FORTIS, Leone
Nacque a Trieste il 5 ott. 1827 da Davide Forti e da Elena Wollemborg. Il padre era un medico originario di Reggio Emilia e apparteneva alla comunità ebraica. Rimasta prematuramente vedova, la madre si stabilì a Padova educando il bambino (che sin dagli anni della scuola modificò in Fortis il cognome paterno), nel quotidiano contatto con quell'ultima leva della cultura veneta a lei legata da comunanza di gusti letterari. Si ritrovavano nel salotto di casa poeti come F. Dall'Ongaro, A. Aleardi, A. Fusinato e G. Prati, il cui sentimentalismo ispirava la prima prova del F., una lunga novella in versi sciolti, Luigia (Venezia 1846), dedicata a Luigia Coletti, che quattro anni dopo, convertitosi al cristianesimo, egli avrebbe sposato. Intanto il panorama politico si movimentava e divampava il patriottismo: il F. lo sfogava nelle allusioni a Roma ("ove sventola adesso il vessillo di Redenzione") accortamente inserite nei versi del dramma La duchessa di Praslin, che, ispirandosi a un fatto di cronaca parigino, scriveva di getto sul finire del 1847 in collaborazione con A. Romano.
Il lavoro ebbe grande successo a Padova, fu ripreso trionfalmente a Ferrara (nel 1849 sarebbe stato rappresentato a Firenze da A. Ristori e da T. Salvini) e dischiuse al F. un futuro di drammaturgo che presto gli fece dimenticare gli studi di medicina intrapresi a Padova. Arrestato per alcune intemperanze studentesche e ricondotto forzatamente a Trieste nei primi giorni del '48, il F. fu alla testa delle successive dimostrazioni del marzo e, appena si diffuse la notizia della rivoluzione viennese, tornò a Padova per arruolarsi come volontario, combatté a Monte Osio (Verona), poi fu a Milano, quindi a Firenze; infine, salito al potere F.D. Guerrazzi, si spostò a Roma in tempo per assistere, in qualità di addetto allo stato maggiore del generale P. Roselli, alla caduta della Repubblica romana, avvenimento che lo allontanò definitivamente dal mazzinianesimo, da lui abbracciato come dottrina unitaria molto più che come ideologia repubblicana.
Visse queste vicende non tanto come esperienze politico-militari quanto come tappe di un'evoluzione interiore verso la professione futura. A Milano, infatti, il F. aveva fatto le prime prove di giornalista dirigendo per breve tempo Il Vero Operaio, fondato per neutralizzare l'azione di un foglio ultraradicale, L'Operaio; poi a Firenze era stato redattore de L'Alba, quotidiano democratico di notevole peso politico poi soppresso dal Guerrazzi. Il F. si era così addestrato a un giornalismo che, nel clima del 1848-49 e in attesa del disimpegno forzato della restaurazione, non poteva che essere militante. Al ritorno a Padova, mentre era più dura la repressione austriaca, lo attendeva di nuovo il teatro, per cui scrisse un dramma in cinque atti, il Camoens, che, dopo la prima padovana nell'autunno del 1850, fu rappresentato anche a Milano da E. Rossi e quindi a Torino dalla Compagnia reale sarda, riscuotendo ovunque consensi non per il valore letterario ma per il mal dissimulato messaggio patriottico.
Fu in quest'occasione che, recatosi a Torino per la messa in scena del dramma, il F. fu assunto dalla Compagnia reale come "poeta della Compagnia con l'obbligo di tre lavori ogni anno" (L. Fortis, Drammi, I, p. 137): un obbligo che dovette pesargli alquanto se nel 1852 si trasferiva a Genova, dove, mentre redigeva le appendici teatrali per il Corriere mercantile, preparava per la celebre Fanny Sadowska, che l'interpretava al teatro Re di Milano nel dicembre del 1852, un altro lavoro, Cuore ed arte, a giudizio del Croce "un magnifico pasticcio", che però piacque molto per il colorito romantico e restò a lungo nel repertorio di molte compagnie. Il F. era convinto che l'attività del drammaturgo non dovesse andare oltre la stagione della giovinezza: forse fu per questo che il fallimento di Cuore ed arte, poi rititolato Industria e speculazione, presentato a Milano nella primavera del 1854, lo indusse ad abbandonare un genere al quale si sarebbe riaccostato solo per dare alle stampe alcuni libretti d'opera (L'Adriana, Milano 1857, musica di T. Benvenuti; L'uscocco, ibid. 1858, musica di F. Petrocini; Il duca di Scilla, scritto con G. Peruzzini, ibid. 1859, musica di E. Petrella).
Quando tentava le strade della librettistica il F. si era già stabilito a Milano: nel 1854, infatti, fruendo dell'amnistia (dopo l'Unità un giornale radicale lo avrebbe accusato di essere stato al servizio dell'Austria) era rientrato in Lombardia, dove, pur nominato direttore artistico e poeta ufficiale della Scala, si era volto di nuovo al giornalismo con l'ambizione di offrire al pubblico un prodotto che, eludendo la sorveglianza austriaca, introducesse in un ambiente così cupo il soffio di una cultura nuova, sbrigliata, in qualche modo libera; aveva come modello un periodico veneziano, Quel che si vede e quel che non si vede, fondato nel novembre 1856 e chiuso d'autorità il 4 genn. 1857, e che lo aveva avuto collaboratore e poi direttore. Caratteri, formato, stile, periodicità, furono ripresi a Milano con l'apparizione, due mesi dopo, del settimanale Il Pungolo, che non visse oltre il 4 apr. 1858 ma si impose per il piglio audace e anticonformista delle illustrazioni e, soprattutto, per la qualità dei collaboratori, molti dei quali reduci dall'esperienza veneziana.
Aggregando alla sua impresa gente come l'Aleardi, I. Nievo, il Fusinato, C. Arrighi, il F. dimostrò un fiuto notevole nella scelta degli uomini, malgrado un carattere difficile lo mettesse talvolta in urto anche con gli amici più cari: il Nievo, a esempio, non tardò a criticarlo per certi atteggiamenti imprenditoriali che lo rendevano esigente ma poco puntuale e per nulla generoso nei pagamenti, e già allora si venne formando la fama di un F. spendaccione e gaudente, poco rispettoso dei diritti altrui. Ma la stoffa del creatore di giornali non si discuteva.
Chiuso Il Pungolo, il F. ingaggiò una lotta personale con la censura, cui si sottraeva inventando nuove testate o spostandosi da una città all'altra: al Pungolo teneva dietro Il Panorama - stesso tono dissacratore -, al Panorama l'Uomo di pietra, a questo La Ciarla, un settimanale di svago messo in cantiere a Trieste dopo che un provvedimento di polizia aveva da un giorno all'altro sul finire del 1858 espulso il F. da Milano anche per la sua adesione alla Società nazionale; ancora noie con la censura, e la Ciarla, dopo un mese di vita e sette numeri ben accolti dal pubblico, sospendeva il 23 apr. 1859 le uscite, mentre il suo direttore fuggiva a Torino per riprecipitarsi a Milano subito dopo la liberazione della città e lanciarvi un quotidiano che nel titolo, Il Pungolo, si riallacciava alla sua creatura più fortunata.
Il giornale (formato piccolo, costo basso, uscita pomeridiana, vendita nelle strade per mezzo degli strilloni) comparve il 20 giugno 1859 e sfondò subito per il modo con cui trattava le notizie e per l'appartenenza iniziale a un'area liberalprogressista che lo faceva preferire alla più paludata Perseveranza, rispetto alla quale adottava uno stile più disinvolto, ben esemplificato dalla decisione di rendere noto nel numero del 9 dic. 1859, alla vigilia delle amministrative, l'elenco dei personaggi, molti dei quali aristocratici, che nel marzo 1853 si erano felicitati con Francesco Giuseppe per essere sfuggito a un attentato. La pubblicazione nel 1860 delle corrispondenze di A. Dumas padre dalla Sicilia e le appendici letterarie, affidate con mano felice ai giovani scapigliati come A. Boito, E. Praga, I.U. Tarchetti (che nel 1869 vi pubblicava a puntate, senza finirlo, il suo romanzo maggiore, Fosca) consolidarono il successo del giornale che nel 1860, quando visse il suo momento migliore, tirò fino a 10.000 copie; sulla spinta di questi risultati il F. corse a Napoli, appena liberata, per fondarvi un foglio dallo stesso titolo che più tardi, riscattato dal cognato J. Comin, divenne il portavoce della irrequieta Sinistra meridionale.
Il Pungolo milanese compiva intanto un percorso inverso perché il F., che nel 1860 aveva appoggiato la candidatura di C. Cattaneo, si spostava su posizioni ministeriali e sempre più spesso ricorreva agli aiuti interessati degli uomini della Destra. Perennemente indebitato e condotto con sempre maggiore faciloneria, il giornale soffriva la concorrenza di nuove testate quali Il Secolo e il Corriere della sera, nel confronto coi quali la sua linea appariva invecchiata e appesantita da un conservatorismo che dal campo della politica, ove aveva assunto tinte municipalistiche, si era esteso anche alla critica letteraria e artistica. Dopo essere stato salvato più volte, il giornale fu venduto nel 1879 a uno spregiudicato finanziere, da cui poi il F. lo riscattò ma solo per farlo ripiombare in una spirale di ipoteche, debiti e manovre speculative, da cui non uscì se non con la fine delle pubblicazioni, sopraggiunta il 10 sett. 1892.
Nonostante queste disavventure, la fama del F. si era imposta su tutto il territorio nazionale per la tempestività con cui, a mano a mano che il paese completava l'unificazione, egli si precipitava a creare nuove testate: il 12 ag. 1866, subito dopo l'armistizio di Cormons, aveva lanciato a Padova La Nuova Venezia; e a Roma il 2 ott. 187o aveva fondato La Nuova Roma, che nel 1872 avrebbe assorbito la Gazzetta di Roma e sul finire del 1873 si sarebbe fusa con Il Popolo romano: l'uno e l'altro creati a fini speculativi e giudicati molto vicini al governo, e il secondo accusato dalla concorrenza di vivere "coi fondi segreti del Ministero dell'Interno" (Majolo Molinari, II, p. 659) e poi venduto a C. Chauvet. Ricco di idee quanto di espedienti per ottenere prestiti, il F. continuava insomma a muoversi in una dimensione in cui il suo pessimo rapporto con il denaro lo esponeva al rischio continuo del dissesto e al bisogno di sovvenzioni, né sorprende che nel 1893 fosse anche lui coinvolto nell'inchiesta sulla Banca romana. Gli restava, apprezzata soprattutto dall'alta borghesia lombarda, la dote di una scrittura scorrevole ravvivata dalla ricchezza di riferimenti letterari: sicché quando l'editore E. Treves, che già gli aveva venduto il Corriere di Milano, cercò qualcuno cui affidare sull'Illustrazione italiana una rubrica di cronache culturali e di costume, pensò immediatamente al F., che quel lavoro faceva da anni al Pungolo, firmando i suoi articoli con lo pseudonimo di Dottor Verità e che nel passaggio all'Illustrazione sarebbe diventato Doctor Veritas.
Ebbero inizio così, nell'ottobre del 1873, le Conversazioni, come poi furono intitolati i cinque volumi che tra il 1877 e il 189o (i primi due editi a Milano dal Treves, il terzo a Roma da A. Sommaruga, gli ultimi due ancora a Milano da Civelli) raccolsero una larga selezione di queste cronache che comprendeva anche quelle apparse a partire dal 1883, dopo la rottura della collaborazione col Treves, sul Pungolo della domenica e, dal 1886, sul settimanale Le Conversazioni della domenica. Abbracciando un arco di tempo che con qualche interruzione risulterà alla fine di circa 15 anni (1875-1890), il F. vi conduceva sotto forma di dialogo con una lettrice immaginaria una sorta di rassegna critica degli aspetti più vari della vita sociale del suo tempo, concentrandosi sui temi che lo avevano appassionato sin dalla giovinezza: il teatro, la poesia, la musica, la letteratura. Ne veniva fuori un quadro d'insieme i cui capisaldi erano l'attaccamento alla tradizione poetica del romanticismo, il rifiuto dei modelli stranieri, la fede nell'esistenza di una tradizione letteraria italiana soprattutto in campo teatrale, la contestazione di ogni tipo di sperimentalismo. Se perciò da un lato veniva ribadita la devozione per figure scialbe come il Prati o come il drammaturgo P. Ferrari, e di quasi pari considerazione godevano personaggi come l'Aleardi e il Fusinato in poesia e P. Cossa e G. Giacosa nella drammaturgia, se uguale approvazione riscuoteva la narrativa di E. De Amicis, una condanna senza appello era riservata non solo alla produzione letteraria che al F. sembrasse ispirarsi ai modelli d'Oltralpe (è il caso del verismo di G. Verga e di L. Capuana, ricollegato all'opera di E. Zola) o agli esordi di G. D'Annunzio, rivelatori di una visione sensuale della vita decisamente lontana dal perbenismo del F., ma alla stessa poetica di G. Carducci, da lui ridotta a pura imitazione dei classici latini.
Non mancarono le reazioni critiche, ma, in effetti, non mancava di coerenza il pensiero del F. quando proponeva un'equazione tra verismo in arte, positivismo in filosofia e socialismo in politica (Conversazioni, III, p. 216), a cui opponeva la rievocazione nostalgica di un Risorgimento d'impronta cavouriana e sabaudistica: la vecchia Destra e il sovrano gli sembravano la sola diga contro il rischio di una inondazione anarchica o socialista cui certo non avrebbero saputo far fronte le forze politiche allora in auge - la Sinistra prima depretisina, poi crispina - che ai suoi occhi rappresentavano la vera degenerazione del sistema. Malgrado tutto, però, l'Italia che veniva fuori dall'osservatorio milanese del F. era un paese vitale, un gran teatro in cui le virtù del popolo pareggiavano i vizi della classe di governo, ne annullavano la boria e ne ridimensionavano le ambizioni.
Dopo avere esercitato una specie di dittatura culturale in ambito lombardo, le cronache del F. persero fatalmente mordente per l'incapacità congenita di rinnovarsi e non furono più lette come uno specchio fedele di ciò che avveniva in Italia né influenzarono più l'opinione pubblica colta.
Contestualmente alla crisi del Pungolo, ciò pose molti problemi al F., costretto a rinunziare alla vera fonte del suo dispendiosissimo tenore di vita. Fu perciò provvidenziale nel 1893 - anche se lo costrinse a trasferirsi a Roma - l'incarico di condirettore (con G. Piacentini) della Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia che lo sollevò da una condizione che a inizio d'anno aveva definito di "operaio disoccupato" (a D. Farini, 22 genn. 1893). La sinecura aveva i suoi costi: per cui lo stesso scrittore che nelle Conversazioni aveva riservato a Crispi notazioni velenose ma centrate, nel 1894 dava alle stampe su una rivista tedesca, ripubblicandolo l'anno dopo a Roma, un Francesco Crispi che, senza essere encomiastico, ne valutava molto positivamente l'operato: sul piano interno, per la giustificazione da lui fornita del passaggio dal repubblicanesimo alla monarchia, e sul piano internazionale, per l'affermazione definitiva dell'Italia come potenza. Senz'altro più congeniali gli dovevano riuscire, dopo che per anni s'era occupato di teatro (Relazione del giurì drammatico nazionale…, Milano 1881), la relazione commissionatagli dalla Pubblica Istruzione sui risultati d'un concorso drammatico e, poco dopo, quella su L'arte alle esposizioni riunite di Milano (Roma 1895), accorata deprecazione dell'assenza d'ogni testimonianza sul teatro italiano nella mostra milanese del 1894.
Dopo il 189o la firma del F. era apparsa in calce ad articoli e rievocazioni ospitati nelle romane Rivista delle tradizioni popolari italiane (1893-1895) e La Vita italiana (1894-1897), entrambe dirette da A. De Gubernatis, o nel quindicinale Natura ed arte, edito a Milano da Vallardi (1891-1898). L'ultimo scritto, su E. Visconti Venosta, era uscito sulla Rassegna nazionale nel fascicolo del 16 dic. 1897.
Ormai cieco il F. morì a Roma il 7 genn. 1898.
Del F. vanno ricordati la raccolta dei Drammi, edita in 2 volumi a Milano nel 1888, e lo scritto P. Ferrari: ricordi e note, Milano 1889.
Fonti e Bibl.: Undici lettere del F. a U. Rattazzi jr. sono conservate a Roma, in Museo centrale del Risorgimento, b. 1030 (Ibid., b. 481/31, anche la lettera a D. Farini cit. nel testo); dodici lettere ad A. Bertani sono nel Museo del Risorgimento di Milano (cfr. Le carte di A. Bertani, Milano 1962, ad Indicem); poche altre nelle Carte Fambri dell'Arch. centr. dello Stato, scatola 10. Necrologi in Corriere della sera, 7-8 genn. 1898; R. Barbiera, in L'Illustraz. italiana, 16 genn. 1898, p. 39, Id., in Verso l'ideale…, Milano 1905, pp. 33-69 (poi, con lievi differenze, in A. Miele, Gl'irredenti nell'arte, Firenze 1918, pp. 31-38). Sulle persecuzioni subite dal F. a Padova e Trieste, G. Piazza, Un triestino dimenticato (L. F.), in La Porta orientale, VII (1937), pp. 1-31. Sull'attività pubblicistica del F.: N. Bernardini, Guida alla stampa period. ital., Lecce 1890, p. 523; S. Farina, Care ombre, Torino 1913, pp. 27-30, 97 s., 108, 118; L. Lodi, Giornalisti, Bari 1930, pp. 48-51; C. Cattaneo, Epistolario, a cura di R. Caddeo, III, Firenze 1954, ad Indicem; G. Asproni, Diario politico 1855-1876, IV, Milano 1980, ad Indicem. Si vedano inoltre: I periodici di Milano. Bibliografia e storia, Milano 1956, I, pp. 155, 161; C. Pagnini, I giornali di Trieste dalle origini al 1959, Milano 1959, pp. 199-205; O. Majolo Molinari, La stampa period. romana dell'Ottocento, Roma 1963, ad Indicem; F. Nasi, Il peso della carta…, Bologna 1966, ad Indicem; Il giornalismo padovano dal 1866 al 1915, Padova 1967, ad Indicem; V. Castronovo, La stampa ital. dall'Unità al fascismo, Bari 1970, ad Indicem; I. Ledda - G. Zanella, I periodici di Padova (1866-1926)…, Padova 1973, ad Indicem; A. Galante Garrone - F. Della Peruta, La stampa italiana del Risorgimento, Bari 1979, ad Indicem; V. Castronovo - L. Giacheri Fossati - N. Tranfaglia, La stampa ital.nell'età liberale, Bari 1979, ad Indicem; A. Briganti - G. Cattarulla - F. D'Intino, I periodici letterari dell'Ottocento, Milano 1990, ad Indicem; M. Simonetto, L. F. e il "Pungolo", in Il Risorgimento, XLIII (1991), pp. 255-276. Sulla personalità del F.: G. Modena, Epistolario, a cura di T. Grandi, Roma 1955, ad Indicem; A. Galante Garrone, F. Cavallotti, Torino 1976, ad Indicem; F. Cavallotti, Lettere 1860-1898, a cura di C. Vernizzi, Milano 1979, ad Indicem; I. Nievo, Tutte le opere, VI, Lettere, a cura di M. Gorra, Milano 1981, ad Indicem. Un autoritratto sconsolato nello scambio epistolare con T. Massarani in Id., Carteggio ined., a cura di R. Barbiera, Firenze 1909, II, pp. 296-300. Altre notizie in N. Quilici, Bancaromana, Milano 1935, ad Indicem; e in Dalle carte di G. Giolitti. Quarant'anni di politica italiana, I, a cura di P. D'Angiolini, Milano 1962, ad Indicem. Per un inquadramento critico del F. letterato: B. Croce, La letteratura della nuova Italia…, V, Bari 1957, pp. 306 s., e G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1973, ad Indicem.