ESTE, Leonello (Lionello) d'
Nacque a Ferrara il 21 sett. 1407 dal marchese Niccolò (III) e da Stella dei Tolomei dell'Assassino (appartenente ad un ramo della famiglia Tolomei), sua favorita in quegli anni. Allevato a corte, ebbe i primi insegnamenti dal maestro Guglielmo Capello. Secondo i dettami dell'educazione nobiliare, fu quindi inviato dal padre, sul finire del 1422, ad apprendere l'arte militare sotto il celebre condottiero Braccio da Montone. Dopo la morte di Braccio nella battaglia dell'Aquila (giugno 1424), l'E. tornò a Ferrara, ormai padrone di esperienze essenziali per i giovani rampolli delle casate signorili italiane. Prese quindi parte alla guerra tra Milano e la lega veneto-fiorentina del 1425, nella quale, però, la partecipazione estense, nel campo della lega, fu piuttosto limitata. Dopo la tragica morte del fratello Ugo, fatto giustiziare da Niccolò (III) nello stesso anno per aver intrattenuto una relazione adulterina con la matrigna Parisina Malatesta, l'E. divenne il successore più probabile alla signoria, a scapito del fratellastro Meliaduse, maggiore di età, ma avviato alla carriera ecclesiastica.
Sulla permanenza a corte dell'E., negli anni seguenti, si hanno poche notizie certe. Verosimilmente ebbe modo dì avvicinarsi agli studia humanitatis, che trovavano in quel periodo spazio sempre più ampio nella vita culturale della città, grazie all'attività svoltavi dal dotto umanista Giovanni Aurispa. Solo intorno al 1429, tuttavia, si definirono ruolo e destino politico dell'Este. Infatti Niccolò (III), avendo in animo di stringere i legami politici con la vicina signoria di Mantova, aprì con Gianfrancesco Gonzaga una trattativa per far congiungere in matrimonio l'E. con la figlia del marchese Margherita. Il marchese di Mantova acconsentì, pretendendo però, a titolo di garanzia, che l'E. fosse legittimato e dichiarato futuro marchese e vicario di Ferrara. Così, in occasione del fidanzamento fra i due (che si sposarono solo nel 1435), l'E. fu riconosciuto successore, con il benestare sia del papa, Martino V (che emanò in proposito una bolla in data 6 luglio 1430), sia del Senato veneziano. Fu quindi assegnato all'E., come precettore, il celebre pedagogo e umanista Guarino Guarini da Verona, che costituì, dal momento del suo arrivo a Ferrara (dicembre 1429), una guida culturale assai influente, sotto la quale l'E. acquisì conoscenze grammaticali, retoriche, storiche, filosofiche, morali. Della propria, ricca formazione il giovane principe diede personalmente prova tenendo un'orazione in latino durante la visita a corte dell'imperatore Sigismondo (1433), venuto per riconoscere il dominio estense sui territori sottoposti alla giurisdizione del Sacro Romano Impero. Anche nel gennaio 1438, all'apertura del concilio di Ferrara da parte di papa Eugenio IV, egli accolse il pontefice indirizzandogli un elegante discorso di benvenuto in latino.
Più modesto fu il suo tirocinio politico, che avvenne in un momento assai convulso della lotta tra Venezia e Milano, caratterizzato dall'emergere delle forti ambizioni di Francesco Sforza. Nondimeno, l'E. fu coinvolto più volte in schermaglie diplomatiche, subendo pressioni da parte della corte viscontea, che intendeva far leva sul futuro marchese per stringere i rapporti con Ferrara. In questo quadro suscitò particolare attenzione nelle corti italiane, nell'ottobre 1440, la proposta di Filippo Maria Visconti di dare in moglie all'E., rimasto vedovo nel 1439, sua figlia Bianca Maria, nonostante fosse già promessa a Francesco Sforza. Ma si trattava di contatti del tutto strumentali, piegati alle contorte dinamiche del rapporto tra il duca e il suo futuro genero e successore.
La morte improvvisa di Niccolò (III), avvenuta il 26 dic. 1441 a Milano, dove era stato chiamato dallo stesso Filippo Maria Visconti, aprì la successione, che avvenne pressoché incontrastata tanto più che il marchese nel suo testamento, redatto il giorno stesso della morte. aveva dichiarato l'E. suo erede. Così, il 28 dic. 1441, l'E. venne acclamato signore di Ferrara, Modena e Reggio dai gentiluomini ferraresi riuniti dal giudice de' Savi, Giovanni Gualengo, nella sala dei due camini del palazzo estense. La moglie del defunto, Rizzarda di Saluzzo, che reclamava la successione per i figli legittimi Ercole e Sigismondo, venne costretta al silenzio e, dopo qualche tempo (ottobre 1442), a lasciare Ferrara. Il fratello dell'E., Borso, gli garantì il suo appoggio, si recò a Modena e a Reggio per prenderne possesso a suo nome e in cambio della fedeltà dimostrata, ricevette il dominio diretto sul Polesine rodigino, zona di estremo interesse strategico, posta al confine con i territori veneziani, che solo nel 1438 era stata aggiunta ai domini ferraresi.
Nonostante la vasta convergenza sulla sua persona, l'E. dovette condividere ben presto il potere con altri. Si costituì infatti una specie di governo collegiale assai inusuale per le signorie italiane della prima metà del Quattrocento: oltre a Borso, che emerse subito come un vero e proprio comprimario, accedette ai più alti gradi del potere anche la cerchia dei collaboratori di Niccolò (III), Uguccione Contrari, Feltrino Boiardo, Giovanni Gualengo, insieme col giovane Alberto Pio di Carpi. Ciò rese possibile una sostanziale continuità con gli indirizzi politici del defunto marchese, in primo luogo per quel che riguardava la collocazione di Ferrara nel quadro degli Stati della penisola. Nell'aspro confronto tra i disegni egemonici di Venezia e del Ducato di Milano, Niccolò (III) aveva sempre cercato una posizione di difficile equidistanza, non esitando a ricorrere all'ambiguità e alla doppiezza, pur di evitare lo scontro aperto con uno dei due potenti vicini. I domini estensi si trovavano, infatti, sulla direttrice di espansione sia di Milano, che puntava alla Romagna, sia di Venezia, che proprio con il dogato di Francesco Foscari muoveva decisamente verso la Terraferma. Niccolò (III) aveva pertanto favorito spesso i disegni di pace, offrendo la sua mediazione tra i contendenti, con qualche successo di rilievo (trattato di Ferrara del 26 apr. 1433).
Anche i primi passi del nuovo marchese furono improntati ad un'estrema prudenza, agevolata dalla pace di Cavriana (pubblicata nel dicembre 1441), con la quale terminava una lunga fase del conflitto veneto-milanese. L'E. strinse innanzitutto i rapporti con Filippo Maria Visconti, con il quale furono rinnovati amichevoli patti precedenti: in questo modo gli veniva garantita, oltre alla promessa di protezione - quanto mai incerta -, la conferma del possesso di Reggio, passata nelle mani degli Estensi agli inizi del Quattrocento. Presso il duca di Milano soggiornò altresì, a più riprese, Borso (che aveva militato negli eserciti viscontei), in qualità di primo consigliere. Nel contempo, però, vennero mantenutì buoni rapporti con la Serenissima, con la quale, subito dopo l'ascesa al potere dell'E., furono scambiati ambasciatori.
Tuttavia, la situazione si fece difficile già a partire dal 1443, quando papa Eugenio IV mosse guerra a Francesco Sforza, per riconquistare le terre della Marca pontificia di cui il condottiero si era impadronito. In questa occasione la tregua veneto-milanese fu posta a dura prova, mentre l'ambiguità della politica viscontea e la persistenza di attriti latenti, di natura soprattutto economica, con Venezia, vanificavano il cauto atteggiamento dell'E. e di suo fratello Borso. Pertanto, al termine della fase più accesa della crisi, essi concepirono - sulla scorta di un verosimile benestare milanese - una alleanza con Alfonso d'Aragona, insediatosi sul trono di Napoli nel corso del 1442, dopo un lungo e duro conflitto con Renato d'Angiò.
I disegni estensi, esposti durante una missione diplomatica di Borso a Napoli tra il 1444 e il 1445, puntavano decisamente sulla possibile egemonia del nuovo potentato italiano per sfuggire alle frizioni con i due forti vicini. Anzi, veniva prospettato al re Alfonso, come direttrice di espansione, lo Stato di Filippo Maria Visconti, che non aveva avuto eredi maschi. A suggello dell'asse Napoli-Ferrara, inedito, ma destinato ad essere consolidato nella seconda metà del Quattrocento, veniva offerto il matrimonio dell'E. con una figlia naturale del re, Maria d'Aragona. Tuttavia questi progetti furono solo in parte coronati da successo. Il matrimonio fu effettivamente celebrato, nello stesso 1444, con un fasto che impressionò i contemporanei, ma l'ingresso del nuovo re di Napoli sulla scena politica italiana rispecchiò solo in parte gli audaci progetti concepiti dalla corte di Ferrara, dal momento che su costui concentrava le sue attenzioni anche Filippo Maria Visconti. Così l'E. fu piuttosto impiegato da Alfonso d'Aragona come mediatore per la stipulazione di un'alleanza aragonese-viscontea-pontificia volta a contrastare le ambizioni dì Francesco Sforza (aprile 1445). In questo modo, però, gli schieramenti si cristallizzarono: bastò lo scontro in Romagna tra Sigismondo Malatesta, aiutato da Milano e dai suoi nuovi alleati, e Francesco Sforza, assistito dalla lega veneto-fiorentina, per far riprendere la guerra (1445-1446).
L'E., che aveva tentato invano di dissimulare i suoi legami con l'Aragonese, appariva ormai uomo di parte: chiese dapprima sostegno finanziario a Milano per armare soldatesche a difesa del suo Stato. In un secondo momento, affidata la condotta di un contingente, a proprie spese, al conte Luigì Dal Verme, preferì tornare ad un atteggiamento più cauto, privilegiando l'intesa con il contiguo, affine Stato gonzaghesco. La posizione di Ferrara, nondimeno, divenne subito critica: l'E. subiva pressioni sia dalla corte milanese, che premeva per una decisa partecipazione alla guerra, soprattutto dopo i rovesci militari della seconda metà del 1446, sia da Venezia, che avrebbe considerato atto ostile qualunque aiuto finanziario, militare o semplicemente logistico al duca di Milano. Con molta accortezza l'E. riuscì ad evitare un coinvolgimento diretto dei suoi domini nel conflitto. Anche dopo il riavvicinamento tra Francesco Sforza e Filippo Maria Visconti, all'inizio del 1447, egli cercò di mantenersi, o almeno di apparire, neutrale, nonostante i continui tentativi dell'agente sforzesco Pietro Pusterla di farlo entrare nella nuova edizione della lega tra Roma, Milano e Napoli. Tuttavia, a causa dei frequenti passaggi di truppe ostili a Venezia sul territorio estense, i rapporti diplomatici con la Serenissima subirono, tra il 1446 e il 1447, un effettivo deterioramento e a nulla approdarono i colloqui con un emissario veneziano, Francesco Barbaro, appositamente giunto a corte.
Più congeniali agli indirizzi politici estensi erano le trattative di pace iniziate a Ferrara nella prima metà del 1447, per iniziativa del nuovo pontefice Niccolò V e dei Fiorentini, cui parteciparono ambasciatori di Venezia, Firenze, Milano, Napoli e di Bologna, che, ribellatasi al dominio pontificio, era causa di perturbazione dell'equilibrio italiano. Tuttavia, la morte di Filippo Maria Visconti (13 ag. 1447) interruppe bruscamente ogni attività diplomatica.
Piuttosto ambigua, ma spregiudicata e intelligente fu la condotta seguita dall'E. dopo la morte del duca di Milano. Cercò dapprima, dietro suggerimento del fratello Borso, di approfittarne per ampliare lo Stato con brandelli del dominio visconteo, in rapida dissoluzione. Prese Castelnuovo Scrivia, che il duca aveva già dal 1442 infeudato a Borso, e Copiano, presso Tortona, ricevendo altresì offerte da parte di Pavia di assumerne la signoria. In un secondo momento però, resosi conto della potenza di Francesco Sforza, non risparmiò energie per favorirne l'ascesa, soprattutto quando, passato il condottiero a combattere per Venezia, non doveva più temere eventuali ritorsioni della Serenissima. Nel novembre 1448 gli prospettò anzi il matrimonio del Proprio figlio Niccolò con una figlia naturale dello Sforza, Ippolita, e l'anno seguente gli inviò aiuti militari (800 cavalli e 400 fanti), sotto il comando'di Alberto Pio di Carpi. Ciò, tuttavia, non impedì all'E., nel 1449, un estremo tentativo di insignorirsi di Parma. Recatosi a Venezia per sondare le disponibilità del Senato veneziano, l'E. ne. incontrò, tuttavia, il deciso veto: troppo grandi erano le preoccupazioni della Serenissima per l'insolito dinamismo della diplomazia ferrarese. Il definitivo insediamento di Francesco Sforza a Milano, nel marzo 1450, gli consentì, infine, di tornare ai suoi progetti di pace, essenziali per la tranquillità dei domini estensi: spese pertanto la sua ultima attività politica nelle trattative condotte a Ferrara per gli accordi separati veneto-napoletani, conclusi il 1° luglio 1450.
Anche nel governo dello Stato di Ferrara l'E. poté contare sull'assistenza dei suoi ministri, primo fra tutti Uguccione Contrari, "savio et fidelissimo consigliero" (Diario ferrarese, p. 31). In alcuni atti, però, si delinea un indirizzo peculiare, volto a un rafforzamento del potere, che aveva le sue basi tradizionali nelle famiglie feudali emiliane, attraverso la conquista del consenso dei ceti più bassi. A questo riguardo vanno segnalate alcune concessioni in materia fiscale, subito dopo la sua ascesa, in una congiuntura economica assai difficile, per attenuare una pressione comunque maggiore rispetto a quella visibile in altre signorie italiane. Così fu revocata la tassa sugli ovini nel contado ferrarese, mentre al Comune vennero devoluti gli introiti della "datea", imposizione diretta in natura (grani), a patto che i contadini ne venissero alleggeriti di un terzo. Di concerto con il vescovo di Ferrara, Giovanni Tavelli, fu poi edificato, a partire dal 1444, l'ospedale di S. Anna, a favore dei meno abbienti. Sul piano invece della politica economica, il governo dell'E. si distinse soprattutto per la messe di interventi di bonifica e di contenimento della nefasta azione del Po e delle lagune: difatti, nello Stato ferrarese questo tipo di opere era vitale per proteggere l'agricoltura, attività principale, e darle continua espansione. Ai territori messi a nuova coltura vennero altresi concessi sgravi fiscali e, in accordo con il clero, l'esenzione dalla riscossione delle decime. Inoltre, fu dato impulso all'artigianato orafo e dei metalli, sulla scorta di una committenza di corte in continua ascesa. Infine, l'appoggio accordato alle colonie ebraiche ferraresi e i privilegi concessi a più riprese ai mercanti veneziani dimostrano una crescente attenzione per i settori finanziario e commerciale, vitali per un'economia di corte dispendiosa e sempre in cerca di liquidità.
Rari furono, invece, i momenti di appannamento dell'autorità dell'E.: una volta liquidato il pericolo del formarsi di un partito di corte intorno ai figli legittimi di Niccolò (III) - Ercole, che prenderà il potere nel 1471, e Sigismondo -, inviati a questo scopo a Napoli nel 1445, gli episodi di opposizione interna si limitarono ad una rivolta della riottosa Garfagnana, nel 1446, domata con energica decisione.
Nonostante le linee fondamentali del governo dell'E. non si discostassero da quelle tradizionali della famiglia estense, egli godette, già tra i contemporanei, di una grandissima fama di principe saggio e di ottimo reggitore dello Stato. Sull'immagine pubblica dell'E. incideva, infatti, il contesto culturale della corte ferrarese, nel quale grande importanza era accordata al modello - tratto dalla Repubblica di Platone - del principe-filosofo. Non si trattava, tuttavia, di mera celebrazione cortigiana: i legami tra l'E. e l'ambiente intellettuale in cui si era formato, anche dopo l'ascesa al potere, rimasero molto forti. Oltre alla continua frequentazione con Guarino Veronese, vero motore dell'umanesimo ferrarese, l'E. ospitò a più riprese alla sua corte personaggi quali Giovanni Aurispa, titolare dell'abbazia di S. Maria in Vado, l'umanista milanese Angelo Decembrio, il dotto greco Teodoro Gaza ed il poeta Basinio Basini. Fu altresì in rapporti epistolari con i più aperti umanisti del suo tempo, alcuni dei quali conosciuti durante le sessioni del concilio del 1438: tra i nomi più importanti, Pier Candido Decembrio, Ambrogio Traversari, Lorenzo Valla, Poggio Bracciolini, Francesco Barbaro, Flavio Biondo, Leon Battista Alberti. Numerose furono le traduzioni e le opere a lui dedicate, tra cui spiccano il Philodoxeos, il Teogenio e il De equo animante di Leon Battista Alberti, che affermò, peraltro, di aver steso il trattato De re aedificatoria, sotto lo stimolo del principe estense. L'umanista architetto collaborò altresì alla progettazione di una statua equestre da dedicare al padre dell'E., Niccolò (III).
Capace di un'apprezzabile tensione intellettuale, l'E. condivise profondamente la nuova atmosfera culturale. Studiava gli antichi autori soprattutto latini, come Cicerone, Virgilio, Terenzio, Seneca, Sallustio, Livio, poiché ignorava il greco; sosteneva con il suo prestigio la ricerca di testi dell'età classica, particolarmente coltivata da Guarino Veronese, commentando le nuove scoperte; infine partecipava talvolta direttamente, come nel caso della Naturalis historia di Plinio, al lavoro di collazione. Un dialogo di Angelo Decembrio, la Politia letteraria, nel quale è descritta la vita della cerchia dei dotti raccolta dall'E., lo presenta come protagonista e guida di molti degli itinerari dialogici, facendo apparire la sua figura come una straordinaria incarnazione dell'idea di nobiltà, rivestita di un'aurea quasi sacrale, assolutamente inconsueta per i signori italiani della prima metà del XV secolo. L'opera di Angelo Decembrio, per ovvie ragioni di cautela, non può essere considerata stricto sensu come fonte sulla personalità morale e intellettuale del marchese. Nondimeno, essa riflette il clima dell'élite riunita attorno all'E. e ne chiarisce il progetto culturale e le aspirazioni: rivitalizzare il sapere classico attraverso il contatto con la realtà quotidiana del governo, con i concreti compiti assunti da ciascun membro della corte e dal principe in prima persona; raggiungere, cioè, un pieno equilibrio tra vita activa e vita contemplativa.
Per l'E. ciò significava la possibilità, sul piano peculiarmente politico, di un consolidamento del potere e del consenso di cui egli dovette distintamente percepire tutte le potenzialità. Cercò, pertanto, di legare stabilmente a sé i dotti gravitanti nella propria cerchia, sottraendoli alla precarietà della vita di corte, che aveva costituito il limite maggiore del mecenatismo letterario del regno dì Niccolò (II). La riapertura dello Studio ferrarese, con decreto (concertato con i Savi) del 17 genn. 1442, giovò certamente a questo scopo. Ad esso l'E. provvide innanzitutto adeguati mezzi finanziari, sovvenendo il Comune con un contributo proveniente dalla Camera marchionale. Inoltre, attraverso assidui contatti epistolari, l'E. guadagnò all'ateneo affermati docenti: Angelo degli Ubaldi per il diritto civile, Francesco Accolti per quello canonico, Michele Savonarola per l'insegnamento della medicina. La cattedra di latino e retorica e quella di greco vennero tenute rispettivamente da Guarino Veronese e da Teodoro Gaza. Grazie a questi nomi prestigiosi lo Studio decollò rapidamente, riuscendo a trovare, nonostante la vicinanza dei due importantissimi istituti universitari di Padova e di Bologna, una sua specificità nell'ambito degli studi umanistici, che attirava studenti da molte parti d'Europa.
Anche la Biblioteca Estense fu al centro dell'attenzione dell'E., che non solo patrocinò numerose acquisizioni, ma anche provvide alla diffusione dei testi, affidandola all'opera del dotto copista cremonese Biagio Bosoni. Inoltre, nella cerchia del principe si svilupparono sensibilità e interessi per le modalità della conservazione e fruizione dei beni librari singolari, che furono in un certo senso all'avanguardia per la cultura italiana del tempo.
Il complesso di questi interventi, lo stesso atteggiamento dell'E. nei confronti della nuova cultura umanistica gli guadagnarono fama anche di letterato. Tuttavia, appare arduo il compito di definire i limiti della sua attività in questo campo. Infatti sono stati riconosciuti recentemente come falsi (probabilmente stesi da Girolamo Baruffaldi) i due sonetti di argomento amoroso registrati sotto suo nome nella raccolta Rime scelte de' poeti ferraresi antichi e moderni (Ferrara 1713), che avevano attirato l'attenzione e le lodi di Ugo Foscolo (nei Vestigi della storia del sonetto italiano, in Opere, X, Firenze 1859, p. 411) e di Giosue Carducci (in Delle poesie edite e inedite di Ludovico Ariosto, Bologna 1875, p. 32). Ad analoga cautela va certamente sottoposta l'ipotesi dell'esistenza di un suo volume di componimenti in rima, sebbene rimangano testimonianze, in alcune fonti annalistiche, della sua propensione alla creazione poetica, soprattutto estemporanea.
Anche le arti visive rientravano in questa politica di costruzione di una nuova immagine del potere signorile. All'architettura veniva demandata una funzione di pubblica celebrazione: a Ferrara e nel contado furono intrapresi o continuati lavori ai palazzi signorili di Belfiore, Belriguardo, Copparo e Migliaro; nei territori dello Stato l'E. stimolò soprattutto opere di fortificazione: a Lugo (che il papa gli aveva infeudato nel 1437, dietro compenso, da parte di Niccolò (III), di 14.000 ducati), Bagnocavallo, Rubiera e Finale. Ad un pubblico più selezionato si rivolgevano invece le espressioni artistiche figurative. In questo campo l'E. manifestò un gusto complesso, eterogeneo, talvolta incline all'eclettismo, che si espresse nella sua personale attività tanto di collezionista, quanto di committente.
Come amante di antichità, l'E. prediligeva cammei, medaglie, monete, spille, che raccoglieva e sottoponeva all'attenzione del suo antico maestro, Guarino Veronese, e degli altri dotti della sua cerchia. Si trattava di oggetti di piccole dimensioni, la cui fortuna - riscontrata in particolare negli anni del governo dell'E. e nel suo ambiente dimostra la crescita di un nuovo tipo di gusto artistico, concentrato sulla fruizione privata e personale. Questa particolare sensibilità non fu priva di influenze sulle opere del gruppo di artisti attivi intorno all'Este.
Antonio Pisano, detto Pisanello, fu il primo esponente di rilievo a giungere presso l'E., comparendo già intorno al 1435 come suo "familiare". Egli attese assiduamente all'arte del conio di medaglie, di forte ispirazione classica, dedicandone otto al profilo del suo signore. Su sua commissione dipinse, nel 14-45, una tavola per il palazzo di Belriguardo ed una Visione di s. Antonio e di s. Giorgio. Dal 1444 al 1446, inoltre, fu attivo a Ferrara un discepolo del Pisanello, Matteo de' Pasti.
Iacopo Bellini comparve invece nel 1441 alla corte estense, invitato a cimentarsi con il Pisanello in una gara per il ritratto del marchese: la vittoria arrise al primo; delle due opere, solo quella di Pisanello può essere riconosciuta con sufficiente certezza nella tavola conservata a Bergamo, nell'Accademia Carrara. Probabilmente l'E. è raffigurato, in veste di committente adorante, nella Madonna con Bambino dipinta da Iacopo Bellini verso la fine degli anni Trenta (ora al Louvre). Dal 1443 al 1452, anni di lavori e studi nella Terraferma veneziana, Iacopo Bellini tornò probabilmente più volte a Ferrara, ma non vi è più traccia di sue opere per l'Este. Anche il giovanissimo Andrea Mantegna, nel maggio 1449, chiamato probabilmente dal letterato e medico di corte Michele Savonarola, giunse presso l'E. e ne eseguì il ritratto, con l'effigie del camerlengo Folco di Villafora, favorito del marchese, nel verso.
Un costante interesse per la pittura fiamminga, più acceso intorno al 1449-1450, è infine testimoniato dalla presenza a corte di opere di Rogier van der Weyden, tra cui un trittico, perduto, raffigurante la Deposizione e la Cacciata dall'Eden. Di altri suoi lavori, ordinati dall'E., si conosce invece l'esistenza solo attraverso i registri di pagamenti. Ciò non implica che Rogier van der Weyden abbia lavorato personalmente a Ferrara anche se compì un pellegrinaggio in Italia in occasione dell'anno santo 1450; Piuttosto, si può ipotizzare una sorta di commissione a distanza, grazie ai legami tra la corte estense e quella borgognona di Filippo il Buono, presso la quale l'E. inviò un suo figlio illegittimo, Francesco, fin dal 1444. Il modello culturale nordeuropeo di stampo cortese-cavalleresco, ancora vivo alla corte dell'E. nonostante il vigore degli studi umanistici, determinò, altresì, una decisa propensione per le arazzerie fiamminghe, presenti numerose nei palazzi estensi e prodotte non di rado a Ferrara. Nel 1441 fu infatti chiamato l'arazziere Pietro di Andrea, che raggiunse il conterraneo Giacomo di Angelo, assunto sin dal 1436. Quindi, nel 1444 si trasferirono nella città estense Livino Gigli di Bruges e Rinaldo Gualtieri di Bruxelles. Molto probabilmente anche le scene di combattimenti tra cavalieri, dipinte da Piero della Francesca nel castello di Ferrara, oggi perdute, rispondevano ad un canone estetico "cortese".
Una convergenza tra l'atmosfera culturale ed i gusti artistici presenti alla corte dell'E. si riscontra nel programma decorativo del suo studiolo - luogo riservato di approfondimento degli studi e di discussioni con gli intimi - nel palazzo di Belfiore.
Nell'autunno del 1447 l'E. aveva reso noto a Guarino Veronese di aver scelto per tema la raffigurazione delle Muse, facendo emergere, per la prima volta in un ambiente principesco, una perfetta corrispondenza tra decorazione e funzione. Il maestro rispose entusiasta per la predilezione dimostrata dall'allievo nei confronti di un argomento classico. Colse altresì l'occasione per suggerire, come gli era stato richiesto, una precisa definizione del numero delle Muse e delle peculiarità di ciascuna, in modo che, tutte insieme, simboleggiassero la saggezza e l'armonia vigenti in uno Stato ordinato razionalmente, quale doveva essere quello ferrarese nel progetto culturale della cerchia guariniana. Le nove tavole furono poi, nel novembre 1447, affidate alla realizzazione di Angelo Maccagnini da Siena, mentre su di esse si concentrava l'attenzione di dotti e letterati della corte. fE però noto che solo due delle Muse (Clio e Melpomene) furono completate prima della morte del pittore toscano, nel 1456. L'intero ciclo, probabilmente, fu smembrato dopo l'incendio di Belfiore nel 1482.
L'E. non vide completate le pitture che, con passione umanistica, aveva ispirato: morì infatti il 10 ott. 1450, nel palazzo di Belriguardo, dopo che gli era stata scoperta "una postema nel capo" (L. A. Muratori, Antichità estensi, p. 206). Venne seppellito nella chiesa di S. Maria degli Angeli, dove giacevano i signori di Ferrara. Lasciò, oltre a Francesco, un figlio legittimo, Niccolò, avuto da Margherita Gonzaga. Ma, a causa della sua tenera età, fu il fratello Borso a succedere all'E., in deroga al testamento di Niccolò (III), che aveva assicurato il diritto di successione alla sua discendenza legittima.
Fonti e Bibl.: Per le lettere inedite dell'E. si rimanda ai volumi di P. 0. Kristeller, Iter Italicum, I, II, III, VI, ad Indices.
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