LEONARDO da Vinci
Figlio illegittimo di ser Piero da Vinci e di Caterina, nacque ad Anchiano, presso Vinci, il 15 apr. 1452, "a ore 3 di notte", come ricorda il nonno paterno, Antonio, in una "portata" al catasto di Firenze (Moeller, 1939). La madre andò poi sposa ad Antonio di Piero Buti del Vacca di Vinci, detto l'Accattabriga (Cianchi). La fede battesimale, attestata a Pistoia fino al secolo scorso (Carteggi di Cesare Guasti, in De Feo), è ora irreperibile, anche se sono ricordati in altri documenti i padrini e le madrine (Bruschi, 1997). L. risulta iscritto alla compagnia dei pittori a Firenze nel 1472 (per questo documento, e per tutte le date citate successivamente, salvo diversa indicazione, vedi Villata, 1999).
Il 9 apr. 1476, in una denuncia anonima per sodomia, si dice però che "Lionardo di ser Piero da Vinci sta con Andrea del Verrocchio" (fra i denunciati è anche un "Lionardo Tornabuoni", e in questo nome è forse da vedersi la ragione della successiva assoluzione del gruppo di sodomiti il 7 giugno 1476): ciò significa che pur essendo pittore autonomo L. continuava a esercitare presso la bottega del suo maestro anche a un'epoca così avanzata. Ma egli doveva trovarsi già da tempo nella bottega del Verrocchio: forse dalla prima metà del settimo decennio, intorno al 1460-64 (Marani, 1999, pp. 13 s.). Ser Piero si era infatti trasferito da Vinci a Firenze nei primi anni Sessanta, dato che a Firenze moriva la sua prima moglie Albiera di Giovanni Amadori, che vi fu sepolta nel 1464. Nella portata al catasto del 1469 (Villata, 1999, doc. 3) il nonno di L. dichiara infatti di abitare a Firenze col figlio, ser Piero, la sua nuova moglie, Francesca, e gli altri congiunti (fra i quali "Lionardo, figl[i]uolo di detto ser Piero non legiptimo, d'età d'anni 17"), nella metà di una casa concessa in affitto dall'arte dei mercanti a un tale Michele.
La prima opera datata da L. è il disegno di un paesaggio ora agli Uffizi (n. 8 P) iscritto "dì di S. Maria della Neve, addì 5 d'aghossto 1473", ma la critica ha da tempo messo in evidenza (Suida, 1954; Brown, 1998) come egli debba aver iniziato a collaborare col Verrocchio per i dipinti usciti dalla sua fiorente bottega databili tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio del decennio successivo.
Nel Tobia e l'angelo, tradizionalmente assegnato al solo Verrocchio (Londra, National Gallery), sono infatti ascrivibili a L. la figura del cane e il pesce tenuto da Tobia; mentre in una Madonna col Bambino e due angeli dello stesso museo è stato riconosciuto che l'inserzione di un picco roccioso a destra del paesaggio, del tutto simile a quello che appare nel disegno degli Uffizi del 1473, appartiene alla mano di L., il quale potrebbe aver eseguito anche particolari rocciosi nei paesaggi di almeno altre due Madonne attribuite al Verrocchio (Berlino, Gemäldegalerie: Marani, 1999, pp. 23-28). L. si trovava sicuramente nella bottega del Verrocchio allorché venne montata la palla di rame sulla lanterna di S. Maria del Fiore, il 27 maggio 1472 (annotazione di L. nel manoscritto G dell'Institut de France di Parigi, c. 84v, circa 1510); mentre è certa la sua collaborazione col maestro nella progettazione dello stendardo per la giostra di Giuliano de' Medici del 28 genn. 1475, raffigurante Venere e Amore, così come trasmesso dal disegno degli Uffizi, inv. 212 E (disegnato a matita dal Verrocchio e ripassato a penna e inchiostro da L.: Marani, 1989, pp. 13 s.; Brown, 1994). Mentre è ancora oggetto di verifiche la partecipazione di L. a taluni progetti scultorei del Verrocchio, come il Cenotafio per il cardinal Forteguerri (un Angelo in terracotta ora a Parigi, Louvre, bozzetto per la parte alta del Monumento Forteguerri, è stato ripetutamente attribuito a L.: Gaborit, in Viatte, 1989, p. 104), è indubbio che le realizzazioni del maestro, come la Dama col mazzolino del Museo del Bargello a Firenze e il gruppo dell'Incredulità di Tommaso per Orsanmichele, abbiano potuto esercitare un'influenza decisiva sulla visione pittorica della forma di L.: l'eco di queste opere si avverte nella tipologia del ritratto di Ginevra Benci (Washington, National Gallery of art, oggi decurtato delle mani), da datare verso il 1475 (e forse commissionato da Bernardo Bembo: Fletcher), e nel gioco delle pieghe dei panneggi che caratterizza le prime opere di devozione privata dipinte da L., come la Madonna Dreyfus (Washington, National Gallery of art: riconosciuta come opera di L. da Suida, 1929, pp. 34 s.; Previtali, fig. 3; Marani, 1989, p. 28; e Shell, 1992, pp. 14-16, ma considerata da altri opera di Lorenzo di Credi); quest'ultimo dipinto potrebbe essere datato al 1469-70 in conseguenza della presenza di L. a Venezia, al seguito del Verrocchio che lí si trovava nel 1469 (Smyth), il che spiegherebbe gli accenti belliniani del paesaggio. All'ottavo decennio deve risalire l'intervento di revisione e di completamento del Battesimo di Cristo (Firenze, Uffizi) iniziato dal Verrocchio e da un altro artista, forse Botticelli (Ragghianti; Berti), per il convento di S. Salvi a Firenze che, secondo Vasari, determinò l'abbandono della pittura da parte del Verrocchio.
Certo grazie ai buoni uffici del padre, legato all'arte della mercanzia e ai Medici, e a quelli che univano il Verrocchio a questa stessa famiglia, L. ottenne le prime commissioni pubbliche: l'Annunciazione (ora agli Uffizi, già attribuita a Domenico del Ghirlandaio) proveniente dalla chiesa di S. Bartolomeo a Monteoliveto; e la pala per la cappella di S. Bernardo in palazzo Vecchio, commissionata il 10 genn. 1478 ma abbandonata e lasciata incompiuta, sembra echeggiata nella Pala di Filippino Lippi ora agli Uffizi (inv. 1890, n. 1568) commissionata nel 1485 per la sala del Consiglio (sulla questione vedi ora Zambrano, in Zambrano - Katz Nelson, 2004), per la quale L. aveva anche ricevuto un anticipo che fu portato a suo debito nei registri dal 1494 fino al 1511 (secondo nuovi documenti ritrovati nell'Archivio di Stato di Firenze: Arrighi - Bellinazzi - Villata, in corso di stampa). Alla fine del 1478 ("[…]bre 1478 Incominciai le 2 Vergini Marie": Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe, n. 446 Er) L. iniziava due dipinti con soggetto mariano: datano infatti a quest'epoca la Madonna del garofano (Monaco, Alte Pinakothek) e la Madonna Benois (San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage); ma esistono anche studi per composizioni come la Madonna della fruttiera (Louvre, R.F. 486) o la Madonna del gatto (Uffizi, n. 421 E) databili attorno a quest'anno. Nel luglio 1481 venne allogata a L. una pala dai monaci di S. Donato a Scopeto, con l'obbligo di finirla entro due anni: l'opera, l'Adorazione dei magi, lasciata incompiuta e depositata in casa dei Benci a Firenze (poi nelle collezioni granducali e ora agli Uffizi), fu poi sostituita da un dipinto di Filippino Lippi che sembra trattenerne memoria (Natali, 1988).
Soprattutto queste due ultime commissioni potrebbero ricollegarsi all'ambiente filomediceo frequentato dal padre di L., grazie alle cui relazioni coi Medici sembrano essersi prodotte queste prime occasioni di lavoro (Cecchi, in Bambach, pp. 121-140). Ma l'Anonimo Gaddiano (in Vecce, 1998, p. 360) riferisce di rapporti, certo più antichi, dello stesso L. con Lorenzo de' Medici, ricordando come L. "stette da giovane con il magnifico Lorenzo de' Medici, et dandoli provisione per sé il faceva lavorare nel giardino sulla piaza di San Marcho a Firenze". Questa testimonianza deve riferirsi a un tempo compreso fra il 1476 (quando L. è ancora documentato col Verrocchio) e il 1478, anno di allogazione della pala di S. Bernardo, che viene dunque a spiegarsi con un'assegnazione del lavoro suggerita direttamente dal Magnifico (Elam, 1992, p. 167). La frequentazione da parte di L. del "giardino di S. Marco", già citato come esistente fin dal 1475 e descritto nel 1478, dove Lorenzo aveva raccolto marmi e sculture antichi, sarcofagi e rilievi, vasche e fontane, permise a L. di entrare per la prima volta in contatto con la scultura antica e spiega la visione classicheggiante dell'Adorazione dei magi.
Se le opere dell'ottavo decennio ancora tradivano la formazione verrocchiesca di L., l'Adorazione dei magi rivela infatti lo scarto compiutosi nella sua arte, che include rimeditazioni su Donatello, i bassorilievi e la scultura antica (Becherucci), la conoscenza delle teorie di L.B. Alberti sulla pittura di storia, e l'anticipazione, per animazione e concatenazione dei movimenti e dei gesti, dei principî cui egli si ispirerà, più tardi, nel Cenacolo (Marani, 2001, pp. 109 s.). L'Adorazione dei magi rivela inoltre l'importanza e il ruolo primario assegnato, da un lato, al disegno, inteso come parte integrante del processo creativo, ben oltre la sua funzione dinamica che L. trattiene dallo stile pollaiolesco, e, dall'altro, al chiaroscuro, visto come mezzo per raggiungere forti effetti tridimensionali e plastici, accentuati, invece che diminuiti, dall'assenza di colore.
Un'altra opera che la critica colloca abitualmente all'inizio degli anni Ottanta è il S. Gerolamo dei Musei Vaticani, i cui committenti rimangono ignoti (sono stati suggeriti i membri della Confraternita di S. Gerolamo a Firenze o i monaci benedettini della badia fiorentina: Cecchi, 1988; Pedretti, 1995, pp. 239 s.), ma che è stata anche riferita al periodo lombardo inoltrato, verso il 1490 (Suida, 1929, pp. 80-82), oppure nella sua fase iniziale, in sintonia con la prima versione della Vergine delle rocce (Bambach, pp. 370-379).
Solitamente agganciato a un ricordo di L. ("cierti San Gerolami") contenuto in un elenco compilato verso il 1482-83 (Codice Atlantico, c. 888r), che pare tuttavia registrare opere (dipinti, modelli e sculture) non sempre riferibili allo stesso L., il dipinto sembra aver avuto infatti un seguito più lombardo che fiorentino, ritrovandosene l'eco in due ben noti disegni, all'Ambrosiana (cod. F 263 inf. 96) e a Windsor (Royal Library, n. 12571: Marani, 1987, pp. 66 s.), nell'Ignudo che compare sul frontespizio delle Antiquarie prospettiche romane, già attribuite a D. Bramante e a Bramantino, e, fra l'altro, anche in un S. Gerolamo di collezione privata, di artista milanese affine a C. Magni (Pedretti, in Caroli, 2000), e in un S. Girolamo di G. Ferrari in S. Giorgio al Palazzo a Milano (Suida, 1929, pp. 98-100). Il S. Gerolamo vaticano potrebbe perciò essere stato dipinto in Lombardia nel nono decennio come risultato di una commissione da parte del monastero geronimita di S. Marino a Pavia, fondato con bolla di Sisto IV il 10 nov. 1481 (Marani, in Fiorio - Terraroli, 2003, p. 168).
L'ultima data relativa alla presenza di L. a Firenze è il 28 sett. 1481, quando egli ricevette un pagamento per la pala dell'Adorazione dei magi. In un mese imprecisato del 1482 L. si trasferì a Milano. A questa data altro non poteva vantare se non la sua provenienza dalla polivalente bottega del Verrocchio, orbitante egli stesso nella sfera filomedicea, ma entro la quale notevole era la capacità di provvedere ai vari problemi posti dalla fusione di grandi pezzi di scultura. Il Verrocchio si era infatti assicurato, tra il luglio 1481 e il maggio 1483, dalla Repubblica veneta, la commissione di un grande monumento bronzeo a Bartolomeo Colleoni e la prospettiva di queste commissioni nel Nord poté forse contribuire a far crescere le aspettative del non più giovanissimo L. (ormai trentenne) verso il Ducato di Milano, alleato tradizionale di Firenze in contrapposizione e antagonismo con Venezia. L'Anonimo Gaddiano, verso il 1540 (Vecce, 1998, p. 360), dice infatti che egli fu inviato da Lorenzo a Ludovico Sforza detto il Moro, con Atalante Migliorotti, come esperto suonatore di "lira all'improvviso".
Questa tradizione sembra contenere una parte di verità se si riflette sul fatto che il più antico ritratto conosciuto eseguito da L. in Lombardia, il Ritrattodimusico, ora all'Ambrosiana, pieno di echi antonelleschi e fiamminghi, raffigura proprio Atalante Migliorotti, del cui "ritratto" L. prendeva nota nel celebre promemoria del Codice Atlantico (c. 888r, ex 324r), nel momento in cui stava per trasferirsi a Milano: "Una testa ritratta d'Atalante che alzava il volto". E questo, oltre alle successive prove fornite da L. in campo musicale e scenografico (Marani, 1999, pp. 160-166).
Ragioni politiche e, forse più verosimilmente, militari potrebbero celarsi dietro questo trasferimento. È stato suggerito di recente che un ruolo di spicco possa essere stato giocato da Bernardo Rucellai, cognato del Magnifico e oratore mediceo a Milano. Questo riporterebbe i preliminari dello spostamento di L. a Milano a un periodo compreso tra il febbraio 1482 e la fine del febbraio dell'anno seguente e, comunque, entro il 6 marzo 1483 (quando il progetto della rocca di Casalmaggiore, forse di L. e già approvato da Lorenzo, era stato mostrato da B. Rucellai a Ludovico il Moro e da questo approvato).
La lettera, conservata nel Codice Atlantico (c. 1082r), generalmente datata dagli studiosi al 1482-83, in cui L. elenca una serie di proposte da sottoporre a Ludovico, punta infatti sugli aspetti militari e ingegneristici della eventuale committenza sforzesca piuttosto che su quelli artistici e, fra questi, solo il tema del "cavallo di bronzo, che sarà gloria immortale et aeterno honore de la felice memoria del Signor vostro patre et de la inclyta casa Sforzesca" (il monumento equestre che Ludovico voleva erigere in memoria del padre Francesco Sforza) viene esplicitamente menzionato.
Si era già sospettato che L. non fosse stato l'ideatore della lettera, benché avesse potuto suggerirne i temi (Pedretti, 1977). Il testo potrebbe infatti essere stato dettato o suggerito a L. dallo stesso Rucellai (Marani, 2002). La lettera è stata tuttavia datata attorno al 1485 (Pedretti, 1988, pp. 76-81), oppure attorno al 1485-86 (Schofield, 1991, p. 155), ma questo porterebbe a ipotizzare come avvenuta più tardi l'entrata di L. nell'orbita della committenza sforzesca e a rendere ancor più problematici i motivi del suo trasferimento a Milano, con il problema aggiuntivo di riempire i primi due o tre anni del suo soggiorno milanese.
La prima data certa milanese è il 25 apr. 1483, che si legge nel contratto per l'esecuzione dell'ancona contenente l'immagine di una "Nostra Donna e di Quattro angeli, due che canteno e due che soneno", da collocare entro una gran macchina scolpita eseguita da G. Del Majno, da dorare e dipingere; il contratto è sottoscritto da Evangelista e Giovanni Ambrogio De Predis e Leonardo. Questi portò a compimento solo il pannello centrale, oggi al Louvre, noto come la Verginedellerocce.
La commissione della NostraDonna richiestagli dalla Confraternita della Concezione in S. Francesco Grande, di cui al contratto del 25 apr. 1483 (Marani, 1999, pp. 123-155; Id., 2003) dimostra che non fu quindi Ludovico a ingaggiare per primo L., ma una confraternita di laici locali; ed è perciò possibile ritenere, in via ipotetica, che solo una volta assunta dimestichezza con l'ambiente milanese, L. abbia potuto pensare di rivolgersi a Ludovico Sforza. È però possibile che la commissione fosse assegnata grazie ai fratelli De Predis; presso Ambrogio L. potrebbe essere stato ospitato agli inizi del suo soggiorno lombardo (Marani, 1981, pp. 1 s.).
Il ruolo di L., da secondario, divenne di fatto prevalente nella gestione dell'organizzazione del lavoro e dell'esecuzione delle varie parti del polittico, a mano a mano che risultava chiara l'importanza della tavola centrale da lui dipinta, al punto che gli artisti (morto Evangelista nel gennaio del 1491) si rivolsero a Ludovico per chiedere un maggior compenso rispetto a quanto pattuito dopo che un eminente personaggio, ante 1493, aveva offerto un'ingente somma di denaro per acquistarla.
L'identità di quest'offerente resta ignota: forse lo stesso Ludovico, oppure il re di Francia. Nel primo caso Ludovico ne avrebbe fatto dono all'imperatore Massimiliano I in occasione delle nozze di questo con la nipote del Moro, Bianca Maria Sforza, avvenute nel 1493 (Bodmer; Gould, pp. 85 s.), ipotesi avvalorata dal fatto che Vasari ricorda una Maestà inviata in dono da Ludovico all'imperatore; nel secondo, si sarebbe trattato o di Carlo VIII, sceso in Italia nel 1494 (Béguin, pp. 72-74), che l'avrebbe portata con sé in Francia, dove riflessi del dipinto si notano in opere di Andrea Solario dopo il 1507; oppure di Luigi XII, che avrebbe requisito l'opera nel 1499 (Wasserman, 1975, p. 110; Scailliérez, 1992, pp. 94 s.). Le vicende successive relative alla necessità di preparare una copia del dipinto che si intendeva cedere ad altri, e alla sua esecuzione, sempre procrastinata fino al 1508, dettero luogo a un contenzioso che rivela il ruolo di L. quale abile gestore della sua bottega. Con celata furbizia e abilità, escluse il De Predis dall'esecuzione della successiva seconda versione della tavola centrale (Londra, National Gallery) sostituendovi, sembra, i suoi due migliori allievi: Boltraffio e Marco d'Oggiono (Marani, 1999, pp. 140-142; Fiorio, 2000, pp. 32 s.) e consentì a De Predis di trarre soltanto un'altra copia (perduta) dal dipinto che, nel 1508, era nel frattempo stato consegnato e si trovava collocato sull'altare, il cui ricavato sarebbe stato diviso a metà tra L. e De Predis (Sironi - De Vecchi, 1981, pp. 23-25, doc. VII).
Il problema della prima versione della Nostra Donna per la Confraternita della Concezione, si intreccia con quello di un'altra NostraDonna fatta fare da Ludovico a un eminente pittore per essere inviata a re Mattia Corvino e di cui si ha notizia da un documento del 13 apr. 1485, due anni esatti dopo la commissione della Nostra Donna da parte degli scolari della Concezione. Se si accetta l'identificazione dell'eminente pittore con L., sarebbe questa la prima commissione ricevuta da L. stesso da parte del Moro. Stilisticamente sincrono alla prima versione della Vergine delle rocce è il Ritratto di musico (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), il dipinto già citato che, dopo lunghe controversie attributive, è ora unanimemente riconosciuto un autografo vinciano (Marani, 1999, pp. 160-166, per la sua storia critica; Zöllner, 2003, p. 225, per il recente riaffacciarsi, improbabile, dell'attribuzione a L. congiuntamente con Boltraffio); mentre di qualche anno successivo è il ritratto di Cecilia Gallerani, la cosiddetta Dama con l'ermellino nel Museo Czartoryski di Cracovia, che non si può datare dopo il 1490, e alla quale conviene, invece, sia per ragioni stilistiche sia per ragioni esterne, sia, finalmente, per l'età dell'effigiata, una data precisabile nel biennio 1488-89 (Marani - Fabjan, 1998).
Cantato da Bernardo Bellincioni (1493) e oggetto, un decennio più tardi (1498), di uno scambio epistolare tra Cecilia Gallerani Bergamini e Isabella d'Este che si proponeva di instaurare un famoso "parangone" fra il dipinto di L. e i ritratti di Giovanni Bellini, il dipinto ora a Cracovia si impone per la novità iconografica e per il suo potenziale rivoluzionario in termini di rappresentazione dei "moti dell'animo": L. ne era ben conscio se, a partire dal 1490 teorizza nel manoscritto A di Parigi (Institut de France), i principî fondamentali del suo Trattato della pittura entro il quale grande spazio è appunto consacrato alla rappresentazione dei "moti mentali" riflessi nelle attitudini e nella prontezza dei gesti.
La Belleferronnière (Louvre) è il terzo ritratto milanese pervenuto. Identificato come il ritratto dell'amante di Ludovico, Lucrezia Crivelli, e cantato da Antonio Tebaldeo (Agosti, 1998), il dipinto, databile verso il 1495 (anch'esso oggetto di interminabili dibattiti circa la sua completa autografia), ben lungi dal costituire una regressione rispetto alla dama di Cracovia, testimonia, oltre che dello studio dei "moti mentali", delle ricerche di L. sulla teoria del colore, dei riflessi e delle ombre colorate di cui avrebbe poi dato conto nel Trattato della pittura.
Forse a questo ritratto (più che alla pala sforzesca, ora a Brera) può riferirsi l'appunto di L., Tavola del duca, contenuto nel manoscritto H, c. 46r (Parigi, Institut de France), manoscritto datato 1493-94. Molto probabilmente requisito da Luigi XII quando si impossessò del Ducato nel dicembre del 1499 (Scailliérez, 1992, pp. 92 s.), questo ritratto poté forse, per primo, aver contribuito a suscitare in Francesco I, quando lo ereditò dal suo predecessore, l'interessamento per l'arte di Leonardo.
Il gruppo dei ritratti milanesi costituisce prova eclatante dell'evoluzione di L. verso una concezione "moderna" del ritratto: dai riferimenti antonelleschi e fiamminghi ancora presenti nel Musico, frutto delle precedenti esperienze fiorentine e della presenza in Milano di originali di Antonello, evolve con autonomia verso la raffigurazione "di naturale", cogliendo, attraverso la Dama con l'ermellino e la Belle ferronnière, il personaggio non più di semplice tre quarti ma ormai completamente calato nello spazio circostante, indagandone i più sottili "moti mentali" e teorizzandone infine il risultato, avvertito come fortemente innovativo, nel Trattato della pittura. Elaborazione autonoma, forse inizialmente motivata dalla necessità di elevare il rango dell'artista a corte, il Trattato della pittura, vagheggiato in questi anni da L. (e parzialmente pubblicato a Parigi solo nel 1651 da R. Trichet du Fresne, con incisioni tratte da disegni di N. Poussin: Pedretti - Vecce, 1995), prende forma attraverso notazioni sporadiche e intermittenti del tutto indipendentemente da ogni committenza, come necessità personale, forse anche didattica, e intellettuale dell'artista che intende equiparare l'arte alla scienza e fare della pittura uno strumento di conoscenza universale. Anche l'esigenza di mettere per iscritto i suoi pensieri, che si affaccia prepotentemente solo dopo l'inizio del periodo milanese, va interpretata come testimonianza della consapevolezza di L. di portare un atteggiamento nuovo, non basato sulla stanca ripetizione degli auctores, sia in campo artistico sia in quello scientifico. Il primo manoscritto pervenuto, databile al 1485-90, è il manoscritto B dell'Institut de France, assimilabile, per aspetto e funzione, a uno "zibaldone" di bottega (Marani, in Viatte - Forcione, 2003), data la presenza di disegni d'altra mano, ricette, annotazioni varie, anche derivanti da letture, disegni d'architettura (Pedretti, 1978) e di meccanica, fra i quali i celebri disegni per il volo umano (I libri di meccanica…), e che si segnala per gli spettacolari disegni per migliorare il castello di porta Giovia (come anche dimostra il disegno della raccolta Vallardi al Louvre), per dotare lo Stato di nuove macchine belliche (Marani, 1984), per risolvere il problema della popolosità di Milano attraverso le celebri proposte urbanistiche di una città su due livelli (che riflettono anche gli interessi di Ludovico per i nuovi sviluppi urbanistici di città come Milano, Vigevano e Pavia: Firpo), per i progetti per il "bagno della duchessa" nel barco del castello, per chiese a pianta centrale coperte da cupole (Maltese) e così via, indicando (anche senza il supporto di una precisa documentazione archivistica) la vastità di raggio delle competenze in cui L. si sentiva di offrire il proprio contributo e che gli erano certo suggerite anche dagli ambiziosi piani politici di Ludovico il Moro.
Riflesso della volontà di appropriarsi del lessico dei dotti e della cultura letteraria e antiquaria, ma anche riflesso delle commissioni in corso, è il Codice Trivulziano (Milano, Biblioteca Trivulziana), circa 1490, ricco di oltre quattromila vocaboli desunti, in gran parte, dal De re militari di Roberto Valturio volgarizzato da P. Ramusio nel 1483 (Marinoni, 1944-52). Seguono cronologicamente i manoscritti C e A dell'Institut de France a Parigi, databili tra il 1490 e il 1492 e principalmente dedicati a problemi di ottica, prospettiva e pittura, con annotazioni in gran parte travasate nel Trattato della pittura.
La prima committenza sforzesca a L. che non fosse per un'opera di pittura è da vedersi nell'incarico di progettare il Monumento a Francesco Sforza, al quale l'artista allude esplicitamente nella bozza di lettera, già citata, da inviare a Ludovico (1483-85), monumento di cui si parlava già almeno fin dal 1473 (Brugnoli, in Reti, 1974, p. 87).
L'idea venne ripresa da Ludovico, quando, tornato dall'esilio del 1477-79, si impossessò, di fatto, del governo del Ducato. I protocolli del carteggio di Lorenzo il Magnifico registrano due lettere del 10 e del 19 apr. 1484 spedite a Ludovico Sforza (il cui contenuto è andato perduto: Del Piazzo) che dovevano trattare del problema degli scultori fiorentini ("che ogni volta che vuole, gli scultori sono a sua posta") in risposta a una precedente lettera dello stesso Ludovico (anch'essa perduta) in cui, evidentemente, si richiedevano maestranze capaci di fondere un monumento bronzeo. Dopo questa data è ipotizzabile che l'incarico venisse infatti affidato a L., già residente a Milano da due anni, i cui studi per una prima soluzione del monumento, che prevedevano un cavallo impennato montato dal duca e atterrante un fante, possono essere infatti datati tra il 1484-85 e il 1489, dato che, come lui stesso ci informa nel manoscritto C di Parigi, il 23 apr. 1490 ("chominciai questo libro e richominciai il cavallo"), aveva iniziato la riprogettazione del monumento secondo lo schema classico di un cavallo al passo. Un esempio del primitivo progetto di L. è offerto dal disegno della Royal Library di Windsor n. 12358. Tuttavia, il 22 luglio 1489, Ludovico scriveva ancora a Lorenzo de' Medici, benché avesse già "ordinato che Leonardo da Vinci ne facci il modello, cioè uno grandissimo cavallo di bronzo, suvi il Duca Francesco armato", perché questi gli mandasse "uno maestro o dua, apti a tale opera", la quale avrebbe dovuto essere "cosa in superlativo grado" (Fusco - Corti, p. 16). È probabile che L. avesse dunque già eseguito il modello del monumento, ma che non fosse in grado di procedere alla sua fusione.
La risposta di Lorenzo, rintracciata solo di recente (ibid., p. 17), è singolarmente reticente, dato che il Magnifico asseriva di non trovare, a Firenze, "maestro che mi satisfaccia" mentre si augurava, incongruamente, e sapendo il contrario, che a Ludovico non ne mancassero. Il Verrocchio, in effetti, era morto nel 1488 ma sembra che Lorenzo non volesse smentirsi nell'aver indicato in precedenza lo stesso L. al Moro come artista capace e abile. Dalla richiesta di Ludovico non risulta chiaro se egli avesse già preso la decisione di passare da un monumento con il cavallo a grandezza naturale a quella di realizzare un "grandissimo cavallo di bronzo" verso il 1484, quando si riaffacciò l'esigenza di portare avanti per ragioni dinastiche il progetto avviato da Gian Galeazzo, oppure se questa decisione fosse stata presa dallo stesso Ludovico più tardi (non certo da L.), prima dell'estate del 1489, cosa che aveva determinato l'ordine di un nuovo modello a L. (Marani, in Fiorio - Terraroli, 2003, p. 178).
Il progetto, ricominciato, come detto, nel 1490, in corso di attuazione il 17 maggio 1491 (Madrid, Biblioteca nacional, ms. 8936, c. 157v: "Qui si farà ricordo de tucte quelle cose le quali fieno al proposito del cavallo di bronzo del quale al presente sono in opera") e probabilmente concluso, con il modello del cavallo al passo pronto per la fusione, il 20 dic. 1493 (ibid., c. 151v), inclusi tutti i dettagli tecnici relativi alla fusione "a tasselli" e lo studio delle armature per il trasporto della forma del cavallo, ora pienamente noti grazie alla scoperta dei codici di Madrid (si veda però anche il disegno del Codice Atlantico, c. 577v e Madrid, Biblioteca nacional, ms. 8936, c. 157r), prevedeva un monumento alto 12 braccia, cioè circa 7,20 m (tre volte il naturale), che doveva pesare pressappoco 160.000 libbre (Herzfeld; Pacioli, ed. Marinoni, 1982), in modo da collocare il monumento tra i più colossali mai realizzati fino a quella data. Nel 1493 l'effigie del Monumento Sforza fu esposta sotto un arco trionfale in duomo per le nozze della nipote di Ludovico, Bianca Maria, con Massimiliano I, e quest'immagine dipinta, tratta dal modello in terra preparato da L., mentre sanciva lo stadio finale del progetto di L. stesso, stabiliva il modello del monumento equestre al quale ci si sarebbe ispirati in Lombardia per un certo tempo, come dimostrano le varie derivazioni in scala ridotta note, mentre i poeti di corte, come Baldassarre Taccone, nel 1493, parlavano di "un gran colosso" e paragonavano L. a "Fidia, Mirone, Scoppa e Praxitello" (in Villata, 1999). Il 19 sett. 1501, due anni dopo la caduta del Moro, la "forma del cavallo" veniva richiesta dal duca di Ferrara, tramite il suo ambasciatore a Milano, Giovanni Valla, a Georges d'Amboise, cardinale di Rouen e plenipotenziario del re Luigi XII a Milano; dalla missiva si apprende che "dicta forma […] ogni die se va guastando perché non se ne ha cura". Dopo una risposta dell'ambasciatore del 24 settembre, non si sa più niente del modello preparato da Leonardo.
L. ebbe parte anche nella spinosa questione del completamento del tiburio del duomo di Milano, dai cui fabbriceri ricevette pagamenti dal luglio al settembre 1487 (poi ancora nel 1488 e nel 1490), e che è riflessa nello stesso manoscritto B, oltre che nei codici Forster I (Londra, Victoria and Albert Museum) e Trivulziano e in alcuni spettacolari fogli del Codice Atlantico (400r, 850rv).
Lo scritto di L. che doveva accompagnare il suo modello (Codice Atlantico, c. 270r, ex 270rc), è indirizzato così come la "Bramanti opinio", ai "signori Diputati", e non al Moro (Maltese). L. prevedeva una doppia calotta su base internamente ottagonale ed esternamente quadrata, ispirandosi chiaramente alla cupola di S. Maria del Fiore di F. Brunelleschi (Marani, 1982), ma il suo progetto, tradotto in un modello presentato alla Fabbrica, venne surclassato da quello di G.A. Amadeo e di Francesco di Giorgio Martini (Schofield, 1989), che risolveva meglio il problema dell'imposta della cupola sui pilastri sottostanti grazie alla creazione di archi a tutto sesto annegati nelle murature sopra gli archi acuti già esistenti, soluzione che L. aveva pur tenuto presente (Marani, in Fiore, 2004).
Un'altra commissione assunta indipendentemente da L. è testimoniata dalla proposta inviata verso il 1493-94 ai fabbriceri del duomo di Piacenza, città allora sotto il dominio degli Sforza (e che è ricordata dall'abbozzo di una lettera contenuta nel Codice Atlantico, c. 887r, ex 323rb), per l'esecuzione delle porte bronzee di quella cattedrale: offerta che non risulta però aver avuto alcun seguito.
Contemporaneamente L. scienziato dava corso ai suoi studi d'anatomia (un nucleo nella Royal Library a Windsor è datato 2 apr. 1489: Keele - Pedretti, 1978-80), di meccanica (Madrid, Biblioteca nacional, ms. 8937; Reti, 1974) e riempiva i suoi quaderni di appunti con annotazioni desunte dalle fonti antiche e moderne (per il Bestiario contenuto nel manoscritto H di Parigi, copiò passi da Plinio e dall'Acerba di Cecco d'Ascoli), di architettura, idraulica, geometria euclidea (manoscritti M e I dell'Institut de France: Marinoni, 1986-90), progettando nel contempo anche apparati per feste e spettacoli, dando prova della sua duttilità e della sua fantasia: allestì la festa del Paradiso, il 13 genn. 1490, per le nozze fra Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella d'Aragona, ricordata e descritta dal Bellincioni (1493, in Villata, 1999, pp. 77 s.). L'apprezzamento per questo genere di tableaux vivants, a scena fissa, è provato dal successivo allestimento per un'altra e più importante festa, il cui committente è ancora una volta Ludovico. Il 26 genn. 1491, in casa di Galeazzo Sanseverino, del quale L. aveva ritratto anche un cavallo come modello per quello del Monumento Sforza, viene preparata infatti una grande giostra in onore delle nozze tra Ludovico e Beatrice d'Este (Vecce, 1998, pp. 131-134).
Per tutte queste commissioni L. si valse certamente di assistenti e allievi: il manoscritto C di Parigi (datato 1490) ricorda per la prima volta i nomi di "Marco" (Marco d'Oggiono), "Gian Antonio" (Giovanni Antonio Boltraffio) e "Jacomo" (Gian Giacomo Caprotti da Oreno, detto Salaì o Salaj, più volte menzionato nelle carte di L.); il Codice ForsterIII, del Victoria and Albert Museum, c. 88v, ricorda, tra il 27 febbr. 1492 e il 18 marzo 1493, un "maestro Tommaso" (forse Tommaso Masini da Peretola, detto Zoroastro) e un certo "Iulio tedesco" (citati entrambi anche nel manoscritto H, c. 106r, il 1° nov. 1493) che eseguivano lavori di meccanica; lo stesso manoscritto H di Parigi, c. 94r, del 1494 circa, ricorda, fra altri nomi, quello di un "Ferrando" (da identificare con Ferrando Spagnolo, più tardi assistente di L. a Firenze nella Battaglia d'Anghiari), e così via. In un abbozzo di lettera a Ludovico il Moro (Codice Atlantico, c. 867r, ex 315va), verso il 1496-97, L. afferma di aver stipendiato sei assistenti per tre anni e di aver ricevuto solo 50 ducati. Questo appunto conferma che L. riceveva commissioni e stipendio dal Moro, e che, inoltre, egli doveva ormai aver allestito una vera e propria bottega per soddisfarne le varie e differenti richieste.
La lettera al Moro conservata nel Codice Atlantico (c. 914r, ex 335ra, del 1497 circa) è stata infatti messa in relazione sia con i lavori interrotti per il Monumento Sforza, sia con la commissione del Cenacolo.
Quest'ultima grande impresa decorativa, che doveva contribuire al prestigio di Ludovico e alimentare il coro di lodi tessuto dai suoi adulatori (che non avevano esitato a definire Milano una "novella Atene" e L. "uno Apel": Bellincioni, 1493, in Villata, 1999, p. 76), venne allestita nel refettorio del convento domenicano di S. Maria delle Grazie con l'illustrazione dell'Ultima Cena, delle lunette a essa soprastanti, contenenti epigrafi inneggianti a Ludovico e alla sua famiglia (Brambilla Barcilon - Marani, 1999), e con l'inclusione, a opera dello stesso L., dell'effigie di Ludovico, ormai divenuto il vero duca di Milano, con Beatrice d'Este e i loro figli, nella preesistente Crocifissione, dipinta da Donato Montorfano nel 1495, sulla parete opposta dello stesso refettorio, come confermano le fonti antiche: Vasari (1568, IV, pp. 32 s.), G.P. Lomazzo (1584, in Ciardi, II, pp. 549 s.) e padre Gattico (1630 circa, in De Rinaldis, p. 140). L. era ancora all'opera al Cenacolo il 29 giugno 1497 e, in quell'anno, ricevette un pagamento di lire 37.16.5. Luca Pacioli dichiara finito il dipinto il 9 febbr. 1498. Un tale "Benedetto" e un certo "Joditti" sono ricordati (Codice Atlantico, c. 189r, ex 68ra) e pagati da L. per aver assistito il maestro per alcuni mesi tra l'ottobre del 1497 e il 3 genn. 1498, cioè al tempo che corrisponde alla fase conclusiva dei lavori al Cenacolo. Il lungo tempo necessario per l'esecuzione della pittura murale (circa 1494-98) si spiega per via della tecnica a secco impiegata da L.: non quella a "buon fresco" ma pittura a tempera, ripassata a olio, su due strati di preparazione, l'uno di carbonato di calcio, l'altro di bianco di piombo (Brambilla Barcilon, in Brambilla Barcilon - Marani, 1999, pp. 423-440), che consentiva di dipingere con quell'"incomparabile diligenzia" di cui parla Vasari (ed. Bettarini - Barocchi, p. 26) ogni minimo dettaglio.
La commissione iniziale del Cenacolo potrebbe però essere venuta a L., scartandosi per altre ragioni una committenza diretta da parte dei monaci domenicani (Rossi - Rovetta, 1988), non da Ludovico, ma da Gian Galeazzo Maria Sforza nel 1493-94, dato che uno schizzo di L. contenuto in un foglio della Royal Library a Windsor, n. 12228 a, illustra lo schema di uno stemma in forma di bucranio (quella stessa forma di cui si è ritrovata una prima stesura nella lunetta centrale sopra il Cenacolo), e che contiene le lettere "GMS", allusive appunto a Gian Galeazzo Maria Sforza. Anche i pochi e celeberrimi studi per le teste degli apostoli nella Cena, quali quello di Giacomo Maggiore (Windsor, Royal Library, n. 12552) e di Filippo (Ibid., n. 12551) si possono infatti far risalire a un momento ben anteriore al tradizionale 1495 circa, che si assume come data d'inizio della pittura murale e si può riportare indietro nel tempo, circa 1492-93, se non prima, la data d'inizio degli studi preliminari alla grande composizione murale (Marani, 2001, pp. 110-113, 122-134), cosa che sarebbe confermata anche dal fatto che il disegno di L. per il braccio destro di Pietro (Windsor, Royal Library, n. 12546) sembra essere stato ripreso nel frontespizio delle Rime di Bellincioni, pubblicate nel 1493 (Villata, 2000).
Il Cenacolo rappresenta l'apice dell'attività artistica e scientifica di L., come è stato sottolineato da tutta la critica moderna. Egli vi ha condensato tutti i risultati dei suoi studi: dall'ottica e dalla scienza prospettica, alla meccanica, all'acustica: le labbra di Cristo simulano una specie di diagramma in cui le sue parole si diffondono e rimbalzano nelle orecchie degli apostoli permettendo che si attui nel contempo la catarsi dello spettatore (Gombrich, pp. 95 s.; Marani, 2001, pp. 25-27) e rinnovando profondamente l'iconografia dell'Ultima Cena, raggruppando a tre a tre le figure degli apostoli e ponendo anche Giuda al di là della tavola. Gli atteggiamenti e le attitudini degli apostoli e il Cristo, colto mentre sta per pronunciare le parole "Uno di voi mi tradirà", danno forma visiva ai concetti espressi nel Trattato della pittura circa "i moti mentali", raffigurando, nel contempo, nel "componimento", attraverso gli "infiniti andamenti" del colore e del disegno, le innumerevoli variazioni dei caratteri e delle passioni umane, come già indicato dagli storiografi antichi (G.P. Lomazzo, Trattato dell'arte della pittura [1584], ed. Ciardi, I, p. 286; II, p. 170; F. Borromeo, De pictura sacra [1624], in Jones, 1997, p. 89; A. Félibien, Entretiens… [1666], ed. Démoris, p. 257).
Nel 1495 moriva la madre di L. (Londra, Victoria and Albert Museum, Codice Forster II, c. 64v). Il 14 nov. 1495 e l'8 giugno 1496 si ha notizia della decorazione dei "camerini" nel castello di porta Giovia: il pittore che vi lavorava, forse L. (e che vi aveva fatto "certo scandalo"), era scomparso; il 13 giugno Ludovico veniva informato da Venezia che Pietro Perugino, da lui fatto cercare lì, non si trovava. Ludovico cercava, evidentemente, un sostituto di L. che riapparve però all'opera, in castello, nella "saletta negra" e nella "camera grande", il 21 apr. 1498, quando egli promise di finire il suo lavoro entro il settembre dello stesso anno.
La decorazione della cosiddetta "sala delle Asse" attualmente visibile nella sala nordest del castello, messa in rapporto con questi documenti da Beltrami (1902), raffigura una finta pergola composta da alberi (gelsi-mori), le cui radici sradicano rocce e i cui rami si intrecciano sulla volta, legati da una corda continua, sorreggendo tre targhe celebrative di Ludovico e una (perduta) del re di Francia, aggiunta dopo la presa di Milano del dicembre 1499. La forte illusività della decorazione, che è stata interpretata come la raffigurazione del locus amoenus della valle di Tempe in Tessaglia (Hoffman), o come l'allusione a Ludovico il Moro come "gelso-moro", prudente e saggio reggitore dello Stato sforzesco (Marani, 1982; Welch), influenzò Giulio Romano nella "sala dei Giganti" in palazzo Té a Mantova. Nel 1901-02 tutta la volta fu ridipinta da Ernesto Rusca. Disegni a pennello monocromi all'angolo delle pareti nord ed est sono stati messi in luce nel 1954 (Baroni, 1955), quando anche la ridipintura di Rusca sulla volta venne in gran parte rimossa. Quello che si vede oggi, sulla volta, è lo stato frammentario di una decorazione, forse tardoquattrocentesca, di difficile attribuzione; mentre la critica ritiene autografi soltanto i monocromi sulle pareti nordest (Gantner; Brizio, 1974, pp. 35-43; Rosci, 1977).
Il manoscritto I dell'Institut de France, databile verso il 1495-97, contiene (c. 107r) alcuni disegni per una pala d'altare, di impianto abbastanza tradizionale, con la Madonna al centro e vari santi laterali, che è stata messa in rapporto con una commissione per la chiesa di S. Francesco a Brescia, che sarebbe stata richiesta a L. nel 1497 e portata a compimento, molto più tardi, dal Romanino, Girolamo Romani (Moeller, 1912; Marani, in Viatte - Forcione, 2003, p. 420). Nell'agosto del 1499 Ludovico il Moro abbandonò Milano, dove Luigi XII entrò nel dicembre dello stesso anno. Un memorandum di L. (Codice Atlantico, c. 669r, ex 247ra), scritto in maniera criptica, e che si data tradizionalmente alla fine del 1499, registra contatti di L. con Luigi di Lussemburgo, conte di Ligny e cugino di Carlo VIII, sceso in Italia al seguito di Luigi XII, che l'artista si proponeva di seguire a Roma e a Napoli. In realtà, come è stato dimostrato di recente (Vecce, in Viatte - Forcione, 2003, p. 21), questo appunto deve farsi risalire alla precedente discesa in Italia di Carlo VIII, nel 1494, quando effettivamente il conte di Ligny proseguì il suo viaggio per Roma e Napoli. L. mosse invece, sullo scorcio del 1499, e con Pacioli, per Mantova diretto a Venezia, non prima di aver inviato da Milano, sul suo conto presso l'ospedale di S. Maria Nuova a Firenze, 600 fiorini d'oro tramite suoi agenti. A Mantova, eseguì un cartone per il ritratto di Isabella d'Este, modellato sull'esempio del ritratto della marchesa raffigurato su una medaglia eseguita da Gian Cristoforo Romano nel 1497-98 (Romano), ma anche sulla ritrattistica classica (Marani, in Gregori, 2004, p. 476).
Del cartone dovettero esistere due versioni, dato che una prima fu donata (non si sa a chi) dal marchese di Mantova e la duchessa ne richiese una seconda a L.: è difficile sapere a quale delle due corrisponda il cartone oggi conservato al Louvre, bucherellato, o per il suo trasferimento su tavola, o per la sua duplicazione, proveniente dalla raccolta Vallardi di Milano (Viatte, in Viatte - Forcione 2003, pp. 185-189).
L. è ricordato a Venezia il 13 marzo 1500, quando un corrispondente di Isabella d'Este, Lorenzo Gusnasco da Pavia, vide un "retrato" della duchessa fatto da L. "ch'è molto naturale a questa", durante la sua permanenza a Venezia, che durò circa un mese (Nepi Sciré - Marani, 1992).
L. produsse, in realtà, più che pitture, soltanto un piano per difendere il Friuli dai Turchi (abbozzi di una relazione ai Signori di Venezia nel Codice Atlantico, c. 638vd, ex 214v), entro l'aprile del 1500, e si occupò di difese militari sull'Isonzo (Pedretti, 1988, pp. 76-81).
La sua presenza a Venezia è stata anche studiata in rapporto con l'evoluzione dello stile di Giorgione, e, particolarmente, in relazione a quanto Vasari ricorda circa l'impressione suscitata su di lui dalle opere di L. "molto fumeggiate e cacciate […] terribilmente di scuro" (ed. Bettarini - Barocchi, p. 42), particolarmente riscontrabile in un dipinto come Le tre età (o L'educazione di Marco Aurelio) della Galleria Palatina di Firenze (Lucco; Brown, in Nepi Sciré - Marani, 1992, p. 338), anche se, più recentemente, è stato osservato come Giorgione sia giunto a Venezia, molto probabilmente, solo nel 1503-04 (Gentili, in Nepi Sciré - Rossi, 2003, p. 19).
Nell'aprile del 1500, L. risulta però essere già a Firenze, dove versò altri 50 fiorini larghi d'oro sul suo conto. L'11 ag. 1500, Francesco Malatesta inviò al marchese di Mantova un disegno della casa di Agnolo Tovaglia, "facto per man propria de Leonardo Vinci", perché il marchese lo potesse giudicare. Il 20 marzo 1501 L. si trovava a Roma, dove visitò le rovine della villa di Adriano a Tivoli (il ricordo, nel Codice Atlantico, c. 618v, ex 227va, è datato nello stile ab incarnatione "Laus deo 1500 a dì 20 marzo"). Il breve soggiorno, che trova la sua giustificazione nei rapporti intrattenuti con l'ambiente del cardinal Domenico Grimani durante il soggiorno veneziano, consentì a L. una nuova presa di contatto con l'arte classica e con le raccolte di antichità romane (Marani, 1995). Conseguenza di questi rapporti veneziani sono due dipinti di L., "Uno quadro una testa con girlanda di man de lunardo vinci; uno quadro testa di bambocio di lunardo vinci", confluiti nella collezione Grimani e citati nell'inventario della collezione del cardinal Marino Grimani che, nel 1528, doveva essere trasferita a Roma (Anderson). Ma il 3 apr. 1501, L., già a Firenze, lavorava a un cartone in cui è raffigurato "uno Christo bambino de età cerca uno anno, che uscendo quasi de bracci ad la mamma piglia uno agnello, et pare che lo stringa. La mamma quasi levandose de grembo ad Santa Anna piglia el bambino per spicarlo da lo agnellino (animale imolatile) che significa la passione. Santa Anna, alquanto levandose da sedere, pare che voglia retenere la figliola che non spica el bambino da lo agnellino, che forsi vole figurare la chiesa che non vorebbe fussi impedita la passione di Christo. Et sono queste figure grande al naturale ma stano in picolo cartone". In questo stesso importante resoconto, inviato da Pietro da Novellara alla marchesa di Mantova, si ricorda che "dui suoi garzoni fano retrati, et lui a le volte in alcuno mette mano" e, inoltre, che L. "dà opra forte ad la geometria, impacientissimo al pennello". L. aveva infatti assunto, già prima dell'aprile 1501, una commissione dal re di Francia, come informa lo stesso Pietro da Novellara in un'altra lettera a Isabella d'Este del 14 apr. 1501 ("se si poteva spicare da la maestà del Re de Franza sanza sua disgrazia") in cui si ricorda anche che L. stava eseguendo una Madonna dei fusi, per Florimond Robertet (ne sopravvivono molte derivazioni, le migliori delle quali sono in collezione privata a New York e già nella raccolta del duca di Buccleuch, ritenute eseguite con la diretta partecipazione di L., ma da assegnare invece a L. con la partecipazione della bottega: Marani, 1999, p. 339). È stato suggerito infatti che il cartone con la S. Anna cui L. stava lavorando a Firenze nell'aprile del 1501, fosse la conseguenza di una commissione di Luigi XII assunta da L. a Milano fin dalla fine del 1499, e assegnata in onore della seconda moglie del re, Anna di Bretagna (che diede alla luce una figlia il 15 ott. 1499, quando Luigi XII si trovava appunto a Milano) e che il cartone oggi nella National Gallery di Londra testimonierebbe di un primo stadio del progetto (Wasserman, 1971). Vasari aggiunge che un cartone di L. di analogo soggetto era stato esposto alla Nunziata a Firenze nel 1501 (ed. Bettarini - Barocchi, pp. 29 s.) e che esso "andò poi in Francia", dove Francesco I lo avrebbe fatto tradurre in pittura (Scailliérez, 1992, p. 98).
La notizia rimonta a Paolo Giovio che, nella sua Leonardi Vincii vita, del 1526 circa (ed. Maffei, pp. 234 s.), asserisce che una tavola di L. con Cristo, la Vergine e S. Anna "Franciscus Rex Galliae coeptam in sacrario collocavit". La commissione di Luigi XII di un dipinto raffigurante "Sant'Anna" spiegherebbe infatti anche l'esistenza della versione dipinta, oggi conservata al Louvre, alla quale si potrebbe collegare anche il ricordo di "due quadri di Nostra Donna" che L. aveva cominciato e condotto in "assai bon porto" nella primavera del 1508 e che si proponeva di portare a Milano per la Pasqua successiva (lettera di L. al vicecancelliere del Ducato di Milano: Codice Atlantico, c. 1037v, ex 372va, 317rb). Però il celebre racconto di Vasari (ed. Bettarini - Barocchi, pp. 29 s.), che narra di come il popolo andasse per due giorni a vedere l'opera di L., include nella sua descrizione dell'opera anche un "san Giovannino", non ricordato nella lettera a Isabella d'Este, ed è perciò probabile che si trattasse di un'altra opera testimoniante uno stadio più avanzato del progetto. Questo cartone non necessariamente coincide con quello ora nella National Gallery di Londra che una parte della critica, dopo averlo considerato a lungo cronologicamente prossimo al Cenacolo (Brizio, 1974, pp. 44 s.; Wasserman, 1975, p. 140), tende ora a datare più tardi, verso gli anni 1508-10 (Clark, 1939, pp. 164-166; Pedretti, 1973, pp. 104-110; Kemp, 1982, pp. 202-209). Diversi disegni sussistono relativi a questa composizione (Popham, nn. 173-176) che mostrano il passaggio dalla struttura monumentale e classica del cartone di Londra al dipinto del Louvre, in cui si dà una soluzione completamente diversa al problema della costruzione di un gruppo di tre figure (più l'agnellino), connotata da un forte effetto piramidale e da un generale appiattimento delle masse. Per questo motivo, e per le connessioni del paesaggio di acque e rocce mostrato nello sfondo del dipinto del Louvre con disegni assai più tardi (Windsor, Royal Library), l'esecuzione, o la conclusione, del dipinto è stata collocata dagli studiosi nel periodo 1510-13 (Kemp, 1982, pp. 323-327; Marani, 1999, pp. 262-275).
Prima del 12 maggio 1502 L. forniva un parere a Francesco Malatesta, agente di Isabella d'Este a Firenze, relativamente a quattro vasi di pietre dure già appartenuti alla collezione di Lorenzo il Magnifico, di cui recavano inciso il nome, che la marchesa intendeva acquistare. Il 18 ag. 1502, L. venne nominato "Architetto et Ingegnero generale" del duca Valentino Cesare Borgia, che gli rilasciava una lettera patente (Vaprio d'Adda, Archivio Melzi d'Eril) per poter visitare le fortezze e i siti sotto al suo dominio, sparsi per la Romagna, le Marche e la Toscana (Pedretti, 1978; Marani, 1984).
L'incarico è confermato da un ricordo di Pacioli, relativo a un ponte fatto senza ferri né corde dal "nobile ingegneri" di Cesare Borgia (nel suo De viribus quantitatis, ed. Marinoni - Garlaschi Peyrani, 1997, pp. VIII s., 258) e dai disegni contenuti nel manoscritto L dell'Institut de France che si riferiscono alle fortificazioni delle città romagnole (rilievi della cinta fortificata di Urbino e Cesena) e di Piombino. Era a Urbino il 30 luglio 1502, a Pesaro il 1° agosto, a Rimini l'8, a Cesena il 10 e il 15 agosto, a Cesenatico il 6 settembre (disegnò il porto-canale). Altri disegni sparsi fra il Codice Atlantico e la raccolta di Windsor (fra i quali importante per la moderna cartografia è la pianta di Imola, n. 12284: Marani, in Pedretti, 1985, pp. 140 s.) testimoniano delle ricerche di L. sulla forma ideale delle fortezze come risposta alla nuova potenza delle armi da fuoco e in conseguenza dei suoi studi di balistica e sulla traiettoria dei proiettili (per esempio, manoscritto L di Parigi, c. 43v). Questi conducono L. a elaborare più tardi (per esempio, nel Codice Leicester) una sua teoria dell'impetus, basata su quella di Giovanni Buridano in opposizione a quanto propugnato da Aristotele, e ad affrontare i temi principali della meccanica medievale, dai problemi statici (già in parte affrontati nel periodo milanese) a quelli della dinamica (Somenzi; Clagett; Marani, in Vasoli, 2002).
L. acquistò un terreno a Fiesole, con una cava di pietra, "in sul piano di S. Apollinare" nel luglio del 1503 (atto perfezionato il 1° ott. 1503: Arrighi - Bellinazzi - Villata, in corso di stampa).
È probabile che, in assenza di precise commissioni nell'inverno del 1502-03, L. accettasse la commissione da parte di Francesco del Giocondo, mercante di tessuti con ambizioni nella vita pubblica fiorentina, di un ritratto di sua moglie, monna Lisa Gherardini (Zöllner, 1994), la cui elaborazione, secondo Vasari (ed. Bettarini - Barocchi, p. 30), dopo quattro anni di lavoro, fu lasciata interrotta.
In realtà, il dipinto, la cui stesura iniziale o il cui cartone erano già noti a Raffaello nel 1505 (Ritratto di Maddalena Doni: Firenze, Galleria Palatina), fu condotto avanti almeno fino al 1513-15 (Kemp, 1982, pp. 244-253; Marani, La Gioconda, 2003; Scailliérez, 2003; Zöllner, 2003, pp. 240 s.), come rivelano il paesaggio e la finissima stesura a velature d'olio. La critica recente ha confermato il racconto di Vasari circa l'identificazione del soggetto con Lisa Gherardini, ma ha anche proposto interpretazioni del dipinto. La più fondata è quella che vede nel ritratto un'allegoria del trionfo della Virtù sul tempo (Strong). Il dipinto, conservato nella "salle des Bains" a Fontainebleau, dove è ricordato nel 1625 da Cassiano Dal Pozzo iunior, fu esposto al pubblico solo col suo trasferimento al Louvre nel 1798, per divenire, alla metà dell'Ottocento, rappresentativo degli ideali romantici della "femme fatale", fino a diventare, col furto del 1911, il dipinto più famoso del mondo.
Il dipinto portato in Francia, forse da L. stesso, dovette essere acquistato, certo prima del 1546, da Francesco I. Più indietro nel tempo è da segnalare un'intermediazione di Salaì che, nel 1517-18, risulta pagato per aver venduto "quelques tables des peintures" (non meglio specificate) al re di Francia (Jestaz, 1999, p. 69). Cadrebbe così l'ipotesi di un ritorno del dipinto a Milano, con il resto dei dipinti eventualmente ereditati da Salaì dopo la morte di L., registrati in un inventario dei suoi beni stilato a Milano nel 1525 (Shell - Sironi, Salaì…, pp. 106-108; Shell - Sironi, The "Gioconda"…).
Il 3 luglio 1503 L. inviò, da Genova, una lettera in arabo al sultano Bāyazīd II (Istanbul, Topkapi, E 6184), per sottoporre un suo progetto di ponte a campata unica per collegare Pera a Costantinopoli (un disegno del manoscritto L di Parigi, c. 66r, è stato collegato a questa proposta: Babinger - Heydenreich, 1952). Intorno a quest'epoca iniziò un periodo di intensa attività per la Repubblica fiorentina, in guerra con Pisa. Visitò, con alcuni compagni, le fortificazioni della Verruca, nel luglio 1503, ospite del commissario Pierfrancesco Tosinghi. Era al campo di Cascina, con Alessandro degli Albizzi e altri quattro compagni, il 22 luglio 1503 (lettera di Gerolamo da Filicaia ai Dieci di balia, pubblicata in Villata, 1999, doc. 178). Si occupò di un progetto di deviazione dell'Arno per isolare Pisa dal mare, testimoniato da un rimborso spese per un sopralluogo del 26 luglio 1503 e da mappe disegnate nel ms. 8936 della Biblioteca nacional di Madrid. Viene ricordata la sua abilità come ritrattista in una lettera di Luca Ugolini a Niccolò Machiavelli dell'11 nov. 1503 (Marani, 2001). Partecipò, il 25 genn. 1504, a una riunione della commissione preposta a indicare la collocazione più opportuna per il David di Michelangelo: con L. figurano, fra gli altri, nella commissione Andrea Della Robbia, Piero di Cosimo, Cosimo Rosselli, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Lorenzo di Credi, oltre che i "tecnici" Lorenzo Della Volpaia, Giuliano e Antonio da Sangallo, e Bernardo della Cecca.
Ma la Repubblica intendeva avvalersi della presenza di L. a Firenze, giusta la testimonianza di Vasari (ed. Bettarini - Barocchi, p. 31), che riferisce di come "la stessa città intera disiderava ch'egli le lasciasse qualche memoria", per ottenere qualcosa di più duraturo da lui: in competizione con Michelangelo (cui venne affidata la raffigurazione della Battaglia di Cascina), il gonfaloniere Pier Soderini gli affidò la raffigurazione della Battaglia d'Anghiari in palazzo Vecchio, come episodio celebrativo della storia e della gloria fiorentina.
L'8 genn. 1504 gli venne assegnata la sala del Papa in S. Maria Novella per allestirvi il suo studio. Il 28 febbraio dello stesso anno gli furono pagate risme di carta, fogli reali, biacca, trementina e materiali vari, tra cui un lenzuolo per orlare il cartone, in vista dell'esecuzione dello stesso, oltre che lavori di carpenteria e di falegnameria e lavori murari a suoi assistenti. Ricevette, prima del 4 maggio 1504, 35 fiorini larghi d'oro, con l'ingiunzione di finire il cartone entro il mese di febbraio del 1505. Ricevette altri pagamenti per il cartone il 30 giugno 1504 (45 fiorini per tre mesi di lavoro). Suoi aiuti (Pietro di Zanobi, Filippo d'Antonio, Benedetto di Luca Buchi e altri) ricevettero pagamenti il 30 agosto per lavori di fabbri e per aver fornito a L. materiali per dipingere (biacca alessandrina, bianchetta soda, gesso). L. continuò a ricevere pagamenti nell'ottobre e nel dicembre 1504, e il 30 apr. 1505, quando ricevette 50 fiorini. In quest'ultimo pagamento, oltre ad alcuni assistenti già menzionati, ricevette un pagamento anche un "Ferrando spagnolo dipintore" per colori comprati per L.; lo stesso pittore, insieme con Tommaso di Giovanni Masini "suo garzone", veniva pagato ancora "per dipingere con Lionardo da Vinci nella sala del Consiglio" il 31 ag. 1505. Il 6 giugno 1505, nel "punto di posare il pennello" il cartone preparato da L. "si stracciò" a causa di un temporale (Madrid, Biblioteca nacional, ms. 8936, c. 2r), anche se questa data non va assunta come data d'inizio della pittura (Pedretti, 1968, pp. 53-66), ma come ricordo di un evento che fece interrompere il lavoro pittorico già intrapreso (Brizio, 1974, pp. 46-50). Una parte del cartone finì nello spedale di S. Maria Nuova (Albertini, Memoriale…, 1510, c. 5r, in Villata, 1999, p. 239), un'altra rimase in palazzo Vecchio: questa porzione dovrebbe coincidere con quella ricordata, in un manoscritto di Marcello Oretti, in palazzo Medici Riccardi come ancora esistente verso il 1774 (Pedretti, 1968, pp. 76 s.). La pittura è invece ricordata ancora nel 1549, in una lettera di Agnolo Doni da Venezia ad Alberto Lollio, con un elenco di cose notabili da vedere a Firenze: "salito le scale della sala grande, diligentemente date una vista a un gruppo di cavalli, e d'uomini (un pezzo di battaglia di Lionardo da Vinci) che vi parrà una cosa miracolosa" (Bottari; Pedretti, 1968, p. 71).
L'aspetto della vasta composizione murale allestita e in parte dipinta da L. è noto grazie a un'incisione di L. Zacchia del 1558 che tramanda però solo il gruppo centrale della Lotta per lo stendardo, forse desunto direttamente dalla pittura murale (ancora esistente quando Vasari si accinse a trasformare la sala e a eseguire i suoi affreschi, nel 1563), o da una tavola "sperimentale" dipinta, in formato ridotto, da L. che sembra essere stata vista ancora, nella sala del Papa in S. Maria Novella, verso il 1774 (Pedretti, 1968, pp. 58, 77). Nelle scene laterali, non pervenute attraverso le copie, ma note da disegni di L., si vedevano una Cavalcata (Windsor, Royal Library, n. 12339) e un Gruppo di soldati che scavalcano un corso d'acqua (Venezia, Gallerie dell'Accademia, inv. 215 e 215 A). Due famosi disegni per teste di guerrieri sono nel Museo di belle arti di Budapest. La composizione doveva trovarsi (secondo Wilde) a fianco della Battaglia di Cascina di Michelangelo, su una metà della parete di levante della sala del Gran Consiglio. Parte della pittura murale che, come ricorda Vasari, era stata eseguita a olio "d'una mistura sì grossa per lo incollato del muro", "cominciò a colare di maniera che in breve tempo abbandonò quella, vedendola guastare" (ed. Bettarini - Barocchi, p. 33). L'uso della tecnica a olio è confermato dai più antichi biografi di L.: Antonio Billi (circa 1518, in Pedretti 1968, p. 70) che afferma che L. "fu ingannato nello olio del seme del lino, che gli fu falsato"; e da Paolo Giovio, che, verso il 1526, precisa che "manet etiam in comitio curiae Florentinae pugna atque victoria de Pisanis praeclare ad modum, sed infeliciter inchoata vitio tectorii colores iuglandino oleo intritos singulari contumacia respuentis" (ed. Maffei, pp. 234 s.). L'opera era ancora visibile nel 1510, quando l'Albertini, nel suo Memoriale di molte statue et picture che sono nella inclyta cipta di Florentia, ricorda "Nella sala granda nuova del consiglio maiore[…] li cavalli di Leonardo Vinci et li disegni di Michelagnolo"; e ancora il 26 febbr. 1514, quando le figure di L. vennero protette con armature "per difenderle che le non sieno guaste" (Pedretti, 1968, p. 68).
Il biennio che vede L. all'opera per il cartone della Battaglia d'Anghiari e per l'avvio della pittura murale, è intenso anche per l'attività ingegneristica e per gli studi scientifici. Il 1° nov. 1504, L. si trovava infatti a Piombino, inviato dalla Repubblica presso Iacopo (IV) Appiani, signore di Piombino, quale consulente militare e progettista di nuove difese (un fossato, una nuova torre con casematte, la spianatura di un colle ecc.). Tracce di lavori fatti intraprendere al tempo della visita di L. (un muro della cinta) sono state individuate di recente (Fara, pp. 100-107) e, certo in vista di questi nuovi lavori difensivi, egli consultò, trascrivendone molti capitoli (nel ms. 8936 della Biblioteca nacional di Madrid), la seconda redazione del Trattato di architettura di Francesco di Giorgio Martini, postillandone, nel contempo, una redazione manoscritta più antica (il manoscritto Ashburnham, 361 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, circa 1481-83, che reca annotazioni e disegni di L. databili appunto verso il 1504-05). Il 30 nov. 1504 L. asseriva di aver trovato il metodo per la quadratura del cerchio (Madrid, Biblioteca nacional, ms. 8936, c. 112r) e l'anno successivo compilò, a Firenze, il Codice sul volo degli uccelli (datato 14 marzo e 14-15 apr. 1505: Torino, Biblioteca reale). Nel bel mezzo dei preparativi per allestire il cartone della Battaglia d'Anghiari, il 14 maggio 1504, Isabella d'Este aveva fatto richiedere da Angelo del Tovaglia a L., un "Christo giovinetto de anni dodece": l'opera non sarà mai inviata, ma un'eco del progetto è documentato da un dipinto nel Museo Lazaro Galdiano di Madrid e da disegni di bottega (Romano). Il 9 luglio 1504 moriva suo padre, all'età d'ottanta anni. Il 12 luglio 1505, L. iniziava il "Libro titolo de strasformazione, cioé d'un corpo 'n un altro sanza diminuizione di materia" (Londra, Victoria and Albert Museum, Codice Forster I, c. 3r) e subito dopo, e fin verso il 1507-08, iniziò la compilazione del manoscritto D dell'Institut de France, interamente dedicato a problemi di ottica e di visione (sui contenuti di questo manoscritto si veda Marani, in Viatte - Forcione, 2003, pp. 430-434). In questi anni, circa 1504-08, lavorò anche a composizioni raffiguranti una Leda inginocchiata e una Leda stante (perdute), i cui committenti rimangono sconosciuti, ma per le quali esistono disegni preparatori, inclusi quelli di botanica riguardanti la loro ambientazione (Windsor, Royal Library; Rotterdam, Boymans Museum; Chatsworth, Devonshire Collection), a un Nettuno per Antonio Segni (esiste il disegno a Windsor, Royal Library, n. 12570), e a un Salvator Mundi (disegni, Ibid., nn. 12524 e 12525), opere da cui furono tratte versioni di allievi e imitatori. Nel frattempo L. aveva assunto impegni con il re di Francia e con alti funzionari francesi a Milano. Il 27 apr. 1506, si sa che era ancora a Firenze, quando a Milano continuavano gli strascichi per la Nostra Donna commissionatagli fin dal 1483 dalla Confraternita della Concezione. Ma il 18 ag. 1506, una lettera di Charles d'Amboise alla Repubblica fiorentina, in cui si chiedeva di avere L. a Milano per due mesi "per fornir certa opera che li habiamo facto principiare", fa sorgere il sospetto che L. avesse già intrapreso qualche lavoro proprio per il governatore del Ducato. Il sospetto è confermato da due altre lettere di Geoffrey Carles del 19 agosto e del 16 ott. 1506 che sollecitano la sua venuta, e da una lettera dello stesso Amboise del 16 dicembre in cui si apprende che L. aveva già dato prova di certi lavori di architettura, "et altre cose pertinenti la condictione nostra".
La critica ha supposto che per il governatore di Milano, L. progettasse una villa: su alcuni fogli del Codice Atlantico, per esempio, cc. 571rb (ex 214rb), 629rb (ex 231rb) e 732vc (ex 271va) si trovano schizzi e appunti per una villa suburbana, databili attorno al 1505-06, dotata di una sala, scale comode e ampie, di una "corte del Gran Maestro", e di un giardino di delizie con uccelliera (Calvi, 1925, ed. 1982, pp. 162-165; Firpo, pp. 107-111; Pedretti, 1978, pp. 210-216), mentre nel Codice sul volo degli uccelli (Torino, Biblioteca reale) si trova (ultima di copertina) il disegno per la facciata di un palazzo che potrebbe essere messo in relazione con la commissione per quest'edificio, che doveva essere situato lungo un tratto del Nirone, ma non a porta Orientale, vicino alla chiesa di S. Babila (Pedretti, 1962), bensì presso la chiesa di S. Andrea alla Pusterla Nuova, dove il Nirone attraversava al ponte Vetero il corso di porta Comasina (Cislaghi).
Di un ritratto che il re di Francia desiderava farsi fare da L. nel 1507, insieme con "alchune cose de mano sua" e "certe tavolette di nostra Donna, et altro che secondo che mi verrà alla fantasia", come riferisce l'ambasciatore fiorentino Francesco Pandolfini presso il re di Francia a Blois il 12 gennaio di quell'anno (mentre L. è a Milano), scrivendo ai Signori di Firenze, non sappiamo più niente.
Oltre che l'Amboise e lo stesso re di Francia, si contendevano opere di L. e dei suoi allievi i funzionari dell'amministrazione francese (Jestaz, 2003): una richiesta al gonfaloniere della Repubblica di Firenze, analoga alle precedenti del 1506, era firmata da Florimond Robertet il 14 genn. 1507, perché si concedesse a L. il permesso di rimanere più a lungo a Milano e per "que nous entendons de luy faire fer quelque ouvraige de sa main incontinent que nous serons a Milan". Si trattava quindi di un'opera diversa dalla Madonna dei fusi alla quale L. lavorava nel 1501.
La Repubblica di Firenze concedette quanto richiesto con lettere a Pandolfini e a L. stesso del 22 genn. 1507. In una lettera di Luigi XII al gonfaloniere del 26 luglio 1507 L. viene definito "Nostre paintre et ingénieur ordinaire", ma L. si assentò nuovamente da Milano tra l'agosto 1507 e la primavera del 1508, come si evince dal prosieguo della questione della Verginedellerocce, da una controversia con i fratelli e da una lettera di Charles d'Amboise del 15 ag. 1507 alla Repubblica di Firenze, in cui si apprende che L. aveva infatti cominciato un dipinto per il re di Francia.
Quale fosse la tavola "comenzata" per Luigi XII non risulta chiaro, se una delle "tavolette di Nostra Donna" di cui il re aveva riferito a Francesco Pandolfini pochi mesi prima, o di altri dipinti, ma potrebbe qui alludersi proprio al dipinto della S. Anna, già menzionato (Scailliérez, in Viatte - Forcione, 2003, pp. 243-245) o una di quelle che L. si riprometteva di consegnare per la Pasqua del 1508. A questo periodo (circa 1507) va assegnata anche l'esecuzione del S. Giovanni Battista, ora al Museo del Louvre, la cui committenza è stata tuttavia suggerita in Giovanni Rucellai (Villata, 2003).
Il 22 marzo 1508, a Firenze, in casa di Piero di Braccio Martelli, L. iniziò a raccogliere le sue carte, e a ricopiarne alcune, "sperando poi di metterle per ordine alli lochi loro", relativamente alla meccanica, all'ottica, e alla cosmologia (è il foglio iniziale del Codice Arundel 263 della British Library di Londra: Pedretti - Vecce, 1998, pp. 367 s., erroneamente datato 1507 in Villata, 1999, p. 220). L. era di nuovo a Milano il 18 ag. 1508 quando sottoscrisse un accordo con Ambrogio De Predis (avrebbero diviso a metà il ricavato della vendita di una copia della Vergine dellerocce). È documentato stabilmente a Milano il 12 sett. 1508, come si evince da una sua annotazione nel manoscritto F dell'Institut de France (c. 1r), codice dedicato quasi interamente allo studio dell'acqua (con una nuova stesura del primo libro delle acque, già abbozzato nel manoscritto A di Parigi, circa 1490-92), con confronti fra la circolazione del sangue nelle vene, che escono dal "laco del core", paragonate ai fiumi che si originano dall'Oceano (concezione erronea che L. correggerà solo più tardi) e dove alcuni disegni di "acqua panniculata" ricordano proprio il modo di dipingere i panni nel quadro della S. Anna (Louvre; Marani, in Viatte - Forcione, 2003, pp. 427-430). In questo manoscritto (c. 5r), è da segnalare la Lalde del sole (Vasoli, 1972).
Gli studi di idraulica, geografia, astronomia e cosmologia condotti in questo quaderno, portano avanti le ricerche di L. testimoniate dal Codice Leicester (Seattle, Washington, collezione B. Gates), pressoché contemporaneo al manoscritto F (anche se, molto probabilmente, iniziato due o tre anni prima), ma usato fino al 1510 circa, in cui si ritrova (cc. 1r, 2r, 5r, 7r) la spiegazione dell'albore visibile nella parte in ombra della Luna quando è nuova (il lumen cinereum della Luna), causato dal riflesso sulla superficie lunare degli oceani illuminati dal Sole (la spiegazione scientifica di L. anticipa le deduzioni di Galileo di oltre cent'anni dopo: Calvi, 1909, pp. 4, 8 s., 24, 32 s.; Roberts, p. 14; Pedretti, 1985, p. 25; Gingerich, in Schneider, pp. 47-58).
Oltre che nell'esecuzione della S. Anna, gli anni del secondo periodo milanese, prolungatisi sino al 24 sett. 1513, quando L. partì con i suoi allievi per Roma (manoscritto E di Parigi, c. 1r), furono fra l'altro spesi negli studi di idraulica (sparsi fra i suoi manoscritti di questi anni; ma si veda anche il disegno del Naviglio a SanCristoforo nel Codice Atlantico, c. 1097r, ex 395ra, datato 3 maggio 1509: Marani, in Marani - Rossi - Rovetta, 1998, pp. 47-49), di anatomia, che egli si riprometteva di concludere nell'inverno del 1510 (Windsor, Royal Library, n. 19016: Keele - Pedretti, 1978-80, II, ad numerum) e, soprattutto, nella messa a punto del grande progetto per un monumento equestre che avrebbe dovuto far rivivere il fantasma del Monumento Sforza. Con il suo testamento del 2 ag. 1504, il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio aveva destinato l'ingente somma di 4000 ducati perché fosse eretta in S. Nazaro a Milano la propria tomba consistente in un'"arca marmorea elevata a terra saltem brachiam 8 vel circa, laborata", tomba di cui, peraltro, non c'è più menzione nel successivo testamento del 1507, dove si parla invece di un vero e proprio edificio (Baroni, 1939; Suida, 1953).
Nel Codice Atlantico, c. 492r (ex 179va) si trova infatti il preventivo, steso da L., per il "Sepulchro di Messer Giovanni Iacomo da Treulso", che gli studiosi datano o attorno al 1506 (Villata, 1999, pp. 197-199) o attorno al 1508 (Pedretti, 1978, pp. 230 s.; Vecce, 1998, p. 262). Una serie di bellissimi disegni conservati nella Royal Library a Windsor, testimonia dell'evolversi del progetto. Ricollegandosi idealmente al tipo del cavallo rampante, montato da un cavaliere, che aveva costituito la prima idea per il Monumento Sforza, L. pensò dapprima a un monumento equestre collocato su un'alta edicola architettonica, sorretta da colonne, che avrebbe dovuto contenere il sarcofago del maresciallo, con l'immagine di quest'ultimo a cavallo mostrata nel gesto di caricare il nemico.
I disegni 12353, 12353 A e 12355 a Windsor offrono testimonianza di questa prima fase del progetto, dove la struttura architettonica del monumento, assai elaborata (pianta ora circolare, ora quadrata, ora con contrafforti laterali) e munita di sculture di "prigioni", due per ogni angolo, oltre che di quella di un fante caduto sotto il cavallo, corrisponde, più o meno, a quanto previsto dal "preventivo", che dà, secondo i calcoli di L., un ammontare complessivo di "ducati 3046" di spesa (oltre tre quarti di quanto stabilito nel testamento del Trivulzio del 1504). Questi disegni (Clark - Pedretti, 1968-69, ad numeros; Clayton, 1996, pp. 113-117) devono dunque datare anch'essi verso il 1506-08, anche se è possibile che L. lavorasse al progetto solo una volta a Milano, dopo il 1508.
Ma un altro disegno di Windsor, il foglio 12356r, già presenta un ripensamento sul cavallo, mostrato ora al passo, con la figura del maresciallo in atto da parata, che deve dunque essere datato leggermente più tardi, forse anche in relazione alle difficoltà di contenere un così grandioso monumento all'interno della chiesa. L'evoluzione degli studi di L. per il Monumento Trivulzio si intreccia, infatti, da qui in poi, con la commissione a Bramantino della cappella Trivulzio, i cui lavori ebbero inizio nel 1511 per essere interrotti subito dopo, già nel 1512, con l'avvento al potere di Massimiliano Sforza (Baroni, 1939).
Altri disegni di L., stilisticamente più tardi, come il 12360 di Windsor, mostrano simultaneamente il tipo del cavallo rampante e quello del cavallo al passo, oppure studiano separatamente le due differenti soluzioni: la prima, sul foglio 12354 di Windsor (dal quale fu forse tratto il tipo del cavallo rampante mostrato nel celebre bronzo, attribuito a L., del Museo di belle arti di Budapest, ritenuto talora raffigurare Francesco I a cavallo: Aggházy), la seconda sul foglio 12343 di Windsor. Questi ultimi disegni, con altri della stessa serie, sono stati tracciati su carta francese e datati dagli studiosi addirittura attorno al 1517-18 (Clayton, 1996, pp. 142-149), quando cioè L. già si trovava in Francia. Da qui l'ipotesi recente che questi ultimi progetti possano riferirsi non al Monumento Trivulzio, ma a un monumento equestre, peraltro non ricordato dalle fonti, progettato da L. per Francesco I di Francia (Clayton, 1996, pp. 141 s.).
Nel 1510-11 L. ricevette pagamenti dall'amministrazione francese a Milano. Il 5 genn. 1511 era ai piedi del Monviso, a Mombracco sopra Saluzzo. Da Vaprio, dove si trovava ospite dell'allievo Francesco Melzi, vide gli incendi appiccati dagli Svizzeri a Desio il 16 e il 18 dic. 1511. Era ancora a Vaprio d'Adda il 9 genn. 1513 e disegnava una mappa del castello di Trezzo d'Adda (Beltrami, 1923) che veniva espugnato nello stesso mese. Il 25 marzo è menzionato, nei registri della Fabbrica del duomo, come abitante a Milano, presso un certo "magnifico domino Prevostino Viola". Si ipotizza che egli abbia fornito disegni per l'ampliamento della villa Melzi (Pedretti, 1972, pp. 53-57) identificati con piccoli disegni contenuti nel Codice Atlantico (Marani, in Marani - Rossi - Rovetta, 1998, pp. 47-49). Partì da Milano, con Giovan Francesco Melzi, Salaì, Lorenzo e il Fanfoja (forse Agostino Busti detto il Bambaja: Agosti, 1990; Fiorio, 1990), diretto a Roma, il 24 sett. 1513. Il 1° dic. 1513 elencava una serie di lavori da intraprendersi per sistemare le stanze che, nel Belvedere Vaticano, gli vennero assegnate dal magnifico Giuliano de' Medici, suo nuovo protettore, dove L. risiedette il 7 luglio 1514. Il 25 sett. dello stesso anno era però a Parma "alla Campana" (manoscritto E di Parigi, c. 80r) e due giorni dopo era "sulla riva del Po vicino a Santo Angelo" (ibid., c. 96r). All'interno della copertina del manoscritto G di Parigi, L. annotava, il 9 genn. 1515, la partenza da Roma del magnifico Giuliano "per andare a sposare la moglie in Savoia" (Filiberta di Savoia), aggiungendo che "in tal dì ci fu la morte del re di Francia", Luigi XII. Nel dicembre 1515 L. fu rimborsato da Paolo Vettori, per le spese da lui sostenute durante un viaggio compiuto a Bologna dove Giuliano aveva incontrato suo fratello Giovanni de' Medici, eletto papa Leone X nel 1513, e il nuovo re di Francia Francesco I (sulla presenza di L. a Bologna si veda Pedretti, 1953). Nel frattempo, a Firenze, il nipote di Leone X, Lorenzo di Piero de' Medici, veniva eletto capo della Repubblica fiorentina, al cui servizio risulta essere anche L. (Pedretti, 1964, p. 257).
Sulla base di questi eventi è stato supposto che L. progettasse, oltre che un arco quadrifronte per l'ingresso di Leone X a Firenze nel dicembre 1515 (Pedretti, 1964), mentre il papa era sulla via per Bologna, anche un nuovo palazzo Medici, che dalla via Larga, avrebbe fronteggiato la facciata della chiesa di S. Lorenzo, mediante la creazione di una nuova e più grande piazza e una totale ristrutturazione urbanistica della zona, fino a includere il giardino di S. Marco sull'omonima piazza.
L'ipotesi (Pedretti, 1972, pp. 58-63) si basa sull'evidenza del disegno del Codice Atlantico, c. 865r, ex 315rb, databile appunto attorno al 1515, ma è contraddetta dalla situazione storica e dal clima politico di quel momento, sfavorevole ai Medici (Elam, in Cherubini - Fanelli, 1990, p. 52).
Verso il 1515-16 L. si trovava a Roma, dove ricopiava in un disegno l'Ariadne, scultura ellenistica collocata nel cortile del Belvedere, si occupava di geometria e disegnava "lunule", prendeva le misure della basilica di S. Paolo (Codice Atlantico, cc. 671r, ex 247vb; 770v, ex 283vb; 627r, ex 239vb; Marani, 1995, p. 221). Ma già il 22 maggio 1517 è documentato ad Amboise, nel castello di Cloux (Codice Atlantico, c. 284r, ex 103rb), evidentemente invitato direttamente dal re a stabilirsi in Francia. Il 10 ott. 1517 veniva visitato dal cardinale Luigi d'Aragona e dal suo segretario, Antonio De Beatis, che annotava nel suo resoconto di viaggio che "messer Lunardo Vinci firentino" aveva loro mostrato "tre quatri, uno di certa donna firentina, facto di naturale ad instantia del quondam Magnifico Iuliano de Medici, l'altro di san Iohanne Baptista giovane, et uno de la Madonna et del figliolo che stan posti in gremmo de sancta Anna, tucti perfectissimi"; i visitatori trovavano il "pictore in la età nostra excellentissimo", di più di settant'anni, paralizzato nella mano destra. Egli riceveva dal re 1000 scudi l'anno di pensione; e il suo "creato", F. Melzi, 300 (Villata, 1999, pp. 264 s.). La notizia è confermata dal fatto che L. riceveva 2000 scudi, nel 1518, per due anni di pensione (Vecce, 1998, p. 423).
Intanto, a Milano, proprio tra il 1516 e il 1518, erano ripresi i lavori di edificazione della cappella Trivulzio (in conseguenza della vittoria dei Francesi a Marignano nel 1515) a opera di Bramantino, lavori che si sarebbero però nuovamente interrotti a causa della morte del maresciallo, avvenuta a Chartres il 5 dic. 1518. Non è pertanto da escludere che L., nel castello di Cloux, perfezionasse i suoi studi sul Monumento Trivulzio (Marani, in Fiorio - Terraroli, 2003, p. 270; Id., in Arte lombarda, 2004), come a voler collegare il suo nome a un monumento equestre da anni vagheggiato, a prescindere da quali ne fossero i committenti e i destinatari, che le avversità e i rovesci di fortuna gli avevano sempre impedito di portare a termine.
In Amboise, L. continuò a occuparsi di studi "de ludo geometrico", come dimostra il foglio del Codice Atlantico, c. 673r (ex 249ra-b), dedicato a questo tema, e datato "nel palazzo del Clu" il 24 giugno 1518 (per gli studi geometrici di L. si veda McCabe, in Keele - Pedretti, 1978-80, II, pp. 893-904). Un appunto del Codice Atlantico, c. 920r (ex 336vb), databile al 16 genn. 1517 (ma Villata, 1999, p. 265, lo elenca sotto al 1518), informa della precedente presenza di L. a Romorantin.
Nel vecchio castello di Romorantin, nel 1499, Anna di Bretagna, moglie di Luigi XII, aveva dato alla luce Claudia di Francia che sposava Francesco I nel 1514. Nel castello viveva anche Luisa di Savoia, madre di Francesco I. Questi decise di ampliare il castello, e dare grandezza e prosperità anche al borgo, avendo garantito anche ai suoi abitanti l'esenzione dalle tasse sul vino con un ordine del 1° marzo 1515 (Pedretti, 1972, pp. 124 s.). Fonti settecentesche (J.F. Bidaults, 25 maggio 1710: ibid., p. 72) riferiscono che Francesco I aveva effettivamente iniziato a ingrandire il vecchio castello nel 1515, ma che i lavori intrapresi con le fondazioni di un muro nel luogo chiamato "Les Lisses" furono interrotti a causa di un'epidemia scoppiata nel 1519-20. Di conseguenza il re decise di costruire un nuovo castello a Chambord.
Diversi disegni di L. sono stati messi in rapporto con questi avvenimenti (ibid., pp. 79-119) e, particolarmente, il disegno del Codice Atlantico, c. 209r, ex 76vb, databile appunto verso il 1517-18, che presenta la pianta di un palazzo monumentale, di forma rettangolare con torrioni agli angoli, fiancheggiante un fiume (forse la Sauldre), e corredato dalla scritta "strada d'Ambosa". Una veduta in prospettiva di questo palazzo è visibile sul foglio di Windsor, Royal Library, 12292v (ibid., fig. 143), che comunica l'impressione di un forte anticipo delle tendenze che si manifesteranno nell'architettura civile del maturo Rinascimento e del barocco.
Con testamento del 23 apr. 1519 (già a Vaprio d'Adda, Archivio Melzi d'Eril), stilato a Cloux, nella chiesa di S. Dionigi in Amboise, L., alla presenza di Francesco Melzi, nominato esecutore del testamento, "dona et concede ad Messer Francesco de Melzo, Gentilomo de Milano, per remuneratione de' servitii ad epso gratia lui facti per il passato, tutti et ciaschaduno li libri che el dicto Testatore ha de presente, et altri Instrumenti et Portracti circa l'arte sua et industria de Pictori"; gli altri suoi beni immobili, a Battista de Vilanis per metà di un giardino fuori le mura a Milano e a Salaì per l'altra metà; un podere a Fiesole, ai fratelli (quello acquistato nel 1503); i suoi beni liquidi, parte al Melzi (la pensione), parte ai fratelli (400 scudi depositati a S. Maria Nuova); e i suoi abiti alla fantesca Maturina. Non vengono menzionati, nel testamento, i dipinti che L. aveva mostrato al cardinale d'Aragona nel 1517. Ne è stato inferito che questi ultimi fossero stati già venduti in precedenza al re di Francia da Salaì (che ricevette infatti una somma ingente dal re nel 1517-18: Jestaz, 1999), oppure che fossero già stati riportati a Milano da Salaì, nell'inventario dei cui beni, del 1525, essi (oppure loro copie) figurano infatti insieme con altre opere e pietre preziose (Shell - Sironi, Salaì…, pp. 106 s.).
L. morì in Amboise il 2 maggio 1519, come informa Francesco Melzi in una lettera ai fratelli di L. del 1° giugno 1519.
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