CIPRIANI, Leonetto
Nacque a Ortinola, frazione di Centuri, in Corsica, il 16 maggio 1812 da Matteo e da Caterina Caraccioli. Il padre, acceso bonapartista, alla caduta dell'Impero si trasferì a Livorno che divenne il centro delle sue varie intraprese mercantili; e qui la famiglia lo raggiunse nel 1822.
Nel 1824 il C. fu inviato, assieme al fratello Pietro, nel collegio di S. Caterina a Pisa, dove rimase per quattro anni, dimostrandosi scolaro poco docile. Uscito dal collegio, il padre gli affidò la sorveglianza dei possedimenti toscani e la sua corrispondenza d'affari. Nel 1830, preparandosi la spedizione francese in Algeria il C. ottenne dal padre il permesso parteciparvi, sotto la protezione del. padrino, il generale Juchereau de Saint-Denis, sottocapo di Stato Maggiore; e rimase ad Algeri anche dopo la partenza del generale, richiamato in Francia dalla rivoluzione di luglio. Secondo quanto scrisse nelle sue memorie (Avventure della mia vita, a. cura di L. Mordini; Bologna 1934, pp. 40-51), egli avrebbe fatto ritorno in Toscana, dietro le pressioni paterne, ma in compagnia di una giovanissima donna, forse di origine genovese, che era appartenuta allo harem del bey. La breve avventura si concluse però tragicamente con il suicidio della giovane. Superata questa grave crisi, il C. fu inviato dal padre a Trinidad, nelle Antille, dove la famiglia aveva possedimenti e interessi cospicui. Qui egli dedicò molto del suo tempo a viaggi nelle Antille e nel continente; attraversò anche parte degli Stati Uniti, visitando Washington, Baltimora e New York. Nel '34 tornò in Europa; e, dopo un breve soggiorno a Parigi, nel Belgio e nell'Olanda, fu di nuovo a Livorno. A questi anni risalgono anche i primi rapporti con la famiglia Bonaparte (legata ai Cipriani da legami di affari) e, soprattutto, con l'ex re di Westfalia, Gerolamo.
Nel novembre del 1834 i Cipriani si trasferirono a Pisa, ove il C. si iscrisse all'università, per studiare le scienze naturali. Dopo un solo anno di studi, alla notizia dell'emancipazione degli schiavi nelle colonie inglesi, il padre lo inviò a Londra per chiarire la situazione finanziaria e patrimoniale dei loro possessi americani, in conseguenza della nuova legislazione antischiavista. Da Londra il C. proseguì per Trinidad; e qui, dopo aver regolato le varie questioni legali e patrimoniali. si dedicò con profitto a varie attività mercantili nelle Antille. Ritornò a Livorno solo nel '36, sostando, qualche tempo a Parigi, ove ebbe i primi contatti con l'emigrazione politica italiana. Nel '37, alla morte del padre, accettò la tutela dei fratelli minorenni. La consistenza patrimoniale della famiglia era sempre abbastanza cospicua, perché, oltre alle varie attività economiche nelle Antille, i Cipriani avevano possedimenti agricoli e beni fondiari in Toscana e in Corsica. Ma, trovandosi coinvolto in numerose cause legali, il C. dovette vendere il palazzo pisano e procedere a severe economie. In questi anni ebbe, appunto, diverse relazioni di carattere legale con alcuni giovani avvocati, destinati ad aver poi una parte notevole nelle vicende politiche toscane, come il Montanelli, il Guerrazzi e il Salvagnoli.
Frattanto i legami con i Bonaparte si erano andati sempre più rafforzando; secondo quanto scrive nelle sue memorie, il C. era divenuto intimo, oltre che dell'ex re Gerolamo e del figlio, anche dell'ex re d'Olanda, Luigi, dell'ex re di Spagna, Giuseppe, e dell'ex regina di Napoli, Carolina Murat; e spesso fu loro consigliere in delicate trattative economiche. Si tenne, invece, sempre lontano dai diversi gruppi radicali e repubblicani, attivi in Italia, nel corso degli anni Quaranta. Al contrario, il fratello Alessandro, nei suoi frequenti viaggi d'affari in Francia e a Malta, si era avvicinato ad alcuni esponenti dell'emigrazione mazziniana, specialmente a Nicola Fabrizi, con il quale teneva una fitta corrispondenza.
Nel '43 Mazzini, deciso a riprendere l'iniziativa, aveva disposto di reclutare alcuni rivoluzionari in Corsica, pronti a sbarcare in Toscana, per promuovere un'insurrezione nelle Romagne. Alessandro si era impegnato a fornire ai congiurati, giunti a Livorno, i mezzi necessari per la spedizione che, secondo quanto afferma un delatore della polizia austriaca, infiltrato nella Giovine Italia, provenivano forse, in notevole misura, proprio dai Bonaparte (cfr. Protocollo della "Giovine Italia". Congrega centrale di Francia, I-III, Imola 1916-1918, ad Indicem). Comunque, una somma ragguardevole era stata promessa personalmente anche da Alessandro.
Secondo la narrazione del C. (che diverge però nettamente dalle notizie fornite dal Protocollo e da alcune lettere di Mazzini), nel mese di agosto, mentre Alessandro, con la moglie Sofia Parra, si trovava a Parigi, si presentarono a Livorno soltanto quattro congiurati, guidati dal fratello di Nicola Fabrizi, Paolo. Questi chiese al C. la sovvenzione promessa da Alessandro: dopo complicate ed aspre contrattazioni (nelle quali ebbe parte anche il Montanelli), il C. versò uni notevole somma che permise ai congiurati di allontanarsi da Livorno. Certo è che, se, sino ad allora, il C. si era tenuto lontano dal movimento mazziniano, da questo momento divenne un deciso avversario di Mazzini e dei suoi seguaci, che ritenne anche. responsabili di aver provocato, con le loro recriminazioni e accuse, la morte di Alessandro, avvenuta poco dopo, a Parigi, peraltro per cause naturali.
Eletto papa Pio IX, il C. si recò a Roma per rendersi conto personalmente delle nuove possibilità politiche. Ivi riuscì ad avvicinare alcuni alti dignitari ecclesiastici, tra i quali i cardinali Luigi Amat e Angelo Mai, al, quale attribuì, nelle memorie (pp. 112 ss.), dichiarazioni singolarmente radicali a proposito della riforma delle istituzioni ecclesiastiche. Dopo aver riferito di persona a Carlo Alberto il risultato di tali colloqui, del resto piuttosto generici, il C. si recò in Corsica, in attesa di sviluppi politici più decisivi. Tornò, però, subito in Toscana, all'inizio della prima guerra d'indipendenza; e, a Firenze, si adoperò a convincere il ministro Ridolfi affinché inviasse subito i volontari livornesi nella Lunigiana. Egli stesso si unì alla spedizione, senza alcun grado o incarico ufficiale; ma, ricco d'inventiva e dotato di un solido senso pratico, si rese presto indispensabile per dare un minimo di ordine e di efficienza a quelle truppe disorganizzate ed eterogenee.
Dopo la formale dichiarazione di guerra della Toscana all'Austria, i volontari toscani si unirono alle truppe regolari a Reggio Emilia, sotto il comando del colonnello De Laugier che attribuirà al C. il grado di capitano. Quando il De Laugier sostituì il generale Ferrari Da Grado nel comando di tutte le truppe toscane, egli ne divenne l'aiutante di campo. In tale qualità, partecipò al combattimento di Curtatone e gli venne in seguito conferita la croce di cavaliere di S. Giuseppe e la menzione onorevole sarda. Dopo la battaglia di Goito, il De Laugier, ritenendo erroneamente di aver di fronte un corpo di truppe austriache ormai in rotta, inviò il C. a intimare loro la resa, senza però fornirlo delle dovute credenziali. Così il C., presentatosi alle linee austriache, fu preso prigioniero e, accusato di essere una spia, venne condotto al quartier generale del Radetzky. Questi lo fece rinchiudere nella fortezza di Mantova dove fu sottoposto a una dura prigionia. Ne fu liberato per l'intervento personale di Carlo Alberto, dell'ex re Gerolamo, di lord Palmerston e del ministro della Guerra sardo. Lasciato in libertà sotto l'impegno di non prender più parte alla guerra (dal quale però fu poi svincolato dal Radetzky per intercessione del De Laugier; cfr. C. De Laugier, Le milizie toscane nella guerra di Lombardia del 1848, Pisa 1849, pp. 20, 36, 42), il C. tornò a Livorno, ove fu raggiunto dalla notizia della sconfitta di Custoza e dell'armistizio.
Frattanto, in Toscana, le notizie dei rovesci militari sardi avevano provocato la caduta ael ministero Ridolfi. Nelle sue memorie il C. scrive che, mentre si svolgevano i sondaggi tra i maggiori esponenti del mondo politico toscano per formare un nuovo governo, il Salvagnoli e il Lambruschini, che avrebbero dovuto farne parte insieme al Ricasoli, lo invitarono ad assumere il ministero della Guerra; invito però da lui respinto recisamente. Caduto questo progetto, si costituì il governo Capponi, la cui vita fu subito assai difflcile, anche per la situazione rivoluzionaria che si era creata a Livorno, centro dell'opposizione democratica. Il malcontento che serpeggiava da tempo nella città esplose alla fine di agosto, con una sommossa popolare, conclusa con la dissoluzione della guardia civica, mentre i democratici restavano praticamente padroni della città.
Per riportare l'ordine a Livorno, il governo nominò il C., promosso per l'occasione colonnello, commissario straordinario con pieni poteri. Giunse a Livorno la sera del 30agosto e la sua decisione ed energia sembrarono riportare la calma nella città. Il giorno seguente emanò una "Notificazione", nella quale faceva, appello alla concordia civile. Nondimeno, per evitare qualsiasi ripresa delle agitazioni, ordinò la restituzione delle armi, che erano state sottratte dai depositi militari e alla guardia civica, e proibì le riunioni del democratico Circolo del popolo.Queste incaute decisioni provocarono la reazione dei democratici e, in breve, gravi incidenti e scontri armati. Il C. cercò di operare, numerosi arresti; ma, constatate la debolezza e l'indecisione delle sue truppe, dové rinunciarvi. Decise perciò di far ritirare la guarnigione nella fortezza. Un suo dispaccio al governo per ottenere l'autorizzazione a bombardare la città fu intercettato dagli insorti; le truppe ai suoi ordini si dimostrarono del tutto incapaci di fronteggiare la grave situazione; così, mentre cresceva la pressione annata dei democratici, il C. fu costretto ad abbandonare Livorno, ripiegando su Pisa. Presentata al governo una relazione sul suo operato (ma sulla, propria attività in quei giorni a Livorno scrisse poi anche un opuscolo: Narrazione dei fatti che si riferiscono alla mia missione come commissario straordinario nella città di Livorno, Firenze, 30 seti. 1848), si ritirò nella sua villa di Montalto.
Quando l'agitazione democratica si propagò al resto della Toscana, il C. fu inviato dal governo prima a Torino per chiedere a Carlo Alberto l'intervento delle sue truppe e, quindi, a Parigi, incaricato di una missione ufficiale per trattare l'acquisto di materiale bellico. Dopo l'avvento del governo democratico Guerrazzi-Montanelli, venne subito richiamato in Toscana; egli rispose rinunziando alla sua missione, e rimase nella capitale francese. Qui i suoi rapporti con i Bonaparte e con Alessandro Walewsky, il figlio di Napoleone, si fecero ancora più stretti; e spesso partecipò alle riunioni tenute nella casa dell'ex re Gerolamo per preparare la candidatura di un Bonaparte alla presidenza della Repubblica francese. Durante questo periodo il C. ebbe, naturalmente, anche vari incontri con il futuro presidente e poi imperatore, Luigi Napoleone.
Nel marzo del 1849 il C. tornò in Italia e partecipò alla secoqda campagna, contro l'Austria con l'esercito sardo, come addetto allo Stato Maggiore della divisione Bes. Combatté alla Sforzesca e a Novara; più tardi, per il suo comportamento, gli fu conferita la medaglia d'argento.
Dopo la restaurazione granducale in Toscana, il C. dette le dimissioni da colonnello e si ritirò nei suoi possedimenti, passando, irrequieto, da ricerche archeologiche nelle sue terre di Cecina, all'esplorazione delle isole di Montecristo e di Pianosa ove forse intendeva abitare, finché decise di riprendere la via delle Americhe. Nominato console, sardo a San Francisco (10 sett. 1850), dopo aver sistemato i suoi affari, iniziò il viaggio alla fine del mese di agosto del 1851.
Sì recò dapprima a Parigi, ove l'allora presidente Luigi Napoleone l'invitò a fermarsi, offrendogli varie possibilità d'impiego alle sue dipendenze. Ma la sua natura insofferente lo spronava a partire; e il C. lasciò la capitale, ove, però, ad ogni suo ritorno, riallacciava gli antichi rapporti con gli emigrati italiani. A questo proposito, le sue, memorie sono ricche di note e di ricordi interessanti, come l'accenno ad una visita di Mazzini all'ex re GeroIamo, alla presenza dei Montanelli nell'entourage di Napoleone III, ed a un suo duello, per ragioni private, con il democratico livornese Vincenzo Malenchini.
Il continente americano non offlì al C. le grandi opportunità economiche nelle quali aveva sperato. Le sue operazioni finanziarie per l'acquisto di terreni in Califomia o per il commercio del bestiame (una volta attraversò gran parte degli Stati Uniti da Saint Louis alla California, conducendo una grossa mandria) non sembra che avessero esiti molto positivi, anche se soddisfacevano la sua irrequietezza e il suo desiderio di compiere sempre nuove esperienze. Comunque, nel '55, quando era in corso la guerra di Crimea, tornò in Europa e vi rimase sino al '58. La sua attività, durante questo triennio, quanto mai varia ed intensa, conferma i suoi stretti legami con i Bonaparte e la sua partecipazione alla complessa attività politica e diplomatica che preparò l'intervento francese in Italia. Nel '55 era, infatti, a Torino, ove s'incontrò con Vittorio Emanuele II alla vigilia del suo viaggio in Francia; e chiese formalmente al re, a nome dell'ex re Gerolamo, la mano della duchessa di Genova per il principe Gerolamo Napoleone; ma la trattativa fallì per il rifiuto della duchessa. Fra il giugno e l'ottobre del '56 accompagnò nel suo viaggio in Islanda lo stesso principe. Poi, nel '57, munito, di lettere creditizie del Walewski, del Gualterio e dei Matteucci, svolgeva una missione ufficiosa nelle Romagne, come risulta anche dal carteggio Minghetti-Pasolini e dalle Memorie dello stesso Minghetti. In tale occasione strinse rapporti con alcuni importanti uomini politici romagnoli, anche in relazione alla nota che Napoleone III intendeva inviare a Pio IX, per sollecitare le riforme nello Stato della Chiesa. L'anno seguente condusse le prime trattative per il matrimonio dello stesso Gerolamo Napoleone con la, principessa Clotilde di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele; anche questa volta, pero, le reticenze degli ambienti di corte lo indussero. ad abbandonare la missione. Tornò, perciò, a San Francisco; ma, già nell'ottobre del '58, Gerolamo Napoleone lo sollecitava ad essere in Europa, al più tardi nella primavera dell'armo successivo, anche in vista del suo matrimonio con la principessa Clotilde e dei successivi sviluppi dell'alleanza franco-sarda. Consapevole del significato politico di quell'unione, il C. decise di partire al più presto. A New York fu raggiunto dalla notizia del congresso europeo che avrebbe dovuto decidere, in via diplomatica, la questione italiana. Si trattenne, così, ancora negli Stati Uniti e, proprio in quei giorni, sposò una giovane americana, Mary Worthington. Comunque, il 22 giugno dei '59 il C. era in Piemonte e, nominato colonnello di Stato Maggiore dell'esercito sardo, veniva addetto al quartier generale dell'imperatore Napoleone III.
Sembra - come scriverà più tardi Gaspare Finali - che anch'egli partecipasse ai preliminari dell'armistizio di Villafranca e che, in tale occasione, fosse partecipe dell'errore che indusse i rappresentanti francesi ad attribuire all'Austria anche i distretti cispadani della provincia di Mantova.
Il suo stretto legame con l'imperatore fu certamente il motivo principale dell'offerta che gli venne fatta di assumere la carica di governatore delle Romagne, dopo il ritiro del commissario piemontese, Massimo d'Azeglio. Il C. accettò; ma, prima di recarsi a Bologna, si fermò a Firenze. Il Rubieri afferma che, durante la sua presenza nella capitale toscana, egli cercò di sondare gli ambienti politici sul possibile ritorno della dinastia lorenese, secondo quanto era stato stabilito dall'armistizio, ma che, rendendosi conto che la causa dei Lorena era ormai perduta, informò lealmente il governo francese dell'impossibilità di una restaurazione. Tali affermazioni non sono confermate da altre fonti, mentre G. De Reiset (Messouvenirs, III, L'unité de l'Italie et l'unité de l'Allemagne, Paris 1901, pp.26-29, 42-48, 57-60), il quale insiste sulla condizione di suddito francese delC. e sui suoi legami con il Walewsky, afferma che, sebbene consapevole dell'opposizione dei cittadini delle Romagne al governo papale, il governatore fosse del tutto disposto a seguire le direttive dell'imperatore e non mirasse all'abolizione totale della sovranità pontificia. Sta però di fatto che il C. volle concordare con l'amico Ricasoli un piano di azione comune, sia per quanto concerneva l'ordine interno sia per la difesa da eventuali attacchi.
Eletto governatore dal Consiglio di Stato delle Romagne il 1° agosto, il C. assunse effettivamente la carica il 6 dello stesso mese. Per il 28 convocò i collegi per l'elezione di un'Assemblea che si riunì per la prima volta il 1° settembre. Il 6 i deputati eletti proclamarono la decadenza del potere temporale e la volontà delle Romagne di unirsi alla monarchia sabauda. Inoltre l'Assemblea ratificò gli atti dei governo provvisorio e la nomina dei C. a governatore con pieni poteri.
Durante il suo governatorato fu stipulata, il 10 agosto, la lega militare tra gli Stati dell'Itaha centrale. Le trattative per la formazione della lega furono assai laboriose, soprattutto per l'atteggiamento del Ricasoli che temeva di legare le sorti della Toscana a quelle, molto più incerte, delle Romagne. Comunque il grave problema venne superato, con la stipulazione, prima, di un trattato tra la Toscana e le province dell'Emilia e quindi con la successiva adesione delle Romagne che entravano a far parte della lega, senza condizioni. Il comando generale dell'esercito della lega fu affidato al generale Fanti, mentre Garibaldi, già posto a capo dell'esercito toscano, ne fu comandante in seconda.
Nell'espletamento delle sue funzioni di governo il C., uomo di opinioni sempre più moderate, implacabile avversario di Mazzini, e dei. mazziniani e timoroso di compiere atti che potessero dispiacere a Napoleone III e provocare un suo intervento, dimostrò, tutti i limiti dei suo carattere autoritario e delle sue non brillanti capacità politiche. Basti qui ricordare l'arresto di Alberto Mario, di sua moglie Jessie White e di Rosolino Pilo, il suo tentativo di convincere il Ricasoli ad arrestare e istradare in Romagna, con un inganno, lo stesso Mazzini, allora presente a Firenze (e il C. dichiarava che lo avrebbe fatto immediatamente fucilare!), e l'incerta politica seguita nei confronti dei vicini territori marchigiani ancora in mano pontificia, determinata, da un lato, dal suo deciso anticlericalismo, pari, del resto, alla sua profonda avversione per l'Austria, e, d'altro canto, dal timore delle reazioni della Francia e delle altre potenze europee a un possibile sconfinamento dei volontari romagnoli. Di tali atteggiamenti e decisioni fu critico molto aspro il Brofferio, che si trovava allora nelle Romagne con l'incarico di osservatore ufficioso attribuitogli dal Rattazzi.
Tuttavia. in qualità di governatore, il C. prese anche provvedimenti economici di notevole rilievo per la riorganizzazione delle province romagnole, nel quadro della complessa e difficile situazione politica generale dell'Italia centrale.
Si ricordino, a questo proposito, il decreto del 22 agosto che affrontava il problema del dazio di consumo e prevedeva una diminuzione delle tariffe, le disposizioni del 27 agosto e del 27 settembre sulle tasse ipotecarie, il decreto del 16 settembre che riconosceva il debito pubblico pontificio, la nomina di una commissione per l'ammortizzazione del prestito nazionale. I problemi essenziali, però, erano sempre costituiti dalla, minaccia della restaurazione del potere pontificio, dall'incertezza della politica personale di Napoleone III, dai rapporti non sempre facili con gli altri governi degli Stati della lega e, soprattuto, dalla debolezza del governo La Marmora-Rattazzi, incapace di assumere decise iniziative diplomatiche e militari. Per affrontare simili difficoltà il C. non era certo l'uomo più adatto, sia per il sospetto di essere un agente bonapartista che lo screditava agli occhi dell'opinione pubblica non solo romagnola, sia per la sua scarsa duttilità di carattere e la sua impreparazione di uomo di governo. Nondimeno, nell'affrontare la spinosa questione della reggenza del principe di Carignano che travagliò i governi dell'Italia centrale nel mese di settembre, il C. ebbe il merito di sbloccare una situazione stagnante, anche se il suo operato, in quel momento più che mai, poté prestarsi ad accuse di bonapartismo.
L'idea dell'unione dei quattro Stati dell'Italia centrale era già stata ventilata all'indomani della formazione della lega militare; ed era particolarmente, sia pur per motivi diversi, caldeggiata sia dagli autonomisti sia dai bonapartisti, e trovava il favore del Farini e dello stesso Cipriani. Questi, informato da Emanuele Marliani, inviato a Londra dal governo delle Romagne, che il governo inglese era favorevole all'idea dell'unione dei quattro Stati, inviò a Firenze lo stesso Marliani che, precedentemente, si era accordato con il Cavour e il ministro inglese a Torino, sir James Hudson, sulla nomina del Carignano a reggente. Nella stessa linea si muoveva, a Firenze, anche il romagnolo conte Pasolini. È nota pure l'opposizione a tale progetto da parte del Ricasoli, sempre timoroso che la formazione di un unico Stato dell'Italia centrale potesse, in realtà, favorire le mire del principe Gerolamo Napoleone o, comunque, rendere più difficile l'unione con il Piemonte. Il C. persisté nella sua linea e propose al collega toscano un incontro che ebbe luogo, il 28 settembre, a Scanello, nei pressi di Loiano, sulla strada delle Filigare, alla presenza anche del Minghetti, del Farini e dell'Audinot, per discutere sulla reggenza e su altri problemi concernenti l'unificazione degli Stati centrali tra loro e con il regno sardo. Ricasoli si decise ad accettare la proposta della reggenza, purché essa si fondasse sulle decisioni separate da parte delle singole Assemblee. Contemporaneamente procedevano le trattative per l'abolizione delle barriere doganali non solo tra gli Stati dell'Italia centrale, come avrebbero voluto il C. e Farini, ma anche tra essi e il Piemonte, come auspicava il Ricasoli. Il 3 ottobre, a Firenze, in Palazzo Vecchio, fu stipulata la lega doganale. Frattanto, con un decreto del 1° ottobre, il C. stabiliva il corso legale della lira sarda nelle Romagne e, poco dopo, procedeva all'unificazione dei pesi e misure con quelli in vigore nel regno sardo.
Nella seconda metà di ottobre maturò la crisi che portò alla fine del governatorato del Cipriani. Il motivo immediato furono i gravi contrasti con il Fanti e Garibaldi per il progetto, da essi approntato di una spedizione armata nelle Marche. In realtà, la presenza del C. a Bologna non era mai stata gradita ai democratici e, infine, diventava sempre più invisa e sospetta anche ai moderati che pure avevano sollecitato la sua nomina. Né, certo, aveva migliorato i suoi rapporti con i leaders politici bolognesi l'atteggiamento che teneva nei confronti di Gaspare Finali, suo capo di gabinetto e uomo fidato del Minghetti, che il C. teneva all'oscuro di tutte le sue decisioni e iniziative. Quando la spedizione nelle Marche parve imminente, il governatore che, pure, aveva prima assunto una posizione abbastanza favorevole, temendo ora che l'azione di Garibaldi e delle truppe della lega provocasse una dura reazione napoleonica, promosse un improvviso incontro con il Ricasoli, senza informarne il Farini.
L'incontro (al quale parteciparono anche Celestino Bianchi, il Finali, Vincenzo Ricasoli e il generale Raffaele Cadorna, da poco ministro della Guerra della Toscana) avvenne a Pratolino il 28 ottobre; e i due uomini politici divisarono addirittura il possibile scioglimento della lega militare e dei corpi volontari. Ciò provocò una grave crisi anche nei rapporti tra il C. e il Farini; crisi nella quale, com'è noto, intervenne direttamente lo stesso Vittorio Emanuele che invitò Garibaldi a rinunziare: al suo comando ed al progetto d'intervento nelle Marche. In ogni caso, la posizione del C. era ormai divenuta insostenibile; sicché, appena l'Assemblea delle Romagne ebbe votato la reggenza del Carignano (7 novembre), egli si affrettò a dimettersi, consapevole di non riscuotere più la fiducia dei suoi antichi sostenitori.
Estremamente amareggiato, il C. si ritirò dalla vita pubblica; ottenne, come unica ricompensa una lettera di Vittorio Emanuele (29 apr. 1860) che lo ringraziava per i servigi da lui prestati alla causa italiana. Poco dopo questi avvenimenti, alla notizia che la moglie era morta nel dare alla luce il figlio Leonetto, il C. partì per glì Stati Uniti, fermandosi prima a Parigi, ove assisté l'ex re Gerolamo nell'imminenza della sua morte avvenuta il 24 giugno 1860. Rimase in America, impegnandosi in attività economiche non sempre fortunate, sino al 1864, quando tornò in Italia su invito del cugino Ubaldino Peruzzi. Forse l'imminenza della convenzione di settembre e di una ripresa dell'iniziativa politica unitaria faceva ritenere utile la sua presenza nel paese, come possibile intermediario non ufficiale con gli ambienti napoleonici. Sta di fatto che l'8 ott. 1865 egli fu nominato senatore e, nell'agosto del '66, cavaliere di gran croce dei ss. Maurizio e Lazzaro e generale onorario; gli fu inoltre conferito il titolo di conte. E doveva aver mantenuto una certa influenza politica se, nell'estate del '66, Gabrio Casati, allora presidente del Senato, si rivolgeva a lui per aver notizie degli eventi più importanti di quei giorni, come l'inchiesta sull'ammiraglio Persano, le trattative con Vienna e la possibiltà che l'armistizio di Cormons si trasformasse in una pace definitiva.
Alla fine del '66, in seguito anche a un contrasto di affari col fratello Giuseppe che diede luogo a una lunga lite giudiziaria, il C. ripartiva per gli Stati Uniti, dove rimase sino all'anno '68 e ove fece di nuovo ritorno nel '71 per poter seguire personalmente il corso dei suoi interessi economici che era divenuto assai precario. L'anno seguente si ritirò definitivamente a Centuri, allontanandosene soltanto per brevi viaggi in Toscana e a Roffia. Da questo momento, si dedicò quasi esclusivamente all'amministrazione del suo patrimomo ed all'educazione.dei figli avuti dal secondo matrimonio con Maria Napoleoni. Partecipò solo raramente alle sedute del Senato, ma fu sempre attento alle cose italiane, come dimostra anche la pubblicazione a Roma, nel 1872, di un suo opuscolo Sul risanamento e colonizzazione dell'Agro romano.
Tale progetto, già elaborato durante l'ultimo soggiorno americano, è di notevole interesse per la soluzione proposta che muove da esperienze già attuate in, California. Ma più che gli aspetti tecnici della proposta interessa la valutazione che il C. dava del tipo di governo degli Stati Uniti, dello spirito d'iniziativa dei popolo americano e il suggerimento di creare intorno alla capitale una fascia di piccoli proprietari terrieri che esercitassero una funzione di conservazione sociale ed un'attività produttiva.
Nel 1882 prestò di nuovo la sua opera al principe Gerolamo Napoleone, recandosi a Chambéry ed a Moncalieri per definire, anche con lo stesso re Umberto, la questione dei beni dotali della principessa Clotilde. E risale probabilmente all'83 un altro suo breve scritto, Memoria in difesa dei suoi diritti sulla Cappella della Madonna dei dolori nel Convento della ss. Annunziata. in Corsica, pubblicata a Firenze.
Ormai la situazione politica italiana ed europea lo spingeva sempre più all'isolamento nel suo castello di Belvedere a Centuri. Per un uomo così legato, per tradizione familiare e scelta personale ai Bonaparte, la caduta del Secondo Impero aveva rappresentato il crollo delle sue più profonde e radicate idealità; così come lo aveva indignato e sconvolto l'atteggiamento triplicista e antifrancese della nuova politica estera italiana. Concluse perciò la sua vita con un gesto assai significativo più volte ricordato dal Finali nelle sue Memorie: una clausola del suo testamento imponeva all'erede, il figlio Alessandro, di rinunciare alla cittadinanza italiana, proprio a causa dell'alleanza che l'Italia aveva contratto con l'Austria, oggetto per tanti anni della sua inflessibile avversione.
Il C. morì a Centuri il 10 maggio 1888. Poco prima, prevedendo la propria morte, aveva chiesto al presidente del Senato che la sua commemorazione si limitasse alla lettura della lettera di Vittorio Emanuele che implicitamente smentiva quei sospetti che avevano sempre accompagnato la sua attività politica.
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