ROMANELLI, Leonardo
– Nacque a Quarata, una frazione del comune di Arezzo, il 7 gennaio 1803 da Lorenzo e da Luisa Tavanti.
Il padre univa alla professione di perito agrario la gestione di un discreto patrimonio familiare, non sempre sufficiente tuttavia a garantire agiatezza a una famiglia composta da cinque figli e due figlie.
A undici anni Leonardo entrò nel seminario di Arezzo dove rimase fino al 1819, quando si trasferì a Pisa per iscriversi alla facoltà di giurisprudenza. Qui, grazie ai buoni uffici paterni, poté usufruire dal 1821 di un cospicuo sussidio erogato dalla Fraternita dei laici, potente opera pia aretina che manteneva alcuni studenti della città nel Real Collegio Ferdinando di Pisa. Due anni più tardi incorse in un decreto di espulsione da tutte le università toscane, a seguito di alcuni tafferugli in cui si combinavano goliardia e intemperanza giovanile, probabilmente senza implicazioni politiche. Nell’episodio fu coinvolto Francesco Domenico Guerrazzi, anch’egli studente a Pisa. Rientrato a casa, le suppliche del padre al granduca ottennero il loro effetto e nel maggio del 1825 Leonardo fu riammesso agli studi universitari e l’anno seguente si addottorò in utroque iure.
Ad Arezzo iniziò a esercitare il mestiere di procuratore, senza però poter raggiungere il titolo di avvocato a causa delle urgenze derivanti dalla morte del padre, dal matrimonio contratto nel 1827 con Anna Fracassi e dalla nascita, fra il 1828 e il 1830, dei tre figli Lorenzo, Sofia e Orlando. Nella professione riuscì a conquistarsi una significativa fama di civilista, attestata negli anni Trenta da un crescente numero di clienti. Assorbito dagli impegni che ne facevano ormai il moderatore degli interessi di tante famiglie della sua provincia, Romanelli, pur simpatizzando per la causa italiana, disapprovava qualsiasi cospirazione e strategia insurrezionale. Non svolse pertanto in quegli anni alcuna attività politica diretta, confidando in una strategia gradualista ispirata ai principi dell’‘incivilimento’ ottocentesco. In questa prospettiva, promosse l’aretina Società promotrice dell’istruzione elementare, che nella seconda metà degli anni Trenta tenne stretta corrispondenza con i moderati fiorentini, e poi accolse con entusiasmo le prime riforme concesse nel 1847 da Leopoldo II. In quelle settimane decise di passare direttamente all’azione operando per collegare la città natale, dalle forti tradizioni granduchiste, con le iniziative di quei centri, come Pisa, Livorno e Firenze, più vicine agli entusiasmi filopatriottici. Così il 19 settembre, sul modello di appuntamenti realizzati altrove, organizzò con Carlo Pigli un rituale di affratellamento – la festa della lega delle province aretine – diretto ai municipi del territorio e al vicino comune di Perugia e la cui relazione fu prontamente data alle stampe a vantaggio della guardia civica (Relazione delle feste aretine, Arezzo 1847).
Superata l’euforia e il clima unanimista del biennio riformatore, con l’emergere dei contrasti interni al movimento nazional-patriottico manifestò posizioni più radicali, vicine a quelle degli ‘esaltati’ di parte democratica; una scelta che si spiegava non tanto con la simpatia verso soluzioni repubblicane da cui appariva piuttosto distante, quanto con un pragmatico desiderio di garantire maggior spazio pubblico alla piccola e media borghesia professionale di provenienza. In questa logica di allargamento delle basi sociali del movimento risorgimentale, nel corso del 1848 guardò con crescente favore alla guerra e alla campagna per l’indipendenza, tanto da spingere i due figli, studenti a Pisa, ad arruolarsi e a non «cogliere altra laurea che quella del martirio» (Savelli, 1941, p. 34). Fu anche per questo travolgente entusiasmo verso la guerra liberatrice che plaudì alla formazione del governo di Giuseppe Montanelli e Guerrazzi. Il 22 ottobre parlò a una folla radunata davanti alla prefettura di Arezzo per chiedere il ‘ministero democratico’; presidente del locale Circolo politico, sorto su basi assai moderate, continuò a presiederlo anche dopo il cambio di governo e il mutamento della sua denominazione in Circolo popolare, mentre, dopo lo scioglimento del Consiglio generale e le votazioni del 20 novembre, fu eletto deputato. Fuggito in febbraio Leopoldo II, superata l’iniziale riluttanza dovuta ai personali timori per le «sventure e le fatali conseguenze» derivanti dalla «partenza del Granduca» (Memorie di Leonardo Romanelli, 1852, p. 68), accettò la nomina a ministro di Giustizia, Grazia e Culto propostagli dal triumvirato. All’arrivo di Giuseppe Mazzini in Toscana, d’accordo con Guerrazzi, si oppose alla proclamazione della repubblica e alla fusione con Roma, arrivando a minacciare più volte le dimissioni dal governo; allo stesso tempo, a riprova del reale motivo che continuava a legarlo alla svolta di ottobre, sosteneva la necessità «di eccitare gli spiriti marziali della gioventù» (Savelli, 1941, p. 34) individuando la priorità nel reclutamento del maggior numero di volontari a favore della causa indipendentista nel momento in cui si stava per rompere l’armistizio Salasco.
Da ministro agì per tutelare la magistratura dalle pressioni della piazza e dalle invadenze governative e promosse un progetto di riforma che abolisse pene come i pubblici lavori, la gogna e l’esilio parziale.
Alla fine di marzo, quando gli echi della sconfitta di Novara resero ancor più difficile la situazione e Guerrazzi assunse la dittatura, Romanelli, ufficialmente ancora ministro, fu nominato commissario straordinario del governo per il compartimento di Arezzo per cercare di sedare i tumulti scoppiati nell’agro aretino; grazie alla profonda conoscenza degli umori del territorio riuscì a svolgere un abile ruolo di mediazione e a ripristinare l’ordine.
Non ostacolò la restaurazione, ma collaborò con la Commissione municipale per favorire il ritorno del sovrano senza l’invasione austriaca. Non riuscì però a evitare un breve esilio in Umbria, frutto di un provvedimento di espulsione dal Granducato, e subì poi una carcerazione preventiva destinata a durare quattro anni e segnata dal celebre processo di fronte alla Corte regia di Firenze contro i membri del governo provvisorio accusati di lesa maestà.
Durante il 1851, nel carcere delle Murate, lavorò alla stesura delle sue Memorie (Firenze 1852) che dovevano costituire la difesa politica del suo operato, sposandosi con quella giuridica, combattuta da Adriano Mari anch’essa a suon di memorie e pareri legali dati alle stampe.
Ricchi di episodi e dati biografici, questi documenti convergevano nel sostenere la stessa tesi, quella cioè di aver egli sempre agito per tutelare l’ordine pubblico e le istituzioni, evitando o cercando perlomeno di attenuare disordini di piazza e tumulti. In tal senso, confortato nel corso del dibattimento da numerosi testimoni, cercò di presentare tutte le sue azioni in chiave di pacificazione degli animi, portando a particolare esempio la condotta esercitata da presidente dei circoli e da capitano della guardia civica che consentirono di conservare Arezzo, per tutto il periodo rivoluzionario, fra le città più tranquille del Paese. Agli occhi della Corte si presentò come uomo di saldi principi costituzionali e affezionato all’ordine, avverso a ogni idea di repubblica e colpevole solo di un ardente amore per la causa dell’indipendenza italiana. Pur ridimensionando fin troppo, per evidenti ragioni processuali, la sua partecipazione attiva alla fase democratica e le sue simpatie per essa, si può sostanzialmente convenire che «Romanelli fu […] uomo di opinioni assai temperate» (Martini, 1948, p. 225) e una delle anime più moderate del governo democratico.
Non a caso, la sentenza di assoluzione del luglio 1853 accolse in pieno le richieste di Mari e le tesi difensive di Romanelli, uno dei pochissimi assolti fra i 36 imputati, mentre la sua storia politica successiva fu segnata da una crescente integrazione nei ranghi liberal-moderati. Già dall’intenso carteggio avviato negli anni Cinquanta con Guerrazzi, testimonianza di un rapporto cementatosi nella comune sventura, trapelava una sostanziale diversità di opinioni politiche. Al momento della partenza del granduca nel 1859 il governo provvisorio lo indicò come prefetto di Arezzo, nomina a cui replicò con una convinta dichiarazione di fede in Vittorio Emanuele II: «Divinità», come scriveva il 26 maggio 1859 a Bettino Ricasoli, in cui vedeva «incarnata l’idea del risorgimento e della Indipendenza d’Italia» (Savelli, 1941, p. 293). Membro della Consulta e poi deputato dell’Assemblea toscana eletta in agosto, le sue scelte politiche moderate continuavano a convivere con il profondo rapporto instaurato con Guerrazzi del quale sembrava ancora subire una qualche influenza. Il legame gli attirò più di un sospetto, tanto da costargli l’esclusione dalle candidature al primo Parlamento nazionale decise da Ricasoli. Pur avendo aiutato l’amico democratico, mobilitando la sua influenza, per favorirne l’elezione nel collegio di Rocca San Casciano, la rottura definitiva fra i due fu solo rinviata e avvenne attorno agli sviluppi dell’impresa garibaldina con un duro scambio di lettere che nei mesi finali del 1860 sancì di fatto anche la fine della loro amicizia.
Nel 1865 Romanelli fu dunque eletto al Parlamento italiano nelle fila della Destra storica, ma si dimise nell’aprile del 1866 per motivi di salute. Ritiratosi dalla politica nazionale, rimase ininterrottamente membro del Consiglio comunale fino alla morte e al vertice di una gran quantità di enti e istituti del territorio. A lungo presidente dell’Associazione liberale monarchica di Arezzo, nel novembre del 1883 fu premiato per il suo lealismo verso la dinastia con la nomina a senatore.
Morì ad Arezzo il 6 ottobre 1886.
Fonti e Bibl.: Le carte di Romanelli sono conservate presso la Biblioteca Città di Arezzo. Inoltre: Consultazione sul ricorso del dott. R. alla Corte suprema di cassazione dal Decreto proferito il 7 gennaio 1851 dalla Camera delle accuse di Firenze nella causa di alto tradimento, Firenze 1851; Memorie di L. R., Firenze 1852; A. Mari, Difesa di L. R. scritta dall’avvocato Adriano Mari, Firenze 1853; M. Biondi, In morte del compianto comm. avv. L. R., senatore del Regno, mancato ai viventi nel dì 5 Ottobre 1886. Parole lette nel cimitero suburbano davanti la di lui salma e nell’adunanza del Consiglio comunale del dì 8 ottobre 1886, Arezzo 1886; A. Savelli, L. R. e la Toscana del suo tempo con lettere del Guerrazzi al R., Firenze 1941; F. Martini, Il Quarantotto in Toscana. Diario inedito del conte Luigi Passerini de’ Rilli, Firenze 1948, pp. 224 s.; F. Colao, Avvocati del Risorgimento nella Toscana della Restaurazione, Bologna 2006, ad ind.; Camera dei Deputati, Portale storico, http://storia.camera.it/deputato/dionisio-leonardo-romanelli-18030107#nav; Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale I senatori d’Italia, II, Senatori dell’Italia liberale, sub voce, http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/R_ l2?OpenPage (16 gennaio 2017).