LEONE X papa
Giovanni de' Medici nacque a Firenze l'11 dicembre 1475, secondogenito di Lorenzo il Magnifico e di Clarice Orsini.
Ebbe a tre anni maestro Agnolo Poliziano, ma gli fu tolto pochi mesi dopo e dato a educare ad altri meno illustri. Dagli insegnamenti loro, e più dalla dotta, gioconda, molteplice vita della Firenze medicea, trasse cultura assai varia, ma più appariscente che profonda, ed esempio di religione e di moralità piuttosto esteriori che intime.
Chierico e protonotario prima degli 8 anni, provveduto per cura del padre di benefizî in Firenze, nella Toscana e in Francia, abbate di Montecassino e di Morimondo a undici anni, fu, appena tredicenne, da Innocenzo VIII, nel concistoro del 9 marzo 1489, creato in segreto cardinale con obbligo di non assumere le insegne se non dopo tre anni. Passò questi anni a Pisa, attendendo a studiare diritto canonico, e vi ebbe maestro Antonio Cocchi, pedagoghi Gentile Becchi e Iacopo da Volterra, compagno, fra altri molti, Cesare Borgia. Prese il cappello cardinalizio allo scadere del triennio e poco appresso andò a Roma. Fu creato legato del Patrimonio (15 aprile 1492) e poi anche del dominio fiorentino (11 maggio). Ma, privo della guida paterna - Lorenzo era morto l'8 di aprile -, non esercitò azione se non assai scarsa.
Nel conclave dell'agosto 1492 parteggiò prima per la fazione sforzesca, poi tentò saviamente di guadagnare all'elezîone del Carafa, apparente e degno candidato di questa, il capo della fazione aragonese, Giuliano della Rovere, e di ottenere così un'elezione concorde; scopertisi gl'intrighi di Ascanio Sforza per Rodrigo Borgia, repugnò da prima all'elezione di questo, cedette poi, non senza simonia. Ma di Alessandro VI non fu amico, né era in troppo cordiali relazioni col fratello Piero: stette quindi nell'ombra discreta delle ville o dei benefizî di Toscana.
Ne uscì per tentar di evitare la catastrofe della signoria medicea (9 novembre 1494): ne fu travolto ed, esule da Firenze, trovò rifugio a Città di Castello e a Urbino, viaggiò nei Paesi Bassi, in Germania e in Francia, affinando lo spirito e apprendendo l'arte del governare. Tornato a Roma nel 1500, si stabilì nel palazzo di S. Eustachio (palazzo Madama) e, alieno, come pareva, dalle cose politiche, si distinse nel raccogliere intorno a sé letterati e artisti, Nell'aprire agli studiosi la ricca biblioteca, nel restaurare la sua chiesa diaconale di S. Maria in Domnica, nel dare a Bolsena la splendida facciata di S. Cristina e altre opere d'arte. Ebbe da Giulio II (1 ottobre 1511) la nomina di legato di Romagna, con intenzione di minaccia contro Firenze riottosa. Fatto prigioniero dai Francesi a Ravenna (11 aprile 1512) e condotto a Milano, si atteggiò a pacificatore, rialzando abilmente il prestigio del pontificato e il suo; riuscì a fuggire, mentre lo trasportavano in Francia, e poté sfruttare a suo vantaggio la vittoria della Lega Santa, ottenendo che il congresso di Mantova deliberasse la restituzione dei Medici in Firenze. Fu nell'esercito del Cardona e non seppe, o non volle, impedire il sacco orrendo di Prato; ma, rientrato in Firenze, tenne con mitezza il governo.
Alla morte di Giulio II, fu eletto papa in brevissimo conclave e senza maneggi simoniaci, come rappresentante di una tendenza conciliatrice dopo la tempesta del pontificato di Giulio (11 marzo 1513); e l'elezione fu salutata con gioia, come tale da "acquietare la povera Italia et assettare la Chiesa". Ma al programma di pace, che egli annunziava, gli mancavano i mezzi e, anche più, l'energia, la sincerità, il disinteresse.
Iniziò il pontificato con atti di clemenza, ammise al perdono i cardinali scismatici (27 giugno); sebbene tenesse fede alla lega con l'imperatore e gli Svizzeri contro la temuta ambizione di Francia, non entrò ufficialmente nella lega antifrancese di Malines (v.) e ai vincitori di Novara, di Guinegate, della Madonna dell'Olmo, contro Francesi e Veneziani, diede consigli di pace. Ottenne così che il re di Francia riconoscesse il concilio di Laterano (19 dicembre) e sottoponesse al suo arbitrato le questioni con la lega. Ma, premuto dalla Francia e dalla Spagna, timoroso dell'una e dell'altra, si diede a un complicatissimo e assai coperto giuoco diplomatico, per il quale trattava contemporaneamente e stringeva alleanze con ambedue le parti, giustamente sollecito d'impedire il predominio sull'Italia di una di queste, o un loro accordo troppo stretto, d'impedire soprattutto che in una stessa mano cadessero Milano e Napoli, "il capo e la coda d'Italia", ma insieme troppo curante non pure degli interessi temporali del pontificato, ma del vantaggio della famiglia medicea. Al nipote Lorenzo aveva dato (agosto 1513) il governo di Firenze con una "Instructione", che segnava i limiti di una moderata signoria; per il fratello Giuliano, voleva creare uno stato con Parma, Piacenza, Modena e Reggio: si disse che pensasse per loro a Napoli e a Milano.
Alla discesa di Francesco I (1515) aderì alla lega antifrancese; dopo la battaglia di Marignano, conchiuse col re un trattato a Viterbo (13 ottobre 1515); e s'incontrò con lui a Bologna (11-14 dicembre 1515): rinunziò a Parma e a Piacenza, promise, e non mantenne poi, la restituzione di Modena e Reggio agli Estensi e l'investitura del regno di Napoli a Francesco alla morte del Cattolico; ne ottenne la protezione al dominio mediceo in Firenze e il consenso all'occupazione di Urbino. Ma non trascurò in quel colloquio gl'interessi religiosi; ebbe promessa dal re per la crociata e pose le basi del concordato con la Francia.
Si volse allora all'impresa di Urbino per punire il duca, vassallo riottoso della Chiesa, e insieme per farne un dominio a Lorenzo. Dopo la rapida conquista del ducato (maggio-giugno 1516), lo diede, con Pesaro e Senigallia, al nipote (18 agosto 1516); e, avendolo il della Rovere riacquistato, condusse contro di lui una poco onorevole, dispendiosissima guerra; dopo otto mesi (settembre 1517) poté conchiudere un accordo, per il quale il ducato restava ai Medici, ma doveva essere pagato il soldo all'esercito del duca e questi si poteva ritirare con la preziosa biblioteca e le artiglierie.
Questa impresa esaurì le finanze della Chiesa, già indebolite dalla cattiva amministrazione e dalla prodigalità del pontefice, e costrinse questo a cercare i mezzi per sopperire alle strettezze crescenti nei prestiti, nei pegni, nell'aggravamento delle imposte, nella vendita degli uffici anche più alti, nelle leghe politiche, nello stornare il danaro della fabbrica di S. Pietro e della crociata. E forse in altri espedienti più riprovevoli. Poiché non è infondato il sospetto che la brama d'estorcere danaro, inducesse il pontefice e i suoi familiari ad allargare la colpa del cardinale Alfonso Petrucci, di trame politiche, a una congiura contro la persona stessa del pontefice e a coinvolgervi altri quattro cardinali, leggieri e imprudenti piuttosto che rei: il Petrucci fu giustiziato in carcere (primi di luglio 1517); gli altri quattro dovettero pagare enormi somme in ammenda. E il Sacro Collegio spaurito consentì all'insolita creazione di ben trentuno cardinali (1° luglio 1517), fra i quali, se v'erano uomini assai degni, altri dovevano la porpora a motivi politici o al danaro. L'impresa di Urbino rese poi il papa meno vigile di fronte al pericoloso accordo tra Francia e Spagna (pace di Noyon, 13 agosto 1516) e a quel trattato di Cambrai (11 marzo 1517), per il quale l'imperatore, il re di Francia, il re di Spagna si dividevano, come padroni, l'Italia.
Dalla politica nepotistica si ritrasse per vero L., o piuttosto fu attraversato in questa dalla morte, la quale, come aveva già rapito Giuliano (17 marzo 1516), così gli tolse Lorenzo (4 maggio 1519): il ducato di Urbino fu unito in gran parte allo Stato della Chiesa; rimase ai Medici Firenze, per la quale il papa faceva chiedere al Machiavelli consigli "sopra il riformare lo stato". Ma non cessò la duplicità della politica papale.
Nel contrasto, coperto prima, aperto poi, fra Carlo d'Asburgo re di Spagna e Francesco I di Francia, per la futura successione imperiale, L., che non avrebbe desiderato l'esaltazione di questo e, men che mai, l'unione in mano di quello dello scettro imperiale e del regno di Napoli, aveva trattato lungamente con ambedue, cercando di averne compensi, nel campo spirituale e nel temporale; aveva anche promosso la candidatura di altro principe tedesco. Morto l'imperatore Massimiliano (12 gennaio 1519), nell'imminenza dell'elezione, parve dapprima deciso a sostenere la candidatura del re di Francia, pure sperando che il re, veduta l'impossibilità dell'elezione propria, piegasse a favorire quella di un terzo candidato; poi consentì l'elezione del re di Spagna, quando questa era già assicurata; e, timoroso tuttavia di Carlo V, che non aveva motivi per essergli grato, conchiuse ancora un accordo segreto con la Francia (ottobre 1519). Del periodo di attesa nella politica generale europea, che seguì all'elezione imperiale, L. si valse per sottomettere con energia e con astuzia i tirannelli della Marca e, chiamato a Roma con "bone parole" Giampaolo Baglioni signore di Perugia, lo mandò a morte (2-3 giugno 1520), riconducendo la città al dominio della Chiesa. Alla fine, la necessità, alla quale pure egli ripugnava, di sollecitare l'aiuto imperiale contro il dilagare della riforma luterana, lo costrinse a conchiudere (8 maggio 1521) con Carlo V un'alleanza perpetua contro i Turchi, gli eretici, i Francesi, i Veneziani; ne doveva ricevere in compenso Parma, Piacenza, Ferrara e garanzie per il dominio dei Medici in Firenze. Poté L. festeggiare le vittorie dell'esercito imperiale e papale in Lombardia e l'acquisto di Parma e Piacenza; poté rallegrarsi dell'accoglienza trionfale, che gli fu fatta in Roma il 25 novembre 1521, pochi giorni innanzi alla morte. Questa fu benevola con lui, perché gli tolse di vedere la Chiesa e l'Italia in balia di colui che, dominando da Napoli e da Milano, re di Spagna e di Germania e imperatore, aspirava a essere il signore del mondo.
Fra i maneggi politici l'attività religiosa di L., se non fu scarsa, fu certo assai inferiore alle necessità gravi della Chiesa e al pericolo tremendo, che sopra essa incombeva. Il pontefice, personalmente pio, onesto di costumi, benefico, approvò con una bolla la "Compagnia del Divino Amore". (1516-17), appoggiò le riforme negli ordini religiosi, condannò la magia e la divinazione, protesse gli oppressi Indiani e gli Ebrei. Ma fu dissipatore e perciò avido di denaro, tollerò gli scandali di prelati e di cortigiani e le estorsioni dei Fiorentini, calati a Roma in gran folla, si dilettò, più che non convenisse, di cacce, di spettacoli, di feste profane, fino ad assistere alla rappresentazione dei Suppositi (6 marzo 1519), a fare eseguire la Calandria nelle stesse sue stanze (autunno 1514), a volere o permettere che si desse in Roma la Mandragola. Il concilio Laterano, aperto da Giulio II, continuò sotto L. i suoi lavori dalla VI sessione (27 aprile 1513) alla XII e ultima (16 marzo 1517), vide la fine dello scisma gallicano, confermò (19 dicembre 1516) il concordato con la Francia, condannò l'errore che negava l'immortalità dell'anima e la dottrina della duplice verità, filosofica e religiosa; prese disposizioni per la riforma della Chiesa, utili, certo, ma ben lontane da un profondo rinnovamento spirituale e destinate a rimanere, in parte, lettera morta.
Con gli stati cristiani, nel campo religioso L. strinse accordi non sempre vantaggiosi alla Chiesa: con la Francia sottoscrisse, il 18 agosto 1516, un concordato per il quale era abolita la Prammatica Sanzione, ma posto il clero francese in più stretta dipendenza dal re; per la Spagna confermò al re le concessioni della Cruzada e tentò inutilmente di togliere il diritto regio di "retención de bulas" e di sottomettere l'Inquisizione al diritto comune; concesse privilegi al Portogallo e alla Polonia; diede al Wolsey, onnipotente ministro di Enrico VIII d'Inghilterra, la dignità cardinalizia e tollerò ch'egli, col titolo di legato, congiungesse l'autorità religiosa con la politica, esempio pernicioso per le future sorti religiose del regno.
Alla crociata L. pensò fin dall'inizio del suo pontificato, incitandovi i principi cristiani, e la fece indire nell'ultima sessione del concilio; ma prima arrestò l'attività di lui la guerra di Urbino; poi il disegno suo di una tregua di cinque anni, durante la quale fosse devoluta alla S. Sede la risoluzione di tutte le controversie (bolla del 6 marzo 1518), fu attraversato dagli abili maneggi del Wolsey, e gli sforzi del papa, onesti e sinceri, naufragarono innanzi alla diffidenza, viva soprattutto nella Germania, contro la curia romana e la persona di L.: infine l'attenzione sua fu quasi del tutto assorbita dalla questione della successione imperiale e dal propagarsi della rivolta religiosa nella Germania.
Di fronte alle idee già diffuse in questa nazione e poco rispettose della dottrina e della disciplina religiosa di Roma, L. aveva mostrato fin eccessiva tolleranza: nella battaglia fra teologi e umanisti a proposito delle opere del Reuchlin aveva esitato a pronunziarsi e solo il 23 giugno 1520 condannò l'Augenspiegel del celebrato umanista tedesco; a Erasmo, che si profondeva in lodi e in proteste di obbedienza, continuò largo favore, sebbene quegli fosse additato quale complice dell'eresia luterana. D'altra parte, la rapacità della curia, esagerata del resto nell'opinione comune, gli abusi nella concessione delle indulgenze, l'averne il pontefice commesso l'esazione a collettori poco scrupolosi, apprestavano terreno favorevole al diffondersi dell'incendio. Quando Alberto di Magdeburgo incaricò il domenicano Tetzel di predicare l'indulgenza, per concessione del papa, in cambio dell'enorme somma da lui pagata alla curia, e contro gli abusi di quella predicazione si levò Martino Lutero (v.), L., fiacco per natura, distratto dai negozî politici, dal mecenatismo, dalle feste, proclive a sottili intrighi diplomatici piuttosto che ad affermazioni risolute e ad energica azione, procedette con cauta lentezza, come non consapevole di tutta la gravità di quel fatto e delle sue conseguenze. Tentò di ottenere la ritrattazione del frate per mezzo dei superiori dell'ordine agostiniano, poi lo citò a Roma (luglio 1518), poi commise (23 agosto 1518) al cardinale Caetano di chiamarlo innanzi a sé in Germania, e, se ostinato, carcerarlo e mandarlo a Roma, se contumace, colpirlo di scomunica. Ma, anche per il desiderio di non offendere l'elettore di Sassonia, sul quale contava nei maneggi per l'elezione imperiale, approvò l'accordo del cardinale con questo, per cui Lutero doveva essere trattato con "dolcezza paterna". E precisò bensì (9 novembre 1518) la dottrina dell'indulgenza; ma, quanto a Lutero, accolse con fiducia (29 marzo 1519) le promesse generiche di sottomissione, e, mentre il movimento andava già prendendo l'aspetto di una rivolta nazionale della Germania contro il "vergognoso, diabolico reggimento dei Romani", indugiò fino al 1° giugno 1520 a condannare i punti fondamentali delle sue dottrine (bolla Exsurge Domine) e fino al 3 gennaio 1521 a scomunicarlo (bolla Decet Romanum pontificem). E L. chiedeva ora (18 gennaio 1521) l'appoggio dell'imperatore per l'esecuzione della scomunica, ma si tratteneva dal mostrare premura soverchia per quell'appoggio, perché l'imperatore non se ne giovasse ai suoi fini politici. Solo quando si decise all'accordo con Carlo V poté vedere promulgato (25 maggio 1521) l'editto di Worms, che poneva il frate al bando dell'impero e ordinava la distruzione dei suoi scritti. Ma con ben altri mezzi che un trattato e un editto poteva la Chiesa di Roma salvarsi dalla procella; questi mezzi L. o non tentò affatto o tentò debolmente.
Per la protezione della cultura L. ebbe fama, meritata certo in molta parte, ma anche senza dubbio eccessiva. Annunziò (5 novembre 1513) la riforma dell'università romana, ch'ebbe tuttavia breve fiorimento; ampliò la biblioteca sua privata e la Vaticana, mandando per tutta Europa a raccogliere libri; istituì a Roma un collegio greco e una stamperia, di cui ebbero la direzione Giano Lascaris e Marco Musuro, e un altro collegio greco a Firenze; favorì gli studî di ebraico e di arabo; protesse l'officina editrice di Aldo Manuzio; accordò privilegi per la stampa di opere di archeologia e di numismatica e incoraggiò Raffaello a preparare la pianta archeologica di Roma; ma alla maggior parte di queste imprese mancarono mezzi e continuità d'azione. Ebbe consigliere, per lungo tempo quasi onnipotente, il Bibbiena, segretarî il Bembo, il Sadoleto, il Colocci, dei quali il primo pubblicò poi, rifacendole, le epistole scritte in suo nome; ebbe caro il Castiglione, ch'era a Roma oratore del marchese di Mantova; favorì largamente il Molza e l'Accolti; parteggiò per il Longueil nella contesa intorno a questo "cavaliere errante del ciceronianismo" sollecitò il Sannazzaro all'edizione del De partu Virginis e il Vida alla composizione della Cristiade. Al Guicciardini diede ufficio di avvocato concistoriale e di governatore di Modena e Reggio, al Giovio di maestro nell'università romana, commise al Trissino missioni diplomatiche delicate, con l'Ariosto fu freddo più che il poeta non attendesse, pure accordandogli qualche favore e un privilegio per la pubblicazione del Furioso. Ma a innumerevoli poeti e letterati e umanisti, di maggiore o minor merito o fama, a improvvisatori, a musici, a istrioni, a buffoni, fu liberale, non sempre con ponderazione e misura.
Di Roma L. volle fare il centro, non pure religioso, ma intellettuale del mondo. E diede opera ad abbellirla, ricostruendo la Via Alessandrina, iniziando la Leonina (Ripetta) e la costruzione di S. Giovanni de' Fiorentini, sistemando la Piazza del Popolo. Nel Vaticano, si andavano raccogliendo nel Belvedere tesori d'arte antica, che un breve papale (27 agosto 1515) salvava dalla distruzione, commettendone a Raffaello la cura; Raffaello stesso, con i discepoli suoi, compiva la stanza di Eliodoro, rappresentava, in quella dell'incendio, nei fatti dell'uno o dell'altro Leone, le gesta e i propositi del decimo, disegnava la stanza di Costantino; e per la Sistina dava i cartoni degli arazzi, semplice e solenne glorificazione della Chiesa, mentre nella gaia creazione delle logge (1513-19) armonizzava la sua "Bibbia" con le decorazioni paganeggianti di Giovanni da Udine. Ma le opere grandiose di papa Giulio furono per gran parte interrotte, o procedettero a rilento, prima fra esse la fabbrica di San Pietro, per la quale poco poterono fare fra Giocondo, Raffaello e Antonio da Sangallo, che dopo la morte del Bramante (1514) n'ebbero successivamente la cura. E, se Michelangelo ebbe commissione della facciata e sagrestia nuova di S. Lorenzo a Firenze, parve che il grande artista che, pur nei frequenti contrasti, s'era inteso col carattere rude e vigoroso di Giulio, non riuscisse ad accordarsi con lo spirito fine e superficiale di papa L.
Morì L. X piamente il 1° dicembre 1521; ebbe funerali modesti e povera sepoltura in San Pietro. L'oscurità degli anni seguenti fece apparire più luminosa l'età sua, ond'ebbe da lui nome il suo secolo.
Ma la fiacchezza spirituale, che si rivelava nella stessa enorme persona e nel volto floscio, invano idealizzato da Raffaello e da Sebastiano del Piombo, l'amore soverchio ai godimenti della vita, gl'intrighi d'una politica ingannevole, la troppo frequente trascuranza dei gravi doveri dell'alto ufficio religioso, resero il pontificato suo dannoso all'Italia, funesto alla Chiesa: nelle lettere stesse e nell'arti prevalse per lui un'elegante leggerezza alla profondità del pensiero, alla sincerità del sentimento.
Bibl.: V.: L. Pastor, Storia dei Papi, IV, Roma 1921, e le fonti e le opere ivi citate, principali i Regesti fino al 16 ottobre 1515, pubblicati dal Hergenröther, le biografie del Giovio, del Fabroni, del Roscoe, lo studio del Nitti. Inoltre A. Luzio, Isabella d'Este ne' primordi del papato di L. X, in Arch. stor. lombardo, serie 3ª, VI (1906), e I. d'Este e L. X dal congresso di Bologna alla presa di Milano, in Arch. stor. italiano, serie 5ª, XL (1907), XLIV (1909), XLV (1910); A. Ferrajoli, Il ruolo della corte di L. X, in Arch. d. R. Soc. romana di st. patria, XXXIV (1911), XLI (1918); e La congiura dei cardinali contro L. X, Roma 1919 (Miscellanea della R. Soc. romana di st. patr.; cfr. in proposito Riv. stor. ital, n. s., I, 1924, pp. 259-67); G. B. Picotti, La giovinezza di L. X., Parigi 1931; articoli di G. A. Cesareo, in Nuova riv. storica, VII (1923), p. 73 seg.; di D. Gnoli in N. Antol., LXV (16 aprile 1930), p. 442 segg.; di Pio Bondioli in Aevum, IV (1930), pp. 135-156.