GUADAGNI, Leopoldo Andrea
Nacque a Firenze il 21 nov. 1705 da Pietro Egidio, di una famiglia originaria dei dintorni di Arezzo e medico chirurgo di grande fama, e da Anna Maria Palmer, gentildonna inglese. Avviato alla prima conoscenza delle lettere da maestri privati, il G. studiò poi presso gli scolopi a Firenze e nella facoltà legale di Pisa, dove seguì in particolare l'insegnamento di G. Averani, apprezzato esponente di quella che già all'epoca era chiamata la "scuola storico-critica" del diritto romano, ma molto apprese anche dal grecista A.M. Salvini. Autorizzato a terminare gli studi in quattro anni anziché nei cinque previsti, si laureò in utroque il 21 dic. 1724, promotore G.P. Gualtieri, docente di diritto canonico.
Sorretto nei suoi studi da una profonda conoscenza del latino e del greco, il G. entrò in rapporto con studiosi illustri del tempo; a I. Facciolati, che gli aveva prospettato una cattedra nell'Università di Padova, indirizzò una dissertazione Delle leggi censorie, in forma di lettera, che fu la sua prima pubblicazione (Firenze 1731).
Già questa operetta mostrava il metodo storico-critico che avrebbe improntato la sua produzione scientifica, e segnatamente la vocazione a studiare la giurisprudenza valorizzando le "antiche romane-memorie" (leggi, istituzioni, costumi). Ricostruzione filologica ed erudizione permisero alla dissertazione di restituire il vero significato degli editti dei censori, ritenuti dal G. diversi dalle leggi, pur essendo comunemente definiti tali. È significativa in questo lavoro la concezione imperativistica della legge che il G. espresse citando S. Pufendorf, mentre esulò dal suo interesse un confronto tra le istituzioni dell'antichità e quelle del suo tempo.
Nell'estate 1731 ottenne la cattedra di istituzioni di diritto civile nello Studio di Pisa e iniziò l'insegnamento sotto gli auspici del granduca Gian Gastone de' Medici. Nel 1742 ottenne anche la prestigiosa cattedra di Pandette, riattivata dopo quasi cento anni per un docente capace di una didattica incentrata sui Paratitli. Egli sembrò monopolizzare l'insegnamento del diritto civile con lezioni pubbliche e private; solo nel 1758, non senza contrasti, P. Neri riuscì a far nominare due nuovi docenti di istituzioni, lasciando al G. le sole Pandette, con un aumento di stipendio.
Dagli anni Quaranta egli si era segnalato sia come maestro importante, cui le autorità dello Studio chiedevano pareri e proposte sulla didattica e sui colleghi, sia come uno dei maggiori esponenti del cultismo europeo. Inserendosi, infatti, in un dibattito che aveva appassionato e diviso il mondo accademico toscano, quello tra G. Grandi e B. Tanucci, nel 1752 il G. pubblicò una dissertazione sull'esemplare fiorentino delle Pandette (De Florentino Pandectarum exemplari an sit imperat. Iustiniani archetypum et an ex eo caeteri, qui supersunt, Pandectarum libri manaverint dissertatio, Romae 1752; una ristampa, con annotazioni di K.F. Walch, apparve a Jena nel 1755). Con la consueta accuratezza filologica, anche contro A. Poliziano, vi sostenne che la famosa Littera non era l'archetipo del manoscritto giustinianeo ma una trascrizione del VI o VII secolo da una o più copie, portate da qualche esarca a Ravenna e contenenti anche errori. Definì comunque il codice fiorentino la sorgente di tutti i numerosi manoscritti esistenti e affermò che senza ragioni più che evidenti non era lecito abbandonarne la lezione, data anche la sacralità che a quel documento della giurisprudenza romana veniva dalla sanzione di Giustiniano. Lo strumento metodologico dell'arscritica fu riproposto nell'Oratio de periculis ex copia subsidiorum in litterarum studio cavendis, con la quale nel 1754 il G. inaugurò l'anno accademico (edita a Pisa nel 1755). Vi affermò che la "ars critica, disciplinarum ferme omnium administra", non ammette superficialità, imponendo uno studio severo di costumi, consuetudini, leggi, anche se lo studio del diritto romano come organismo storico, di cui si possono cogliere origini e svolgimento, non può portare al superamento del Corpus iuris civilis. Aggiunse che il metodo critico non vale solo per la giurisprudenza, perché in ogni campo degli studi (e in proposito il G. rinviò a tanti maestri pisani) le nozioni universali non devono sovrapporsi alla realtà; solo dalla critica attenta delle fonti, che non si attarda nei rivoli della casistica e sta in guardia dai compendi, si può arrivare alla ratio di ciascuna disciplina.
I compiti assegnati dal G. all'insegnamento, e in generale al diritto, risultano soprattutto dalle sue parole al "lettore benevolo" delle Institutiones iuris civilis (Pisa 1758), appoggiate a una citazione della Nova methodus di G.W. Leibniz. Chiarì che non pensava a un distacco da ratio e ordine giustinianei, ma a superare sia chi aveva seguito la giurisprudenza elegante senza considerare l'uso forense, sia chi, chiuso nella dimensione pratica, aveva perso il contatto con le fonti. Queste dovevano esser studiate nella lezione genuina, in nome di una diffidenza per gli interpreti (peraltro moderata nei toni).
Non a torto il G. fu considerato già dai contemporanei un seguace del metodo cujaciano: lo studio storico e filologico di leggi, istituzioni e costumi è per lui condizione per conoscerne l'animus. Il problema dell'usus del diritto romano, da adeguare a nuovi tempi, fu da lui risolto citando lo stesso J. Cujas: non si può afferrare ciò che è necessario se non si conosce ciò che non lo è. La piena intelligenza delle ragioni segrete delle leggi si fonda dunque sullo studio di origini, ragioni e progressi del diritto civile, ma anche sulla conoscenza degli autori latini e greci e sulla corretta comprensione dell'hodiernus forensis usus.
Le Institutiones indicano fin dal titolo l'importanza dei principia iuris naturae et gentium, senza però che la significativa inserzione della "ragione filosofica" nella civilistica - che al G. riconobbero già i giuristi tra Sette e Ottocento - comporti la messa in discussione della coerenza delle leggi vigenti col diritto naturale o l'allusione al tema del codice, allora dibattuto anche in Toscana. Egli manifestò anzi una certa sfiducia nella capacità dell'intervento autoritativo del legislatore di risolvere la crisi della giurisprudenza del suo tempo, che addebitava soprattutto al divario tra teoria e pratica. L'ars critica non era insomma eversiva della tradizione romanistica né mirava a razionalizzare il diritto comune, che per il G. - che citò G.B. De Luca - obbligava in quanto recepito dal sovrano. Con un metodo espositivo poi seguito dai civilisti toscani dell'Ottocento, poneva nel testo i principî generali delle istituzioni e inseriva nelle note ampie ed erudite illustrazioni, richiedenti un maggior impegno dello studente. Per la mole della materia le Institutiones rimasero incomplete (il terzo tomo si arresta al titolo I del libro II); una nuova edizione si ebbe nel 1766 a Pisa (Exercitationes in ius civile, quibus pleraque iuris naturae et gentium principia… inlustrantur atque hodiernus forensis usus persaepe indicatur). Nelle Institutiones, considerate già dai contemporanei l'opera più importante del G., lo studio erudito dell'esperienza giuridica romana non lo portò a una riflessione critica sul diritto e le istituzioni del Granducato nel suo tempo, pure denso di tensioni e proposte tese a modernizzare la giurisprudenza.
Oltre all'insegnamento e all'ampia produzione scientifica, il G. svolse un'intensa attività di consulenza legale, anche fuori della Toscana; diversi governi gli chiesero pareri su problemi importanti. Nel Granducato fu sentito su questioni riguardanti lo Studio di Pisa nel corso delle riforme avviate da G. Cerati, e nel 1750 fu nominato membro della Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza; per la sua eloquenza nel 1763 fu incaricato dell'orazione in onore di Giuseppe II (Oratio cum Pisana Academia Iosephi II archiduci Austriae regi Romanorum creato gratuletur, Florentiae 1763). Il granduca Pietro Leopoldo nel 1767 lo consultò su questioni universitarie; gli sottopose anche la bozza della legge restrittiva della manomorta, varata nel 1769, e uno schema di riforma del diritto processuale civile preparato da C.A. Martini.
Si è talora guardato al G. come a uno dei principali maestri del ceto dirigente toscano impegnato nelle riforme tardosettecentesche, delle quali in qualche modo sarebbe stato anticipatore. Con lui si laurearono C. Amidei (corrispondente di C. Beccaria nella Toscana che nel 1786 avrebbe visto la riforma criminale leopoldina), G. Vernaccini (incaricato dal granduca della stesura del mai compiuto codice civile e autore della legge sui fedecommessi del 1789), F.B. Mormorai (impegnato nelle allivellazioni) e G.F. Pagnini, consigliere del granduca in materia fiscale. Inoltre il G. fu legato all'ambiente, a vario titolo "riformatore", di G.M. Lampredi, A. Tavanti, G.A. De Soria e G. Ristori, editore del Giornale fiorentino. Proprio l'ultimo, giornalista e poi funzionario, situò bene il G. nel suo tempo, riconoscendogli non la tensione a mutare l'ordine giuridico iscritto nel sistema di ius commune, ma il merito scientifico di aver superato il formalismo casistico degli interpreti, con l'analisi filologica e lo studio storico-critico delle fonti. Ristori, che condivise idee e progetti dell'illuminismo giuridico, mostrò gratitudine al maestro; affermò però che l'"erudizione somma" delle Institutiones non poteva essere strumento di modernizzazione dello Stato e del diritto e concluse che lo stesso G. "se ne avvedé, e rilasciò un'opera che non poteva imporre che ai suoi scolari".
Il G. morì a Pisa il 6 marzo 1785. L'anno seguente apparvero postume a Pisa otto Ad Graeca Pandectarum dissertationes, che invitavano i giovani a unire allo studio della giurisprudenza quello del greco, sull'esempio dei giureconsulti antichi, proponendo la consueta analisi critica di storia e istituzioni al fine di comprendere nella loro genuinità i più difficili passi greci delle Pandette.
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