LEO, Leonardo
Compositore, nato a S. Vito degli Schiavi, (ora S. Vito dei Normanni, Lecce), il 5 agosto 1694, morto a Napoli il 31 ottobre 1744. Orfano e povero, fu accolto a nove ami nel Conservatorio napoletano della Pietà dei Turchini. Fu allievo di Gennaro Ursino, che era stato discepolo di F. Provenzale; dal 1705 continuò gli studî sotto N. Fago. Uscì dal Conservatorio nel 1715. La sua carriera ufficiale è stata così precisata: alla Pietà dei Turchini, secondo maestro dal 1734 al '37; primo dal 1741 al '44; al S. Onofrio, primo maestro, succedendo a F. Feo, dal 1739 al '44; alla Cappella reale, pro-vice maestro, succedendo a L. Vinci, nel 1730, vice maestro nel '38, maestro nel '44. Fra i suoi allievi ebbe N. Iommelli e N. Piccinni.
Scrisse circa una sessantina di opere serie o comiche. Molto abbondante fu anche la produzione chiesastica (8 oratorî), strumentale (concerti, toccate), didattica (solfeggi, partimenti, studî di contrappunto). Fino al 1722 compose serenate e melodrammi su libretti di Biancardi, Silvani, Stampiglia. Diede forse i suoi primi saggi comici con le tre scene buffe inserite nel Bajazette del 1722. L'anno seguente presentò la sua prima opera comica, La 'mpeca scoperta, in dialetto napoletano, libretto di Francesco Oliva. Dal 1723 al 1744 musicò melodrammi di Zeno, Stampiglia, Biancardi, Metastasio e commedie di Oliva, Tullio, Mariani, Saddumene, Trinchera, Federico.
Nei suoi melodrammi il L. seguì l'estetica e le forme di A. Scarlatti, continuando la tradizione di quella solida, severa, ampia costruzione, di carattere polifonico, che fu propria del trapasso fra il sec. XVII e il XVIII. Nel giovanile Pisistrato (1714) rifletteva sommariamente lo stile delle opere scarlattiane anteriori al 1708. Più tardi non si liberò del tutto dallo Scarlatti, ma ne rinnovò alcune caratteristiche. Particolarmente curò le parti mediane dell'orchestra, affidando ai secondi violini e alle viole, divenuti indipendenti, significazioni pittoresche, descrittive più che affettuose. Nell'armonia conciliò la polifonia e la melodia, elaborandole con estese progressioni e ardite modulazioni, specialmente nella parte mediana delle arie. Così mostrava la via a Iommelli. Anche precedette questo suo insigne allievo nell'uso delle didascalie "piano, più forte, forte, rinforzando". Con la polifonia sostanziava il quartetto vocale e i cori. Alle melodie imprimeva un accento calmo, dignitoso, non scevro di affettuosità. Le sue cure della composizione derivavano più dal gusto della tecnica che dal temperamento drammatico, ché anzi non tentava le espressioni e i modi più necessarî al dramma.
Nell'opera-comica, tanto diversa nella concezione, nella finalità, nelle forme dalla seria, e tanto più libera, Leo riuscì, al pari di tanti altri suoi contemporanei, assai felicemente. In quanto alle forme, fissò, come il Vinci, un finale alla chiusa di ciascun atto. Compose dapprima, nel 1726, un finale in due tempi, lento, allegro, per il Matrimonio annascuso; dopo parecchi anni rinnovò più volte l'esperimento, benché non sempre riunisse tutti i personaggi nel concertato. Nell'opera comica la sua sostanziosa composizione si adeguava all'usata semplicità, risultando agile ed efficace. A bassi incisivi s'accompagnavano melodie aderenti all'espressione e al personaggio. Nell'Amor vuol soffierenza, commedia divenuta famosa anche coi titoli di La frascatana o La finta frascatana, si nota un'aria che, preceduta da un elaborato recitativo accompagnato, è sostenuta dai violini divisi in due uguali gruppi, che rispondono, come a rappresentare le tergiversazioni di un dubbioso personaggio. "Quelle invention! quelle harmonie, quelle excellente plaisanterie musicale!" scriveva il De Brosses, il 24 novembre 1739, ammirato della Frascatana. Parecchie melodie risentono della canzone napoletana. Talvolta il parodistico era ottenuto con l'inserzione d'un pezzo serio.
Nelle composizioni su testi chiesastici il Leo mescolava l'antica polifonia e la monodia e l'armonia dei suoi tempi. Nelle messe alternava gli stili: il Christe, polifonico, e il Kyrie, moderno; l'Amen polifonico, alla fine di un pezzo moderno. Tali polifonie, non certo palestriniane, risentono del cambiamento stilistico fra il Sei e il Settecento; gli ampî periodi sono accompagnati da progressioni, accordi alterati, da figurazioni ritmiche tali da generare una sempre più intensa propulsione drammatica. Così specialmente nel Christe della V Messa di gloria con orchestra. Qualche reminiscenza arcaica si trova invece nella fuga a 5 voci del Christe eleison nella Messa composta per voto a S. Vincenzo Ferreri (1753). Rielaborando la messa Iste confessor di Palestrina, non evitò le più moderne armonie. In altri casi lo stile classico è rappresentato dalla bicoralità e dai frammenti gregoriani usati quali temi. In generale la sua polifonia appare più severa di quella di F. Durante.
Leo si distinse da J.A. Hasse, nella scarsa preoccupazione dell'essenza e dell'avvenire del dramma, e da L. Vinci, P. Feo, G.B. Pergolesi, melodisti lineari, nervosi, affettuosi e talvolta patetici, e negligenti delle complessità contrappuntistiche e orchestrali; ma più sottilmente si distinse da Durante, che, pur coltivando l'ampiezza della costruzione sei-settecentesca, la semplificava leggiadramente e la permeava d'un'espressione affettuosa e soave. Da tali affinità e diversità ebbero probabilmente origine i partiti e lelotte dei durantisti e dei leisti, che ebbero larga eco in Italia.
Bibl.: G. Leo, L. Leo, Napoli 1905; F. Piovano, À propos d'une récente biographie de L. L., in Sammelb. I. M. G., VIII.