Leonardo da Vinci
Nato il 15 aprile 1452 a Vinci, attivo come pittore a Firenze almeno dal 1472, si trasferisce a Milano presso Ludovico il Moro all’inizio degli anni Ottanta (forse nel 1482). Di nuovo a Firenze dall’estate 1500, è al servizio di Cesare Borgia, con l’incarico di «architetto e ingegnere generale» tra il 1502 e l’inizio del 1503. Tornato in patria, è coinvolto dalla Signoria in più opere d’ingegneria militare al campo sotto Pisa durante l’estate (in particolare l’ispezione della fortezza della Verruca e la deviazione dell’Arno). Sempre nel 1503, gli viene commissionato da Piero Soderini l’affresco della Battaglia di Anghiari nella sala del Gran consiglio a Palazzo Vecchio. Di nuovo a Milano dal 1506, lavora per i francesi. Nel 1513 si trasferisce a Roma, al servizio di Giuliano de’ Medici, fratello di Leone X.
Dopo la morte di questi, passa in Francia nel 1517 su invito del re Francesco I fissando la sua residenza a Cloux, nelle vicinanze del castello reale di Amboise. Qui muore il 2 maggio 1519.
Il rapporto tra L. e M. è un caso storiografico singolare: è stato infatti abbondantemente indagato, fino ad affermare l’esistenza di una loro «amicizia», la quale sarebbe documentata da ‘prove’; considerate un tempo «evidenti e indiscutibili» (Solmi 1912), queste sono oggi ritenute «indiziarie» (Pedretti 2008). Se nessuna testimonianza attendibile permette di accreditare una vera e propria relazione diretta tra i due, indizi e coincidenze hanno sollecitato l’immaginazione degli studiosi senza che essi abbiano trovato finora un appiglio documentario decisivo (Boucheron 2008). Due dati sono poco contestabili: M. non poteva non sapere chi fosse L. (ma il contrario non è scontato); vari indizi rendono molto probabili uno o più incontri. Il nome di L. appare nel corpus machiavelliano una sola volta, in una lettera ricevuta da M. allora in legazione a Roma; Luca Ugolini, dopo avergli fatto gli auguri per la nascita del figlio Bernardo, aggiunge: «e veramente Mona Marietta vostra non v’à ingannato, ché tutto sputato vi somiglia; Lionardo da Vinci non l’arebbe ritratto meglio» (11 nov. 1503, Lettere, p. 86). Inoltre M. appare come testimone del contratto per la Battaglia di Anghiari da dipingersi in Palazzo Vecchio (4 maggio 1504). Altri dati hanno invece una rilevanza indiretta. Una relazione tra L. e la cerchia del Segretario è testimoniata da un altro documento: è di mano di Agostino Vespucci una narrazione sintetica della battaglia di Anghiari, tratta e tradotta dal Trophaeum Anglaricum di Leonardo Dati e conservata nel Codice Atlantico (c. 202v, a-b; cfr. Pedretti 1977, 1° vol., pp. 381-82); secondo Pedretti, in più di un’occasione Vespucci avrebbe fatto per L. le veci di scrivano. Qualche anno fa è stato ritrovato nella biblioteca dell’Università di Heidelberg un esemplare dell’edizione bolognese (1477) delle epistole di Cicerone postillata dallo stesso Vespucci, in cui questi paragona L. ad Apelle, evoca i ritratti della «Lisa del Giocondo», di «Anna matris Verginis» e ciò che il pittore si appresta a fare nella sala del Gran consiglio (Schlechter 2005, pp. 28-29; Pedretti 2008, pp. 61416; Probst 2008). Insomma, negli anni del suo terzo periodo fiorentino (1503-06) L. è un artista e ingegnere ben conosciuto negli ambienti di cancelleria. La commissione della Battaglia di Anghiari non fu, in quegli anni, l’unico evento che poté dar luogo all’incrocio delle traiettorie dell’ingegnere e del Segretario. Può suscitare molte fantasticherie la loro presenza contemporanea in Romagna presso Cesare Borgia (fine giugno e soprattutto ultimi mesi del 1502), l’uno come legato della Signoria, l’altro in quanto ingegnere militare del condottiero principe. L’anno successivo, l’impresa di Pisa li vede coinvolti entrambi. Subito dopo l’espugnazione della fortezza della Verruca (17-18 giugno 1503) ordinata dal Segretario (M. ai «Commissariis in Castris», 14 giugno 1503, LCSG, 3° t., pp. 141-42), il commissario al campo Pier Francesco Tosinghi segnala alla Signoria che «Lionardo da Vinci venne lui e compagni» a ispezionare la fortezza, «a farla inespugnabile» (21 giugno 1503; cfr. Pedretti 2008, p. 365). Nei giorni seguenti, M. «ricorda» ai commissari «el raffortificare» la Verruca «perché questa provisione importa assai», e ribadisce la volontà dei Signori «che la si affortifichi» e «rassetti» (22, 24 e 25 giugno 1503, LCSG, 3° t., pp. 156-61). A questo fine, viene mandato l’architetto Luca del Caprina (27 giugno 1503, p. 165); L. non viene però menzionato da Machiavelli. Un mese dopo, il 24 luglio 1503, nuovamente «al campo sotto Pisa», L. studia un piano di deviazione dell’Arno. M. favorisce poi quella che chiama «l’opera dell’Arno», in particolare nelle sue lettere del 1504. Ma di nuovo, non esiste alcuna traccia di una diretta collaborazione tra i due. Nei primi di aprile 1504 M. effettua una legazione di pochi giorni presso il signore di Piombino. A sua volta, a fine novembre 1504, L. è mandato dalle autorità fiorentine a Piombino per migliorarne le fortificazioni. Esiste un legame tra le due missioni? Lo si può solo presumere. Insomma, che in quegli anni L. e M. si siano visti, è molto probabile; che abbiano collaborato direttamente è una possibilità (di cui si stenta però a capire come mai nessuna testimonianza permetta di accertarla); che siano stati legati da una qualche amicizia è solo un’illazione, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze.
Possono essere stabiliti confronti illuminanti tra gli scritti dell’artista e quelli del Segretario; niente permette invece di accertare collegamenti effettivi. Eugenio Garin ha sostenuto che il rapporto tra L. e M. debba essere ricercato in un comune «distacco» scientifico che li avrebbe condotti ad apprezzare gli strumenti più che gli usi, i mezzi più che i fini (Garin 1974, p. 42). Tale interpretazione li vede accomunati in un’analisi spregiudicata della forza e delle armi: entrambi sarebbero i depositari di un sapere disponibile ai potenti di qualsiasi tipo, a prescindere dei regimi. La loro spregiudicatezza morale e politica sarebbe così il corollario della loro spregiudicatezza epistemologica, nella ricerca di una scienza interamente fondata sulla realtà dei fatti («Qui, ma solo qui, Leonardo e Machiavelli si incontrano: non utopia, ma scienza»: Garin 1971, poi 1974, p. 324; cfr., ancora prima, Luporini 1953).
Certi testi di L. parrebbero precorrere concetti machiavelliani. Un caso rilevante è la proposta, probabilmente rivolta a Ludovico il Moro a metà degli anni Novanta, di un piano di espansione urbana di Milano (Codice Atlantico, c. 184v). Vi si esprime una concezione dell’urbanistica tutta politica e socioeconomica, come strumento di governo bastante ad assicurare l’obbedienza dei «popoli» ai «magnati» e la fedeltà di questi ai «signori»:
Dammi alturità che sanza tua spesa si farà tutte le terre obediscano ai lor capi [...].
Tutti i popoli obbediscano e so’ mossi da’ lor magnati. E essi magnati si collegano e costringano co’ signori per due vie: o per sanguinità o per roba sanguinata; sanguinità quando i lor figlioli sono, a similitudine di statichi, sicurtà e pegno della lor dubitata fede; roba, quando tu farai a ciascun d’essi murare una casa o due dentro alla tua città, della quale lui ne tragga qualch’entrata [...].
E chi mura ha pur qualche ricchezza, e con questo modo la poveraglia sarà disunita da simili abitatori [...]. E se pure lui in Milano abitare non vorrà, esso sarà fedele per non perdere il frutto della sua casa insieme col capitale.
I frammenti sono stati definiti un «astuto programma esecutivo che sembra anticipare il pensiero politico di Machiavelli», ideato con un «raffinato e accorto pragmatismo» in perfetta sintonia con la teoria politica machiavelliana (Pedretti 1978, p. 57; Pedretti 2008, pp. 257-58; Versiero 2012, p. 82). Tale collegamento è favorito dal giudizio tralatizio che impronta il pensiero machiavelliano a un realismo politico senza scrupoli. Tuttavia insistere sui mezzi di un’obbedienza incontrastata e pensare possibile l’immobilità dei rapporti di potere tra signori e magnati sono atteggiamenti poco compatibili con la dinamicità dei conflitti quale M. la concepisce. Di ‘machiavelliano’, il passo contiene essenzialmente la tripartizione degli attori politici (il principe e i due «umori» dei grandi e del popolo). Ma l’incontestabile modernità del suo contenuto non implica un qualsiasi accostamento a M.; del resto, ben più del Segretario fiorentino, saranno i pensatori politici di fine Cinquecento a sviluppare la tecnologia dell’obbedienza qui accennata da L. (e in particolare, nel risvolto urbanistico, territoriale ed economico della questione, un Giovanni Botero autore delle Cause della grandezza delle città e della Ragion di Stato).
Quanto alla libertà, è stato recentemente messo in rilievo l’interessante abbozzo di proemio a un trattato d’architettura militare, databile alla fine degli anni Ottanta:
Per mantenere il dono principal di natura, cioè libertà, trovo modo da offendere e difendere in stando assediati da li ambiziosi tiranni. E prima dirò del sito murale e ancora perché i popoli possino mantenere i loro boni e giusti signori (ms. B, c. 100r, cit. da Pedretti 2008, p. 260; cfr. anche Versiero 2012, p. 104).
Come in altri testi ‘politici’ di L., viene qui usato un lessico identico a quello che troviamo qualche anno dopo in Machiavelli. Ma lungi dall’esporre una concezione della libertà propria del cosiddetto «umanesimo civile» cui parteciperebbe il «repubblicanesimo» machiavelliano, L. sta definendo la sua perizia militare nel quadro terminologico tradizionale dei piccoli Stati territoriali italiani. La «libertà» che si difende con le armi offensive e difensive contro i tiranni che assediano la città è qui molto probabilmente l’indipendenza, che si vuole preservare contro ogni forma di aggressione esterna. La libertà qui tomisticamente definita come dono della natura si rivela perfettamente compatibile con la difesa dei «signori», dal momento in cui essi sono «boni e giusti»; anche loro, insieme ai «popoli», vanno protetti contro l’ambizione dei «tiranni». Ritroviamo quindi in L. un linguaggio tipico dell’Italia quattrocentesca, in cui spiccano sia l’antico lessico della «libertà» opposta alla «tirannia», sia il più recente «stato»: si veda il parallelismo tra Aristotele che «ebbe grande scientia» e Alessandro che «fu ricco di stato» (ms. Madrid II, c. 24r), o ancora il riferimento, probabilmente del 1500, al duca Ludovico Sforza che ha «perso lo stato e la roba e libertà» (ms. L, verso della copertina). Un linguaggio comune agli autori che a quell’epoca scrivono di questioni politiche e militari, e che viene maggiormente attivato con il dilagare delle guerre d’Italia. Le affinità concettuali tra L. e M. non vanno forzatamente viste in termini di fonti o d’influenze, anche se tali interpretazioni possono parere naturali quando si tratta, come qui, del pensiero di due «grandi autori» contemporanei. I passi in questione attestano piuttosto il linguaggio proprio dei protagonisti di una temperie fortemente segnata da un tipo nuovo di guerre, una temperie di cui entrambi gli autori sono stati fra le maggiori espressioni intellettuali.
Questo linguaggio comune a L. e M. si riscontra anche sul terreno epistemologico. I modi di apprendimento e i modelli conoscitivi che appartengono in proprio alla cultura delle botteghe fiorentine, notoriamente decisivi per L., si riflettono anche nella scrittura machiavelliana. Si tratta in particolare dell’importanza conferita all’esperienza come fonte di scienza e del rilievo dato al senso della vista nel processo conoscitivo. Il «vedere discosto», sul quale tanto insiste M. per caratterizzare metaforicamente le qualità di anticipazione temporale proprie agli uomini prudenti, è oggetto in L. di un’analisi accurata, nell’ambito della costituzione di una «scienza» della pittura. Peraltro, il famoso passo della dedica del Principe che fa riferimento a «coloro che disegnano e’ paesi» (§ 5) presenta le due situazioni, più volte analizzate dall’autore dei passi compilati nel Libro di pittura, della vista lontana dall’alto e della vista dei monti dal basso: situazioni che concernono sia il disegno pittorico sia la cartografia, e che si riferiscono sempre alla questione della rappresentazione del «paese» tramite la prospettiva aerea (Descendre 2008). Tra la figura del L. cartografo-pittore e l’analogia che funge da excusatio nella dedica del Principe, nessun rapporto diretto può essere certificato; si tratta di un contesto riflessivo in cui la prospettiva appare come un modello di conoscenza privilegiato in quanto articolazione specifica di esperienza e scienza. Tale appare in fin dei conti, tra L. e M., il denominatore comune più forte: la volontà di far dell’esperienza il primo fondamento del sapere, che li conduce ad adottare la massima libertà rispetto alle autorità tradizionali e ad affermare una renovatio radicale dei propri campi di competenza (Descendre 2014). L’asserzione del prevalere dell’esperienza, che segna sì fortemente la riflessione politica a Firenze nei primi anni del Cinquecento, oltrepassa i limiti che dividono i saperi. L. e M. hanno in comune la stessa volontà di far riconoscere la scientificità di una conoscenza la cui specificità è dovuta in primis, secondo la loro stessa attestazione, alla pratica del mestiere, ai tanti anni passati «a bottega», interamente dedicati «all’arte». Di pari passo, vengono in entrambi svalutati i saperi meramente «speculativi» («Fuggi e precetti di quelli speculatori che le loro ragioni non son confermate dalla isperienza», ms. B, c. 4v), quelli ai quali oppongono con costanza una conoscenza della «verità effettuale» (Principe xv 3). Ecco perché non è forse un caso se proprio ciò che L. riteneva la facoltà privilegiata di tale scienza empirica, la visione, diventa in M. la doppia metonimia della conoscenza e della prudenza.
Bibliografia: E. Solmi, Leonardo e Machiavelli, «Archivio storico lombardo», 1912, 17, pp. 209-44, poi in Id., Scritti vinciani, Firenze 1924, 19762, pp. 189-237; C. Luporini, La mente di Leonardo, Firenze 1953, rist. anast. 1997; E. Garin, La città in Leonardo (1971), poi in Leonardo da Vinci letto e commentato. Letture Vinciane I-XII (1960-1972), a cura di P. Galluzzi, Firenze 1974, pp. 309-25; C. Pedretti, La Verruca, «Renaissance quarterly», 1972, 25, 4, pp. 417-25; E. Garin, Leonardo and the strife-ridden Renaissance, «The Unesco courier», 1974, 27, 10, pp. 40-44; C. Pedretti, Commentary to the literary works of Leonardo da Vinci, 2 voll., Berkeley 1977; C. Pedretti, Leonardo architetto, Milano 1978; R.D. Masters, Machiavelli, Leonardo and the science of power, London 1996; R.D. Masters, Fortune is a river: Leonardo da Vinci & Niccolò Machiavelli’s magnificent dream to change the course of Florentine history, New York 1998; P.C. Marani, Luca Ugolini, Niccolò Machiavelli e la fama di Leonardo ritrattista nei primi anni del Cinquecento, in La lingua e le lingue di Machiavelli, a cura di A. Pontremoli, Firenze 2001, pp. 281-93; A. Schlechter, Die edel Kunst der Truckerey. Ausgewählte Inkunabeln der Universitätsbibliothek Heidelberg, Heidelberg 2005, pp. 28-29; C. Vecce, Leonardo, Roma 2006; P. Boucheron, Léonard et Machiavel, La-grasse 2008; R. Descendre, L’arpenteur et le peintre. Métaphore, géographie et invention chez Machiavel, «Laboratoire italien», 2008, 8, pp. 63-98; C. Pedretti, Leonardo & io, Milano 2008; V. Probst, Zur Entstehungsgeschichte der Mona Lisa. Leonardo da Vinci trifft Niccolò Machiavelli und Agostino Vespucci, Heidelberg 2008; M. Versiero, Il dono della libertà e l’ambizione dei tiranni. L’arte della politica nel pensiero di Leonardo da Vinci, Napoli 2012; R. Descendre, “È certo che più vale la pratica che la teorica”. Premières remarques sur l’expérience comme enjeu de savoir au début du XVIe siècle (Léonard, Vespucci, Machiavel), in Catégories et termes de la politique à la Renaissance, éd. J.-L. Fournel, H. Miesse, P. Moreno, Bruxelles-Bern 2014, pp. 114-26.
Per i mss. di L. si veda: http://www.leonardodigitale.com/