Academia Leonardi Vinci in Renaissance Milan, in «Renaissance Studies», 22, 2008, 4, pp. 450-475.
65 Edizione moderna in Opere, a cura di G. Dilemmi, Bologna 1976, pp. 52-85.
66 Parigi, Institut de France, Ms. A, f. 96r: «Questo universale uso, il quale si fa pe’ pittori nelle faccie delle cappelle, è molto da essere ragionevolmente biasimato, imperoché fanno l’una storia in un piano col suo paese e edifizi, po’ s’alzano uno altro grado e fanno una storia e variano il punto del primo, e poi la terza e la quarta, in modo ch’una facciata si vede fatta con quattro punti, la quale è somma stultizia di simili maestri. Noi sappiàno che ‘l punto è posto a l’occhio del riguardatore della storia, e se tu volessi dire che modo ho a fare la vita d’uno santo compartita in molte storie ‘n un medesima faccia, a questa parte ti rispondo che tu debbi porre il primo piano col punto all’altezza dell’occhio de’ riguardatori d’essa storia, e in sudetto piano figura la prima storia grande, e poi diminuendo di mano in mano le figure e casamenti, in su diversi colli e pianure, farai tutto il fornimento d’essa storia e ‘l resto de la faccia in nella sua altezza, farai albori grandi a comparazione delle figure, o angeli se fussino al proposito della storia, overo uccello o nuvoli o simile cose; altrimenti non te ne impacciare, ch’ogni tua opera fia falsa».
67 Milano, Biblioteca Ambrosiana, Codice Atlantico, f. 669r. Il momento è quello della discesa di Carlo VIII, invitato proprio da Ludovico il Moro a conquistare il Regno di Napoli, sul cui trono sedeva Alfonso d’Aragona, padre della duchessa di Milano, Isabella, invisa a Ludovico che puntava ormai, abbastanza apertamente, a occupare con pieni poteri e non più solo in reggenza il Ducato di Milano. Lo stesso appunto crittografato del Codice Atlantico ci informa che Leonardo stava pensando seriamente di seguire i Francesi, e in particolare Luigi di Ligny, che poi sarà committente di Bramantino a inizio Cinquecento, fino a Napoli; negli stessi appunti si ricordano le «fochère delle Grazie», indizio che i lavori al Cenacolo erano già avviati.
68 In questi fogli Leonardo, con una freddezza che indica forse eccesso di autocontrollo in un momento di forte instabilità emotiva, elenca le spese per la «sotterratura di Caterina», quasi certamente la madre naturale, che doveva averlo raggiunto a Milano il 16 luglio 1493 (Londra, Victoria and Albert Museum, Codice Forster III, f. 88r), che pare coincidere con la «Chaterina de Florenzia» morta «annorum 60» a Milano, nella parrocchia dei Santi Nabore e Felice in Porta Vercellina il 26 giugno 1494 (Leonardo da Vinci: la vera immagine, cit., p. 149).
69 Archivio di Stato di Milano, Visconteo-Sforzesco, Registri delle missive, 192, f. 165v; si veda anche E. Villata, Leonardo alle Grazie, in Santa Maria delle Grazie. Una storia dalla fondazione a metà Cinquecento, Atti del Convegno (Milano, 22- 24 maggio 2014), a cura di S. Buganza, M. Rainini, in corso di pubblicazione.
70 A. Schiaparelli, Leonardo ritrattista, Milano 1921, p. 33: «La caduta del colore infatti ci permette ora di constatare che in origine davanti a Lodovico e alla sinistra di Massimiliano stava in piedi un paggetto moro, dal mantello negligentemente gettato sulla spalla, dalla zazzera riccioluta coperta di una berretta color porpora, dal volto intelligente ed energico. Questo piccolo moro, simbolo evidente del duca, dovette andar soppresso durante i lavori, perché né il Vasari, né il Lomazzo ne fanno menzione».
71 G. Vasari, Le Vite..., cit., III, 1971, p. 567.
72 L’iconografia, sviluppata su una linea stilistica che guarda ormai più a Raffaello che a Leonardo, presenta il gruppo della Sant’Anna metterza attorniata da vari santi. Le misure (cm 465 × 308) non sono compatibili con alcuna delle versioni leonardesche, a meno che – e credo che il confronto con Fra Bartolomeo convalidi proprio questa ipotesi – il Vinci non pensasse di collocare il gruppo di una delle due sant’Anne da lui concepite entro una monumentale, e nel caso eccezionalmente innovativa, Sacra Conversazione, quasi una dilatazione ad infinitum della pala dipinta dal Boltraffio per Gerolamo Casio a Bologna nel 1500 e oggi al Louvre; si veda anche Villata, in corso di pubblicazione.
73 Longhi 1952, VIII/2, p. 2.
74 Libro di pittura, n. 177.
75 J.A. Bertolini, Ecphrasis and dramaturgy: Leonardo’s Leda in Rucellai’s Oreste, in «Renaissance Drama», 7, 1976, pp. 151-176; J.K. Nelson, Leonardo e la reinvenzione della figura femminile: Leda, Lisa e Maria, XLVI Lettura Vinciana (22 aprile 2006), Firenze 2007.
76 P.P. Bober, R.O. Rubinstein, Renaissance artists and antique sculptures, Oxford 1986, p. 61.
77 G.M. Radke, Leonardo, student of sculpture, in Leonardo da Vinci and the art of sculpture, a cura di G.M. Radke, catalogo della mostra (Atlanta-Los Angeles), New Heaven-London 2009, pp. 15-61, in partic. pp. 49-59.
78 Libro di pittura, n. 5: «Il secondo principio della pittura è l’ombra del corpo, che per lei si finge, e de queste ombre daremo li suoi principi, e con quelli procederemo nell’insculpire la predetta superficie». Ibid., n. 412: «La prima intenzione del pittore è fare ch’una superficie piana si dimostri corpo rilevato e spiccato da esso piano; e quello ch’in tal arte più eccede gli altri, quello merita maggior laude, e questa tale investigazione, anzi corona di tal sciencia, nasce de l’ombre e lumi, o voi dire chiaro e scuro. Adonque chi fugge l’ombre fugge la gloria de l’arte appresso alli nobili ingegni, e l’acquista presso l’ignorante vulgo, li quali nulla desiderano nella pittura altro che bellezza di colori, dimenticando al tutto la bellezza e maraviglia del dimostrare di rilevo le cose piane». Ma si legga anche Ibid., n. 291: «Non si faccia muscoli con aspra difinizione, ma li dolci lumi finiscano insensibilmente nelle piacevoli e dilettevoli ombre, e di questo nasce grazia e formosità».
79 Sono oltremodo grato a Cinzia Pasquali, Vincent Delieuvin e Jean Habert che mi hanno permesso un esame ravvicinato e approfondito del San Giovanni, della Sant’Anna e della Gioconda.
80 Syson 2011.
81 Agostino Vespucci, segretario della Repubblica e amico di Machiavelli, così scrive in un incunabolo delle Epistulae ad familiares di Cicerone, stampato a Bologna nel 1447 e oggi alla Biblioteca Universitaria di Heidelberg (D 7620 qt.Inc): «Apelles pictor. Ita Leonardus Vincius facit in omnibus suis picturis, ut enim caput Lise del Giocondo et Anne matris Virginis. Videbimus quid faciet de aula magni consilii, de qua re convenit iam cum vexillifero. Octobris 1503» (Probst 2008). Va da sé che il lemma «caput», riferito tanto al ritratto di Lisa del Giocondo quanto alla Sant’Anna, che presenta figure intere, non va inteso letteralmente, come se il ritratto non fosse che un piccolo dipinto limitato al viso della modella, e quindi diverso dalla Gioconda. Vedo però che anche nella recentissima pubblicistica da grande distribuzione proprio quest’ultima è, incomprensibilmente, l’esegesi più seguita, col necessario postulato di presupporre un quadretto vinciano raffigurante la sola testa di sant’Anna, di cui non avremmo altra informazione! In realtà l’umanista Vespucci usa in queste poche righe almeno due figure retoriche, la sineddoche (caput per l’intera immagine) e climax ascendente (ritratto di donna borghese, pala d’altare ufficiale, grande affresco celebrativo).
82 «Avvenga che gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine che di continuo si veggono nel vivo, et intorno a essi erano tutti que’ rossigni lividi et i peli, che non senza grandissima sottigliezza si posson fare. Le ciglia per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti e dove più radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali. Il naso, con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo. La bocca, con quella sua sfenditura con le sue fini unite dal rosso della bocca con la incarnazione del viso, che non colori ma carne pareva veramente. Nella fontanella della gola, chi intensissimamente la guardava, vedeva battere i polsi» (G. Vasari, Le Vite..., cit., IV, 1976, pp. 30-31).
83 1554, ed. 1942-1943.
84 Milano, Biblioteca Ambrosiana, Codice Atlantico, f. 1037v.
85 Ballarin 2010, II, pp. 853-856.
86 Non ci cascò però Raffaello, che ‘rispose’ da par suo col Ritratto di donna velata (Firenze, Galleria Palatina).
87 M. Viganò, Il “diluvio di Bellinzona”. Leonardo e la “buzza di Biasca” (1513- 1515), in «Raccolta Vinciana», XXXVI (in corso di pubblicazione).
88 Jestaz 1999.