Leonardo da Vinci
Leonardo da Vinci è sicuramente una delle figure più rappresentative del Rinascimento, di cui incarna l’aspirazione di conoscenza del reale per mezzo della ragione e dell’esperienza; allo stesso tempo, la sua carriera compendia l’ideale di ‘uomo universale’, proiettato contemporaneamente verso l’indagine della natura, la sapienza pratica degli ingegneri, la ricerca della bellezza e la rappresentazione della realtà per mezzo delle arti figurative. Una posizione non isolata, ma profondamente incardinata nelle dinamiche di rapporto tra intellettuale e potere, in una Italia, quella tra 15° e 16° sec., in cui entra in crisi il sistema di equilibrio dei potentati nazionali e si scatena la lotta delle nuove potenze europee.
Leonardo nacque a Vinci il 15 aprile 1452, figlio illegittimo del notaio ser Piero da Vinci e di una contadina di nome Caterina. Ancora ragazzo, fu messo a bottega di Andrea del Verrocchio, uno dei più attivi artisti fiorentini, legato al patronato di Lorenzo il Magnifico e quindi alla sua cerchia (Luigi Pulci, autore del Morgante, Angelo Poliziano, maestro della nuova filologia, e Marsilio Ficino, promotore del ritorno alla filosofia degli antichi e soprattutto a Platone). La formazione di Leonardo fu in parte quella di un geniale autodidatta e in parte quella della ‘bottega’, un laboratorio intellettuale aperto a molteplici esperienze, dalla filosofia alle tecnologie e alle arti figurative, allora dette meccaniche, e considerate inferiori alle arti liberali, in un percorso di studi alternativo alle scuole degli umanisti. Leonardo collaborò attivamente con il maestro (per es., nel Battesimo di Cristo, Firenze, Uffizi), e realizzò le sue prime opere, l’Annunciazione (Parigi, Louvre, 1472 ca.), la Ginevra de’ Benci (Washington, National gallery, 1474 ca.), e l’Adorazione dei magi (Firenze, Uffizi, 1481 ca.). Gli inizi fiorentini della sua carriera furono però un periodo difficile per Leonardo, che non riuscì a imporsi nel contesto artistico contemporaneo (sopravanzato da Sandro Botticelli e da Pietro Perugino), e dovette subire anche un processo per sodomia. A quasi trent’anni, decise allora di lasciare Firenze per Milano, dove cercò di entrare al servizio del duca Ludovico il Moro, con una singolare lettera di presentazione in cui elencava soprattutto le competenze di ingegnere militare, e solo alla fine, nelle ultime righe, quelle di pittore e scultore:
Item, conducerò in sculptura di marmore, di bronzo et di terra, similiter in pictura, ciò che si possa fare ad paragone de omni altro, et sia chi vole. Ancora si poterà dare opera al cavallo di bronzo, che sarà gloria imortale et aeterno honore de la felice memoria del Signor vostro patre et de la inclita casa Sforzesca (Codice Atlantico, f. 1082r).
Dopo aver eseguito la tavola della Vergine delle rocce (Parigi, Louvre, 1483-85 ca.), entrò al servizio del duca, ritraendo la sua giovane amante Cecilia Gallerani nella Dama con l’ermellino (Cracovia, museo Czartoryski, 1488 ca.), e soprattutto iniziando a progettare il più grande monumento equestre del Rinascimento, la statua di Francesco Sforza, destinata però a non essere mai completata. Una grande e rivoluzionaria pittura murale nel refettorio del convento milanese di Santa Maria delle Grazie, l’Ultima cena (1495-97), consacrò la sua fama di più grande pittore dell’epoca.
Oltre all’attività artistica, Leonardo si dedicò a quelle di ingegnere militare e architetto, al fianco di Donato Bramante, Giuliano da Sangallo e Francesco di Giorgio Martini, e fu anche organizzatore di feste e spettacoli teatrali (celebre la Festa del Paradiso, 1490, su libretto composto dal poeta toscano Bernardo Bellincioni). Conquistata Milano dai francesi nel 1499, Leonardo (passando da Mantova e Venezia) ritornò a Firenze, dove cominciò la Sant’Anna; ma ne ripartì presto, per entrare al servizio di Cesare Borgia come ingegnere militare, da Urbino alla Romagna (1502-1503).
Di nuovo a Firenze, grazie alla mediazione di Niccolò Machiavelli, ottenne l’incarico di dipingere la Battaglia di Anghiari nella Sala grande di Palazzo Vecchio. Era un’opera di evidente significato politico e civile, che celebrava in un episodio bellico del Quattrocento la potenza della repubblica fiorentina: ma anch’essa rimase incompiuta, a causa di un’altra partenza dell’artista per Milano, chiamato stavolta da Charles d’Amboise, luogotenente del re di Francia, Luigi XII (1506).
Negli stessi anni, tra Firenze e Milano, Leonardo portò avanti la composizione dei suoi ultimi capolavori: Monna Lisa, la Sant’Anna, il San Giovanni (Parigi, Louvre). Dopo un breve periodo trascorso a Roma al servizio di papa Leone X (1513-16), Leonardo accettò l’invito del nuovo re di Francia, Francesco I, e si stabilì nel piccolo castello di Cloux presso Amboise, dove morì nel 1519, affidando i propri manoscritti al suo ultimo allievo, Francesco Melzi.
Un aspetto singolare e quasi paradossale della carriera di Leonardo è il fatto che una parte preponderante della sua attività fu dedicata non all’operare artistico ma alla scrittura. All’inizio, la finalità non era dissimile da quella di altri artisti e ingegneri del Rinascimento: la registrazione di esperienze pratiche e osservazioni del reale (non senza l’ausilio dello strumento del disegno), e trascrizioni dai testi degli auctores (o, come li chiama Leonardo, gli «altori»).
La scrittura di ‘registrazione’ era d’altronde un fatto piuttosto comune nell’ambiente originario di Leonardo (una famiglia di notai fiorentini), sia nella forma dell’atto pubblico sia in quella della memoria privata (il ‘libro di ricordi’). Diverso (e più raro) era il caso di chi, come Piero della Francesca o Francesco di Giorgio Martini, voleva passare al livello della composizione di libri, di trattati: l’‘artefice’ entrava allora nel campo proprio della cultura umanistica ed era costretto a misurare le proprie capacità linguistiche ed espressive con quelle degli umanisti, che consideravano ‘arti meccaniche’ le arti figurative e le discipline ingegneristiche e tecnologiche, a un livello quindi inferiore rispetto alle arti liberali.
Leonardo appare ben consapevole di tali problematiche quando, a quasi quarant’anni, decide di diventare uno ‘scrittore’, inventandosi (da autodidatta) una metodologia di studio che ricorda comunque quella degli umanisti, il minuzioso smontaggio dei testi degli «altori» e la formazione e l’elevazione del lessico per mezzo del «vocabulizare». Ne resta testimonianza nel suo più antico quaderno, il Codice B, compilato a Milano verso la fine degli anni Ottanta (in gran parte uno zibaldone derivato dalla lettura del De re militari di Roberto Valturio, nel volgarizzamento di Paolo Ramusio); e soprattutto nel Codice Trivulziano (1490 ca.), che raccoglie migliaia di vocaboli (spesso latineggianti o percepiti come ‘letterari’) da varie fonti tra cui il Valturio, il Novellino di Masuccio Salernitano e il Vocabulista di Luigi Pulci. Le liste lessicali sono anche il documento più impressionante di quella che Italo Calvino ha definito una «battaglia con la lingua» (Lezioni americane, 1988, p. 75) che percorre tutta la testualità di Leonardo. La sua scrittura, infatti, a differenza di quella dei contemporanei (dagli umanisti latini agli scrittori in volgare), resta sempre uno strumento aperto, potenzialmente infinito, teso all’inseguimento delle forme del reale nella loro continua mutazione.
Nei suoi fogli, Leonardo ricompone più volte gli stessi testi, cercando di raggiungere il livello massimo di esattezza e concretezza, e poi li trascrive da un quaderno all’altro, in una pratica della riscrittura che dà a quei testi un carattere mobile e sfuggente. Ma è in quella tensione all’esattezza che si può riconoscere la modernità della sua prosa che (non lontana dall’immediatezza espressiva dell’oralità) abbandona le sovrastrutture retoriche della tradizione letteraria, nel più significativo esempio di comunicazione scientifica e intellettuale prima di Galileo Galilei. Di più: questa testualità ‘in movimento’, non chiusa ma aperta, in grado di seguire la realtà in trasformazione mutando continuamente se stessa, può essere considerata una delle ‘invenzioni’ più efficaci di Leonardo.
Il rapporto con gli «altori» resta però difficile e contraddittorio. Da un lato, Leonardo sente di non poter avvicinarsi compiutamente a essi, soprattutto per la debolezza delle sue competenze linguistiche (la scarsa conoscenza del latino e l’ignoranza del greco), che invece erano fondamentali per gli umanisti, e quindi ribatte orgogliosamente, a chi lo accusa di essere un «omo sanza lettere», di derivare la propria scienza direttamente dalla natura: «So bene che, per non essere io litterato, che alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere» (Codice Atlantico, f. 327v). Dall’altro, è un artista che legge molto, sicuramente più dei suoi colleghi. La sua ‘biblioteca’ si può ricostruire parzialmente (oltre che dall’evidenza interna dei testi) per mezzo di due liste di libri che non sono propriamente ‘inventari’, ma probabilmente elenchi di volumi stilati in occasione di viaggi o spostamenti (Codice Atlantico, f. 559, 1495 ca., e Codice di Madrid II, ff. 2v-3v, 1503 ca.). Dalle due liste emergono interessi per così dire ‘culturali’ (e letterari), che corrispondono alle aspirazioni profonde di Leonardo scrittore: la Storia naturale di Plinio il Vecchio volgarizzata da Cristoforo Landino, le Metamorfosi di Ovidio, la Bibbia e gli storici antichi (Tito Livio, Marco Giuniano Giustino), la Commedia e il Convivio di Dante Alighieri, ma anche L’Acerba di Cecco d’Ascoli, il Decameron di Giovanni Boccaccio e il Novellino di Masuccio, i poemi cavallereschi di Luigi e Luca Pulci; e naturalmente i testi trattatistici, tra i quali spiccano quelli di Leon Battista Alberti (il De pictura e il De re aedificatoria).
Tra le migliaia di fogli dei manoscritti non mancano quindi scritti che possono essere considerati ‘letterari’, perché legati a generi della letteratura contemporanea, soprattutto popolare e orale: le favole, le facezie e i motti, il bestiario (Codice H), i proverbi, gli indovinelli (nella forma ambigua della Profezia), il cantare romanzesco e il racconto fiabesco. La tipologia testuale più rappresentata è però quella della comunicazione scientifica e intellettuale, in testi che non sono di solito più lunghi di una pagina, costruiti come capitoli di trattati, con titoli e strutture argomentative di tipo tradizionale. A loro volta, molti di questi testi sono esplicitamente ‘marcati’ da Leonardo per l’inclusione in progetti di trattati (mai realizzati) sull’anatomia (in origine Libro titolato de figura umana, Windsor, Royal library, f. 19059r, 1489; e si veda Corpus of the anatomical studies, 1978-1990, f. 40r), la meccanica, l’idrologia, le scienze della Terra, l’ingegneria militare e così via.
Un gruppo consistente di testi sulla pittura, l’ottica e la prospettiva (in parte già raccolti nel Codice A e nel Codice C, 1490-92) saranno trascritti dopo la morte di Leonardo da F. Melzi, con il titolo Libro di pittura (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vaticano Urbinate lat. 1270, 1540 ca.). La prima parte di questa importante raccolta (definita oggi Paragone) affronta il tema del confronto tra le diverse forme di espressione umana, dalle arti della parola (la poesia, la storia, la filosofia) a quelle dell’immagine (la pittura e la scultura) e del suono (la musica). Ricollegandosi al dibattito umanistico contemporaneo, Leonardo rovescia la posizione di primato delle arti liberali, e rivendica invece alla pittura un primato in immediatezza e universalità comunicativa, oltre che come strumento di comprensione del reale. Anche se nel Paragone il figurare appare superiore al descrivere, se si tiene conto dell’intero itinerario del pensiero di Leonardo si può dire che l’esercizio della parola resta comunque fondamentale, perché in grado di andare oltre i limiti del segno iconico nella rappresentazione della temporalità e della narrazione, come rivelano le straordinarie descrizioni (sia di fenomeni naturali sia di eventi complessi come una battaglia), culminanti nei tardi testi e disegni dei Diluvii, visioni apocalittiche del rivolgimento cosmico (Windsor, Royal library, ff. 12376-12388 e 12665r-v).
Il confronto di immagine e parola nel Paragone prende costantemente, come si è visto, la forma di una sfida a volte cortese, a volte polemica. La veste letteraria non riesce però a mascherare il contenuto teorico delle questioni qui sollevate, che si addensano nelle figure rispettivamente del paragone tra pittura e musica, scultura e poesia, attorno alla relazione tra tempo dipinto e tempo reale, tra spazio dipinto e spazio reale, tra linguaggio delle immagini e linguaggio delle parole. Nel caso di musica e scultura, la prima, per poter articolare nell’armonia un discorso fatto di molte voci, è costretta a sottoporsi al tempo come dimensione esteriore, da essa non dipendente, per cui la «bellezza» che risiede nei «tempi armonici» deve «variarsi dando figurazione ad un altro», e perciò l’essere della bellezza musicale è in realtà un «nascere e morire» (Libro di pittura, a cura di C. Pedretti, C. Vecce, 1995, p. 153, § 30; e si veda Codice Atlantico, f. 1060a). Al contrario, la pittura compone il molteplice e il vario in un’unica figura che non deve ‘svolgersi’ ma si dà tutta allo stesso tempo e, oltre a ciò, creando un’immagine della cosa sottrae quest’ultima al naturale processo del tempo, bloccando e così rendendo «permanente» la sua bellezza. Analogamente, nel caso del paragone con la scultura, la dimensione che la pittura ricrea dal proprio interno, liberamente, è lo spazio, che la scultura usa invece come dimensione che le è data e dalla quale pertanto dipende:
Lo scultore [...] è aiutato dalla natura del rilevo, che·lla genera per sé; e il pittore per accidentale arte lo fa ne lochi dove ragionevolmente lo farebbe la natura (Libro di pittura, cit., p. 161, § 38).
Vi è qui una sottolineatura del carattere più universale della pittura rispetto alla scultura, dato che essa non lascia margine al caso, ma grazie alla propria «accidentale arte» riproduce nel dipinto solamente la natura in quanto riflesso della ragione (come aveva già scritto l’Alberti nel De pictura). Lo spazio è dal pittore costruito «per forza de scienzia» (Libro di pittura, cit., p. 158, § 35). Cosí, «la pittura è di maggiore discorso mentale e di maggiore artifizio e maraviglia che la scultura» (p. 164, § 40): presuppone cioè, per l’esecuzione, una maggiore quantità di nozioni ‘mentali’.
Queste nozioni si condensano nella prospettiva, di cui Leonardo abbozza nel Paragone un’immagine che esorbita di molto da quella di una mera tecnica della raffigurazione, come l’aveva codificata Alberti, e procede invece a recuperare aspetti anteriori, della prospettiva come scienza della visione e anche come scienza universale degli effetti naturali. Di qui, anche, un’idea di prospettiva come punto di annodamento di pittura e fisica (nel suo assai ampio senso tardomedioevale), che segna il progetto filosofico di Leonardo lungo l’ultimo decennio del Quattocento e l’avvio del successivo.
La pittura è dunque più ‘filosofica’ delle altre arti, perché nel porsi in relazione al mondo nella maniera sua propria – considerando la realtà come «campo del ‘visibile’, nella sua interezza, in tutte le sue possibilità» (Luporini 1953, pp. 145-47) – grazie alla prospettiva ne rimane indipendente, lo domina, in quanto non subisce le dimensioni dello spazio e del tempo come limiti (la scultura ha «obbligo [...] col lume») ma le costruisce entrambe («tutte e’ parti porta seco») e liberamente le combina (Libro di pittura, cit., p. 167, § 44). Di qui prende origine un’enfasi non solo retorica sulle capacità ‘divine’ del pittore, equiparato a un nuovo signore della natura. Egli infatti sa strappare la bellezza alla signoria dissolutrice del tempo, come la natura non sa fare:
Quante pitture han conservato il simulacro d’una divina bellezza che ’l tempo o morte in breve ha distrutto il natural essempio, et è restata più degna l’opera del pittore che della natura sua maestra! (p. 154, § 30).
E d’altra parte sa ricreare la realtà visiva dello spazio, con effetti illusionistici che ingannano uomini e animali (pp. 138-39, § 14, e p. 144, § 19, con esempi risalenti a Plinio, Naturalis historia, XXXV, 65-66). La sua «scienzia» possiede una «deità» che fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina; imperò che con libera potestà discorre alla generazione di diverse essenzie di varii animali, piante, frutti, paesi, campagne, ruine di monti, loghi paurosi e spaventevoli, che danno terrore alli loro risguardatori (p. 178, § 68).
Il pittore assume così uno statuto ambiguo: quasi essere sovrannaturale (come nel De pictura dell’Alberti), egli può con le proprie creazioni annullare il tempo rendendo eterna la bellezza, ma anche signoreggiare i popoli con il suscitare emozioni a suo piacimento:
Con questa [la pittura] si move li amanti inverso li simulacri della cosa amata a parlare con le imitate pitture; con questa si move li populi con infervorati voti a ricercare li simulacri delli iddii (p. 138, § 14).
Con questa [la pittura] si fa simulacri alli dii; [...] con questa si dà copia alli amanti della causa de’ loro amori; con questa si riserva le bellezze, le quali il tempo e la natura fa fuggitive (p. 155, § 31b).
Per altro verso, però, il carattere ‘mentale’ della pittura è funzionale a mettersi al posto della natura, o meglio al posto del suo nucleo razionale, rispondente alle leggi della necessità:
La pittura è di maggiore discorso mentale e di maggior artifizio e maraviglia che la scultura, con ciò sia che necessità costrigne la mente del pittore a trasmutarsi nella propria mente di natura (p. 164, § 40).
Nel confronto della pittura con la poesia, questa duplicità e anche la complessità del discorso di Leonardo emergono con particolare forza. Qui infatti la superiorità della pittura deriva dal fatto che il ‘linguaggio’ di cui essa fa uso, l’immagine, è non solo una diretta derivazione della natura, ma è capace di restituire la realtà come intreccio di tempi diversi. Mentre la parola poetica, per sua natura risuonante nella voce, è non solo sottoposta alla dimensione del tempo, ma, lungi dal restituire, è in grado non più che di ‘alludere’ alla realtà, perché rappresenta la natura in modo mediato: le parole sono infatti «opere degli omini» (p. 134, § 7) e «la poesia pon le sue cose nella imaginazione de le lettere» (p. 132, § 7), che appartengono al campo dell’accidentale. D’altra parte, lo si è visto, anche il pittore si serve dell’‘accidentale’ per poter ‘tramutare’ con maggiore efficacia la sua mente in quella della natura.
La pittura oscilla così ambiguamente tra l’idea di una «scienza semidivina» (Galluzzi 1989, p. 25) e quella di una più modesta arte, la cui destinazione consiste nell’interpretazione del confronto stesso tra la natura e l’arte, il naturale e l’accidentale, la storia della Terra e quella della civiltà umana. Il pittore diventa «interprete infra essa natura e l’arte» (Libro di pittura, cit., p. 164, § 40), assumendo così, in un certo senso, la funzione di un demiurgo, nel duplice significato di questo termine: da una parte semidivino mediatore della creazione, sottratto alla comune umanità, dall’altra semplice artigiano, che esercita un’attività utile per il popolo, che media tra la natura e la civiltà esercitando una funzione civile di profondo significato.
Questa oscillazione si lega strettamente al modo in cui Leonardo, nell’ultimo decennio del Quattrocento, pensa la nozione di tempo. Se infatti i problemi che lo spazio pone all’arte consistono essenzialmente nella simulazione della distanza e nella costruzione del ‘rilievo’, per cui la disputa è circoscritta a pittura e scultura, il tempo è una dimensione più universale, perché non solamente è il luogo in cui necessariamente accade la fruizione dell’opera, ma, in quanto avvicendarsi del sorgere e del tramontare di tutte le cose, è il termine di confronto generale di ogni arte, l’avversario nella sfida per la conquista dell’eternità, per la costruzione di una bellezza sottratta alla morte. Anzi, il tempo è il termine di confronto più in generale per l’arte come sinonimo di ogni attività e produzione umana, e addirittura per ogni ‘forma’, per ogni aggregazione, anche naturale. Così – come potenza dissolutrice – il tempo compare in alcuni testi risalenti al periodo fiorentino.
Si tratta di passaggi celebri: la «gran caverna» piena della «gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura», dinanzi alla quale il viandante è preda di «due contrarie cose, paura e desidero: paura per la minac[cian]te scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcu[na] miracolosa cosa» (Codice Arundel, f. 155r, 1478 ca.); il mostro marino, «potente e già animato strumento dell’arteficiosa natura», che è stato ridotto dal «tempo consumatore» a un mucchio di «ispogliate e ignude ossa» in ottemperanza alla «legge che Dio e ’l tempo dié alla genitrice natura» (f. 156r); il «termine della terrestre natura», cioè la fine della vita sulla Terra, inaridita per la sua stessa logica di crescita (f. 155v).
In questi passaggi Leonardo si abbandona a un’esplorazione del meccanismo naturale che rimane priva di qualsiasi «cordialità umana», a una ricerca che, per contrappasso, si fa vagheggiamento ossessivo non soltanto dell’estremo limite di resistenza di quel meccanismo ma anche, e conseguentemente, della rottura. Così nella esperienza sessuale, come nell’arte della guerra, nel volo, nella finale catastrofe del mondo (C. Dionisotti, Leonardo uomo di lettere, «Italia medievale e umanistica» 1962, 5, pp. 198-99).
La natura è il terreno di una guerra costante tra la tensione aggregativa delle forme e quella dissolutrice del tempo. La pittura, le arti, le tecniche in generale, le ‘forme’ infine tutte sono protagoniste di questa eterna lotta, nella quale la civiltà umana viene sempre di nuovo sommersa dal tempo:
O tempo, consumatore delle cose, in te rivolgendole, dai alle tratte vite nuove e varie abitazioni. O tempo, veloce predatore delle cose create, quanti re, quanti popoli hai tu disfatti! (Codice Arundel, f. 156r).
Sono temi di matrice pitagorica, che possono essere giunti a Leonardo attraverso le ovidiane Metamorfosi. In un foglio del Codice Atlantico (f. 195r), databile anch’esso alla fine del periodo fiorentino (1480 ca.), egli abbozza due tentativi di traduzione da Ovidio («ma avendo in mano e trascrivendo letteralmente, salvo lievi modifiche, i corrispondenti passi della versione in prosa volgare trecentesca di Arrigo Simintendi di Prato», come osserva Romano Nanni, Ovidio Metamorfoseos, «Letteratura italiana antica», 2003, 3, p. 380), tra cui il passo sul «tempo consumatore» che distrugge tutte le cose (Ovidio, Metamorfosi, XV, 232-36; poco prima, ai vv. 176-85, si descrive il tempo come un fiume che tutto trascina e riforma).
Accanto al tema pitagorico della trasmutazione e trasmigrazione, per cui il tempo è un grande vettore di ricombinazione, è però presente in Leonardo anche tutta una cultura della miscredenza, legata ai nomi dei due Pulci, o, per altro versante, al primitivismo di Piero di Cosimo, e attraverso di lui alla tematica lucreziana dell’origine delle istituzioni e della stessa umanità. Mediante questi canali Leonardo poteva confrontarsi con l’immagine del filosofo come colui che è in grado di osservare con distacco l’avvicendarsi dei tempi, conducendo una ricerca naturale improntata alla ferrea necessità, ma che è anche mosso da una profonda pietà e compassione per la sorte del genere umano, di cui aspira ad alleviare le sofferenze. Né individuo eccezionale, né mago, dunque, ma ‘artefice’ dentro la città.
Il rapporto di Leonardo con Lucrezio è una questione aperta (cfr. M. Beretta, Leonardo and Lucretius, «Rinascimento», 2009, 49, pp. 341-72). È un fatto, però, che l’insieme delle riflessioni filosofiche del Vinciano posteriori al 1500 sono una messa in discussione di certe premesse – carattere eccezionale del pittore e della pittura, indifferenza per le sorti del genere umano, tempo come potenza cosmica di dissoluzione – a favore di una naturalizzazione sempre meglio formulata dell’arte e di una storicizzazione della natura terrestre, di un approccio, insomma, nel quale la stessa distinzione tra ‘naturale’ e ‘accidentale’ diventa sfuggente e lascia il posto a una riconsiderazione del piano «storico-naturale» (Batkin 1988; trad. it. 1988, p. 123) come dimensione unitaria e originaria di ogni possibile conoscenza e attività.
Se nell’ultimo decennio del Quattrocento, come si è visto, la pittura ricava la propria eccezionalità dalla capacità di assorbire e ricreare da sé lo spazio, e di porsi al di sopra del tempo, così formando, insieme alla prospettiva, la pietra angolare di un’intera filosofia naturale, in seguito questa concezione viene profondamente ripensata: non più la qualità eccezionale di sottrarsi alla logica della natura caratterizza l’immagine pittorica, quanto, piuttosto la sua capacità di mettere in scena la complessa dinamica fisica nella sua irresolutezza e apertura.
La temporalità non è più connotata necessariamente da mera successione e transitorietà, ma da una dinamica, da una forza che produce il tempo, una forza la cui costitutiva apertura può [...] essere messa in scena nell’immagine (F. Fehrenbach, Blick der Engel und lebendige Kraft. Bildzeit, Sprachzeit und Naturzeit bei Leonardo, in Leonardo da Vinci: Natur im Übergang. Beiträge zu Wissenschaft, Kunst und Technik, hrsg. F. Fehrenbach, 2002, p. 203).
Contestualmente, la filosofia naturale perde la sua iniziale caratteristica geometrizzante e totalizzante, per assumere un andamento fenomenologico e qualitativo che si adatta alla singolarità dei diversi campi di indagine (idrodinamica, geologia, anatomia, astronomia, ottica e così via), mentre nella ricerca meccanica, in particolare, si può riscontrare «una restaurazione di fatto della fisica qualitativa, non per scelta intenzionale, ma per il fallimento di un progetto di trattazione quantitativa eccessivamente ambizioso» (Galluzzi 1989, p. 23).
Le vicende di questo progetto iniziale, e della sua crisi, possono essere seguite prendendo in considerazione le riflessioni, che si infittiscono attorno agli anni 1490-92, sulle «potenze di natura» o «accidentali» e sulla prospettiva come, al contempo, teoria della rappresentazione e della visione. In entrambe, e come per tenere insieme le due problematiche, Leonardo adotta un lessico assolutamente originale, non presente cioè in nessuna delle tradizioni alle quali egli poteva fare riferimento. Infatti, sia per descrivere la natura delle grandezze meccaniche (forza, moto, colpo e peso), sia nel discutere l’essere proprio delle specie visive, in quanto nozione cardinale della prospettiva, negli appunti dell’ultimo decennio del Quattrocento egli fa uso di un’espressione – «tutte nel tutto, e tutte nella parte» – tratta di peso dal linguaggio teologico: era infatti un modo tradizionale (e diffusissimo) di designare il modo di essere dell’anima nel corpo dell’essere umano, o anche l’essere di Dio nel mondo (come fa Luca Pacioli nel De divina proportione, 5, f. 13r; e si veda K.H. Veltman, Leonardo and the ‘camera obscura’, in Studi vinciani in onore di Nando De Toni, 1986, pp. 83-84). Inoltre, sia pure con qualche oscillazione ed eccezione, sia le specie visive, sia le potenze accidentali, vengono definite «spirituali», cioè appartenenti a una sfera della realtà sottratta alle comuni limitazioni del mondo corporeo, come la dimensionalità, la localizzabilità, la velocità finita e così via.
Così, in testi degli anni 1490-95, la forza è definita una «potenza spirituale», cioè come qualcosa che è a un tempo incorporeo e fenomenologicamente equivalente alla presenza nel corpo di «vita attiva» (Codice B, f. 63r, 1487 ca.; Codice Atlantico, f. 826r, 1490 ca., e f. 681r, 1492 ca.; Codice A, f. 34v, 1492 ca.), ed è detta responsabile del moto locale violento del corpo pesante in quanto «infusa» in esso, a un tempo, come un tutto presente nel tutto e in ciascuna delle sue singole parti. Ciò viene anche detto delle specie visive:
Come l’occhio, il razzo del sole e la mente sono i più veloci moti che sieno. Il sole, immediate ch’elli appare nell’oriente, subito discorre co’ sua radi all’occidente, i quali sono composti di 3 potenzie spirituali, cioè splendore, calore e spezie della forma della lor cagione. L’occhio, subito ch’è aperto, vede tutte le stelle del nostro emisperio. La mente salta ’n un attimo dall’oriente all’occidente e tutte l’altre cose spirituali sono di gran lunga dissimile per velocità a queste (Codice Atlantico, f. 545v, 1492 ca.).
Come risulta da quest’ultimo passaggio, pensando alla nozione di cose o ‘potenze’ spirituali Leonardo ha in mente qualcosa di assai più ampio: un’idea (di matrice spiccatamente ermetica) di natura come attraversata da energie, che si investono e dissipano nei corpi. Leonardo, per un verso, riprende la concezione della prospettiva come centro della filosofia naturale, come era stata sviluppata da una ricca tradizione che andava per lo meno da Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone a John Peckham e Witelo (degli ultimi due egli conosceva i manuali di ottica, del resto diffusissimi, e del secondo si riprometteva di cercare le opere a stampa). Per l’altro verso, però, egli rilegge questa stessa tradizione alla luce di una nozione di natura che riprende molte tematiche dall’ermetismo.
Ne risulta una singolarissima e instabile mescolanza, che nella mente di Leonardo dovrebbe dare luogo a tutta una serie di sviluppi nella dinamica, nella cinematica, nella statica, nella prospettiva, secondo un modello unitario di dissipazione ‘piramidale’ – «tutte le potenzie naturali sono da essere dette piramidali, con ciò sia che esse abbino gradi in continua proporzione inverso il suo diminuire, come inverso il loro accrescimento» (Codice Atlantico, f. 470r, 1500 ca.) –, ma che incorre in inevitabili aporie, dato che pretende di porre alla base della misurazione una sfera della realtà che alla misurazione è strutturalmente sottratta (perché infinita e istantanea).
Leonardo pensa di poter sfuggire alla difficoltà di commisurare il finito intervallo corporeo mediante l’infinito e istantaneo mondo delle energie spirituali adottando la teoria aristotelica del continuo. La sfera della matematica, per un verso, e quella delle grandezze fisiche, per l’altro, possono trovare una corrispondenza uno a uno in quanto entrambe sono infinitamente divisibili. Ciò comporta però un’ulteriore e decisiva difficoltà, derivante da ciò, che l’infinito attuale, sempre implicito dentro le procedure aristoteliche di divisione del continuo, ma mai attingibile, è realmente presente dentro i fenomeni, se si vuole presupporre una loro natura matematica. Da ciò, tutta una serie di paradossi (Galluzzi 1989; Fehrenbach 1997, pp. 211-15), che si possono riassumere nell’impossibilità di giungere a far coincidere il punto matematico (chiave di ogni misurazione e infinitamente diviso in atto) con il punto naturale (oggetto di ogni misurazione e infinitamente divisibile).
Dopo il 1500, Leonardo prende gradualmente atto di questa difficoltà e sviluppa, in una celebre serie di fogli (quasi tutti risalenti agli anni 1506-1508), una serrata discussione sull’«essere del nulla», identificando in questo essere del tutto paradossale proprio quella sfera di realtà in precedenza denominata «spirituale». Il passaggio è decisivo: qui la natura peculiare del livello spirituale viene apertamente messa a tema come qualcosa che non può venire ridotto all’essere della natura. Non però come una sfera di trascendenza: le riflessioni di Leonardo sono piuttosto indirizzate – sia pure tra incertezze e oscillazioni – a far emergere il modo in cui dentro la realtà fisica in tutte le sue dimensioni sia presente ed efficace un principio immanente, il nulla appunto, che sempre di nuovo destabilizza la compatta unità e identità delle cose, mai giungendo a distruggerle ma, allo stesso tempo, sempre spingendole oltre se stesse e relativizzando la loro reciproca distinzione. Si potrebbe dire che la nozione di «essere del nulla» riprende e traduce in termini nuovi l’idea, che Leonardo alimenta fin dai primi tentativi letterari, di una lotta interna alle cose, una compresenza di contrari come origine del movimento. Solo che adesso la lotta promana dallo stesso principio interno alle cose, quella sfera «spirituale» che avrebbe dovuto garantirne l’intelligibilità, e che invece si rovescia nella segnalazione del loro limite, del loro convertirsi nel non essere.
Gli appunti in cui l’idea dell’«essere del nulla» giunge a delinearsi sono aggrovigliati. Si può però individuare in essi la tensione verso un intendimento non meramente negativo del nulla, come assenza di corpo, vuoto o termine del corpo che, secondo la teoria del continuo, non fa parte di esso. Questa tensione trova il suo momento decisivo quando Leonardo, dopo molti tentativi in altre direzioni, identifica punto e nulla. Il punto infatti non ha parti e in esso, proprio per questa ragione, la parte è uguale al tutto:
Tutti li punti sono equali a uno e uno a tutti. [...] Seguita che ’l punto è men che nulla: e se tutte le parte del nulla sono equali a 1, concluderassi maggiormente che tutti li punti ancora sono equali a 1 solo punto e 1 punto è equale a tutti. E per questo seguita che molti punti immaginati in contatto non compongano la linia e per conseguezia molte linie in contatto non fanno corpo perché infra noi non si compongano corpi di cose incorporee (Codice Arundel, f. 159r, 1505-1508 ca.).
Ora, l’equivalenza di tutto e parte è propria del nulla: «L’essere del nulla [...] ha la sua parte equale al tutto e ’l tutto alla parte, el divisibile allo indivisibile» (f. 131r, 1505-1508 ca.).
E questo si prova col zero over nulla [...]. E lui in sé non vale altro che nulla, e tutti li nulli dell’universo son equali a un sol nulla quanto alla loro sustanzia e valitudine (Libro di pittura, cit., pp. 131-32, § 1, 1500-1505 ca.; e si vedano anche Codice Atlantico, f. 189v, 1500 ca., e Codice Arundel, ff. 131r e 132r).
Il punto non produce né compone la linea, né la linea la superficie, né questa il corpo, tutto venendo coinvolto allo stesso modo in questa radicale annichilazione. Dato che però i corpi, le superfici, le linee, gli angoli, i punti fanno parte dell’esperienza, quell’annichilazione andrà intesa non nel senso che infiniti punti non compongano alcuna linea, ma che quella linea, quella superficie e quel corpo che percepiamo, vediamo, con i quali operiamo e produciamo cose e conoscenze, sono, in principio, equivalenti al punto, cioè al nulla: una consapevolezza teorica che finisce per vanificare il contenuto di verità della percezione. Ciò che ci è dato nella percezione sono infatti i «termini» delle cose; ma i termini sono ridotti a nulla. In un passo del Codice Atlantico, dopo aver definito la superficie come appartenente né al corpo, né al luogo, ma al «contatto» tra i due, Leonardo prosegue:
Onde nulla è la superfizie che quivi [tra corpo e luogo] s’include. La quale superfizie ha ’l nome e non l’essere, perché ciò che ha essere ha loco; non avendo loco, è simile al nulla, che ha nome sanza l’essere. Onde la parte del nulla, non avendo se non il nome e non l’essere, essa parte è equale al tutto, sí che si conclude il punto e la linia essere equali alla superfizie (Codice Atlantico, f. 189v).
Né si può pensare che il nulla sia eguale al vuoto, che gli viene invece solitamente equiparato come luogo impossibile. In un altro passo del Codice Atlantico si nega che siano la stessa cosa, proprio perché, mentre il vuoto, se ci fosse, sarebbe un fatto fisico e naturale, il nulla non può per definizione essere un fatto fisico e naturale, perché (e qui cade un rinvio al «punto») «non occupa loco» (Codice Atlantico, f. 480Av, 1508 ca.; e cfr. anche f. 784Av, 1506-1508 ca.).
Il nulla non è insomma spazio privato di corpo, ma fa parte delle proprietà di ogni corpo; non è una determinazione negativa (non-corpo), ma positiva del corpo; non lo delimita o circonda dall’esterno, ma lo percorre dall’interno. Anzi è la stessa dinamica del nulla ciò che permette all’esperienza di costituirsi e strutturarsi.
Negli ultimi anni dell’attività di Leonardo (dal 1508), e cioè sopratutto nei codici F, G ed E dell’Institut de France, prevale un approccio allo studio della natura modellato sulla varietà potenzialmente infinita dei fenomeni: ora, agli occhi del ricercatore «i vari organismi naturali nella loro infinita varietà» appaiono «perfettamente adeguati a compiere le rispettive funzioni, anch’esse di infinita varietà, nel comune contesto di leggi universali» (Kemp 1981; trad. it. 1982, pp. 298-99). Si afferma in tal modo un’attitudine fenomenologica, nella quale la «mistione», la sempre specifica mescolanza degli elementi nei vari composti diventa il criterio fondamentale per la comprensione delle «individuali manifestazioni» di «ogni singolo caso» (p. 299). In questo approccio l’essere della cosa presuppone sempre, per essere distinto e descritto, la comprensione della sua natura transitoria, provvisoria, quasi sospesa tra la forma e la sua dissoluzione perché animata internamente dal proprio ‘nulla’.
Ciò presuppone anche una nozione di tempo assai diversa da quella con la quale Leonardo aveva iniziato la propria carriera di scrittore: non più una potenza che signoreggia e determina la natura, quasi sua ‘misura’, ma al contrario un’espressione specifica dei diversi composti, un aspetto del loro stesso determinarsi singolare, un ‘accidente di accidenti’ nel senso lucreziano. Il tempo diventa in un certo senso la connessione vicissitudinale degli eventi, degli accidenti: dunque qualcosa che appartiene allo stesso titolo alla natura (che ha una sua storia) come alla civiltà, al campo dell’accidentale. Natura e storia – cioè la storia della natura e, viceversa, il condizionamento naturale della storia delle civiltà – diventano due aspetti di un’unica grande dinamica. Le forme in cui si condensa provvisoriamente il corpo della Terra (come mostra il codice F) si avvicendano, in base alla stessa logica che spinge le civiltà a sorgere e a perire: la logica del conflitto, della compenetrazione dei contrari. Guerre e diluvi, terremoti e migrazioni di popoli: non vi è più confine definito tra accidenti naturali e accidenti artificiali: guerre e cataclismi appartengono allo stesso ordine, imprevedibile, di cause.
Una profonda pietas per il destino del genere umano prende il posto, nella straordinaria serie dei disegni sul diluvio e negli appunti sulla storia delle lingue e sull’eternità del mondo (Corpus of the anatomical studies, cit., ff. 50v-48v, sequenza retrograda), dell’ostentata indifferenza da Leonardo esibita nei suoi primi tentativi letterari, o anche del «lampo di durezza machiavellica» (Firpo 1963, p. 66) ravvisabile negli «appunti per il memoriale» (del 1497) che accompagnano i progetti di rinnovamento urbanistico di Milano presentati a Ludovico il Moro.
In definitiva, l’attitudine politica del pensiero di Leonardo non passa in primo luogo per i suoi (del resto rari) pronunciamenti in materia, tutti percorsi da profondo pessimismo, quando non esclusivamente votati alla soluzione meramente tecnica di problemi. Egli, in un certo senso, si colloca in una posizione più distante, dalla quale osserva l’umanità e si pone in relazione con essa come un tutto. E su questo piano, come si è mostrato, si può riscontrare il netto passaggio dall’eccezionalità quasi magica del pittore, superiore al comune volgo e capace di dominarlo, a una partecipazione piena alle sofferenze del genere umano, esposto a tutti i generi di cataclismi, dai diluvi alle pestilenze, alle guerre, nella consapevolezza, però, che il conflitto e la distruzione sono inevitabili, perché è proprio in queste forme annullanti che la ‘vita’ dispiega la sua potenza creatrice. Sicché si può dire che «la direzione della sua mente non va verso la trascendenza, [...] ma semplicemente verso il terrestre avvenire umano» (Luporini 1953, p. 29), se a ciò si dà il significato di una comunità che «procede verso il proprio futuro» senza garanzie di riuscita.
L’opera intellettuale di Leonardo è testimoniata esclusivamente dai suoi manoscritti, straordinario insieme di quaderni ai quali, nel corso di oltre quarant’anni, egli affidò riflessioni, osservazioni naturali, relazioni di esperimenti, calcoli, disegni, progetti, scoperte, invenzioni, scritti letterari, appunti figurativi. Si tratta prevalentemente di scritture private, in forme libere da ogni ordinamento gerarchico, potenzialmente aperte a ogni nuovo sviluppo del processo intellettuale: ma vi si riconosce allo stesso tempo la tensione verso la forma tradizionale del ‘libro’, del trattato, la cui struttura appare spesso progettata in elenchi di capitoli. Nessuno di quei libri sognati da Leonardo (i trattati di meccanica, di anatomia, di cosmologia, meteorologia, idraulica, scienze della Terra e così via) fu mai compiuto o pubblicato durante la sua vita; dopo la sua morte, toccò al Melzi preparare una prima compilazione dei testi sulla pittura nel codice Vaticano Urbinate lat. 1270 con il titolo Libro di pittura (pubblicato solo nel 1651 a Parigi, in una redazione abbreviata intitolata Trattato della pittura).
La riscoperta di quasi tutti gli altri manoscritti avvenne nel corso del 19° sec., contemporaneamente allo sviluppo del progresso tecnologico moderno tra rivoluzione industriale e positivismo, favorendo quindi l’avvento di un mito di Leonardo ‘precursore’ della scienza moderna. Le prime edizioni lasciarono il posto, nel corso del Novecento, alle edizioni critiche, promosse soprattutto dalla Commissione vinciana (istituita nel 1904), di cui fecero parte eminenti personalità come Giovanni Gentile.
Sopravvivono oggi quasi venti manoscritti di Leonardo (forse la metà di quelli originari), dispersi nel mondo. In Italia restano il Codice Atlantico (Milano, Biblioteca Ambrosiana), la più grande collezione di fogli e frammenti vinciani (oltre un migliaio), raccolti a fine Cinquecento dallo scultore Pompeo Leoni; il Codice Trivulziano (Milano, Castello sforzesco, 1490 ca.), occupato principalmente da lunghe liste lessicali (da testi come il De re militari di Valturio e il Novellino di Masuccio) che testimoniano il faticoso sforzo di Leonardo di acquisire padronanza della lingua letteraria e di imparare il latino (a quasi quarant’anni); il mirabile Codice del volo degli uccelli (Torino, Biblioteca reale, 1505), dove l’osservazione diretta della dinamica del volo tende alla soluzione del problema del volo umano.
In Francia, nella biblioteca dell’Institut de France, si trovano dodici manoscritti sottratti da Napoleone I all’Ambrosiana nel 1797; tra i più notevoli, il più antico quaderno di Leonardo, il Codice B (1488 ca.), un vero zibaldone focalizzato su ingegneria militare e architettura, e derivato soprattutto dal Valturio; il Codice C (1490 ca.), bella copia di testi e disegni su ottica e pittura, e il Codice A (1492 ca.), ampia raccolta di testi per un ‘libro di pittura’; il Codice L (1497-1503), invece, è un taccuino di formato tascabile, che accompagna Leonardo quasi giorno per giorno negli anni di vagabondaggio da Milano all’Italia centrale, al servizio del Valentino.
Tascabili sono anche i tre Codici Forster, ancora del periodo sforzesco (Londra, Victoria and Albert Museum); a Londra (British library) si conserva l’importante miscellanea di fogli (originariamente sciolti) chiamata Codice Arundel (tra i quali, ai ff. 155r-156v, spicca il celebre brano della caverna e del mostro marino, 1478 ca.), mentre a Windsor (Royal library), accanto a una cospicua collezione di disegni, sono gli straordinari quaderni di anatomia.
In Spagna sono stati riscoperti negli anni Sessanta i due Codici di Madrid (Madrid, Biblioteca nazionale), mentre negli Stati Uniti, a Seattle (nella collezione privata di Bill Gates), è giunto il Codice Leicester (1508 ca.), sulle acque e le scienze della Terra.
Delle migliaia di fogli che compongono i diversi manoscritti si è talvolta tentato di raccogliere i testi con criterio tematico, per ricostruire ipoteticamente i trattati che Leonardo non ha mai veramente scritto, dalla meccanica all’anatomia. Oggi la filologia tende invece a considerare l’insieme delle scritture vinciane come un’unica opera da studiare nella sua globalità, seguendone fedelmente lo sviluppo cronologico (corrispondente all’evoluzione del pensiero e delle ricerche scientifiche dell’autore), le sue ramificazioni e intersezioni, che propongono l’idea fondamentale di un’indivisibile unità del sapere, non ancora frammentata dalla specializzazione tecnologica della modernità.
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I Codici di Madrid, a cura di L. Reti, 5 voll., Firenze 1974.
Il Codice ‘Sul volo degli uccelli’ nella Biblioteca reale di Torino, trascrizione diplomatica e critica di A. Marinoni, Firenze 1976.
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I manoscritti dell’Institut de France, trascrizione diplomatica e critica di A. Marinoni, 12 voll., Firenze 1986-1990.
The Codex Hammer of Leonardo da Vinci, ed. C. Pedretti, Firenze 1987.
I Codici Forster del Victoria and Albert Museum di Londra, trascrizione diplomatica e critica di A. Marinoni, 3 voll., Firenze 1992.
Libro di pittura. Codice Urbinate lat. 1270 nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di C. Pedretti, C. Vecce, 2 voll., Firenze 1995.
Il Codice Arundel 263 nella British Library, a cura di C. Pedretti, C. Vecce, Firenze 1998.
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