PIRELLI, Leopoldo
PIRELLI, Leopoldo. – Nacque a Velate, in provincia di Varese, il 27 agosto del 1925, da Alberto e Ludovica Zambeletti, ultimo di quattro figli, dopo Maria Giovanna (1915-1970), Elena (1917-2009) e Giovanni (1918-1973).
La famiglia era una delle più note fra gli industriali italiani identificandosi con l’azienda che portava il suo nome, produttrice di ogni genere di articoli di gomma. Leopoldo, di quasi dieci anni più giovane delle sorelle e del fratello, veniva considerato dai suoi familiari un ragazzo non particolarmente adatto a svolgere un ruolo di primo piano in azienda. Proprio per confutare questo scetticismo sulle sue capacità, si laureò in ingegneria al Politecnico di Milano nel 1951 e, a causa della rinuncia di Giovanni, il fratello maggiore divenuto – dopo il servizio nella seconda guerra mondiale e la successiva partecipazione alla Resistenza – un militante della sinistra più radicale, si trovò destinato al ruolo di successore del padre e dello zio Piero alla guida della società. Leopoldo iniziò quindi un severo apprendistato che lo portò a conoscere l’azienda in ogni suo aspetto tanto da poter entrare nel quartier generale del gruppo.
In uno scritto autobiografico Pirelli avrebbe ricordato il continuo confronto con la figura del padre nella cui stanza aveva il suo posto di lavoro. Alberto, infatti, non era solo uno dei maggiori industriali italiani, ma anche un uomo di grande cultura e vasti contatti internazionali che aveva messo al servizio del Paese, assolvendo negli anni fra le due guerre importanti incarichi diplomatici.
Nel 1959 Alberto – che fino al 1956 aveva governato l’azienda in simbiosi con il fratello Piero, scomparso in quell’anno – fu colpito da un grave malore in conseguenza del quale Leopoldo, come vicepresidente, si trovò a prendere in carico la responsabilità dell’intero gruppo all’età di 34 anni. Nel 1965 poi, assunse anche la presidenza di una società presente nelle più importanti nazioni europee, in Nord America (cavi) e in Sud America, dove era particolarmente forte.
Nonostante quest’orientamento cosmopolita, il governo dell’impresa continuò a essere strettamente basato sulla guida della famiglia Pirelli. Alla metà degli anni Sessanta il gruppo risultava strutturato attorno a tre entità: Pirelli & C. era la finanziaria di famiglia che, a sua volta, possedeva il 7,21% del capitale della Pirelli S.p.A. (la quale controllava tutte le attività che si effettuavano in Italia e nei Paesi membri nel Mercato comune europeo) e anche il 18% della SIP (Société Internationale Pirelli) con sede a Basilea (che controllava le altre attività internazionali).
In uno stile tipicamente italiano, le tre società menzionate si caratterizzavano per le partecipazioni incrociate, mentre una serie di alleanze con le più importanti famiglie del capitalismo italiano consentiva ai Pirelli – pur possedendo molto meno della metà del capitale – di controllare l’intero gruppo. A rafforzare la conduzione familiare dell’azienda erano gli stretti legami con il top management. Nella gerarchia aziendale, al di sotto di Pirelli, operavano tre amministratori delegati, tutti e tre veterani dell’azienda: il cognato Franco Brambilla, marito della sorella Elena, era a capo del settore pneumatici; Emanuele Dubini presiedeva alle attività finanziarie e amministrative; Luigi Rossari controllava il ramo dei cavi e dei conduttori elettrici.
È interessante osservare che il gruppo era chiaramente diversificato: circa la metà delle entrate derivava dai pneumatici, il 40% dai cavi e il rimanente 10-15% proveniva dai cosiddetti articoli diversi, sempre legati alla gomma. Nonostante ciò, non era in essere una moderna organizzazione multidivisionale – la quale consiste in un quartier generale specializzato nel coordinamento, controllo, riallocazione delle risorse e, in definitiva, nella strategia a lungo termine del gruppo, mentre le divisioni, definite per prodotto o per area geografica, possiedono tutte le funzioni aziendali e si confrontano ogni giorno con il mercato. Nel momento in cui Pirelli assunse la presidenza, l’azienda raggiungeva una posizione di eccellenza nel settore dei cavi, sia per le telecomunicazioni sia per energia, in particolare grazie al cavo a olio fluido, frutto della ricerca condotta dall’ingegnere Luigi Emanueli. Si registrava, invece, un difetto di dimensione sul mercato dei pneumatici, il che, insieme a turbolente relazioni sindacali, causò nel 1969 una perdita di 3 miliardi di lire. A parte ciò, la Pirelli – con 76.000 dipendenti, 82 stabilimenti sparsi in tutto il mondo e un fatturato di circa un miliardo di dollari – era una delle maggiori imprese italiane e, ancora, un importante attore negli oligopoli globali dei pneumatici e dei cavi.
Gli anni Settanta si presentarono particolarmente difficili. Una seria debolezza della Pirelli era costituita dalle insufficienti dimensioni del settore dei pneumatici nel quale la competizione avveniva con multinazionali come la Firestone, la Goodyear e la Michelin. Proprio da quest’ultima venne l’attacco più insidioso. Quasi coetanea della Pirelli, essendo stata fondata a Clermont Ferrand dove dal 1889 manteneva il suo quartier generale, la Michelin era anch’essa un’impresa dominata dalla famiglia di cui portava il nome – una vera dinastia. Quest’ultima compì un eccezionale sforzo di innovazione tecnologica, facendo leva sulla stretta collaborazione con la casa automobilistica Citroën della quale possedeva un consistente pacchetto di azioni ed era l’unico fornitore. Nella seconda metà degli anni Quaranta riuscì a produrre un nuovo tipo di pneumatico, il radiale, la cui struttura, sostenuta da strisce di acciaio, consentiva una maggiore aderenza alla strada e un uso di più lunga durata. Per sfruttare il nuovo prodotto, la casa francese aprì 13 nuovi stabilimenti in Europa Occidentale, negli Stati Uniti, nel Canada e in America Latina. Per finanziare questa crescita, vendette le azioni della Citroën alla FIAT che, tradizionalmente, si riforniva dalla Pirelli la cui posizione si trovò, di conseguenza, a essere insidiata dai concorrenti francesi.
Le turbolenze, però, non riguardarono soltanto il mercato. Particolarmente impegnative divennero, sul finire degli anni Sessanta, le relazioni industriali. Cambiava la composizione della classe operaia, l’azienda doveva affrontare lavoratori giovani e, nella maggior parte, immigrati provenienti dal Sud, che si battevano per obiettivi egualitari, salari più alti e nuove rappresentanze: i cosiddetti CUB (Comitati Unitari di Base) che dovevano sostituire le più ristrette Commissioni interne. Pirelli cercò di anticipare le richieste dei lavoratori presentando un pacchetto di proposte (soprannominato poi decretone) che concedeva loro, a parità di salario, 40 ore – anziché 44 – su una settimana di 5 giorni lavorativi, mentre gli impianti avrebbero lavorato 24 ore al giorno, 7 giorni su 7; inoltre prevedeva una serie di benefici come il lavoro part-time per le donne e agevolazioni per i lavoratori che avessero voluto continuare a studiare. Il progetto fu respinto sia dalle associazioni imprenditoriali, sia dai sindacati: entrambi si sentirono scavalcati e il ‘decretone’ restò lettera morta, con il risultato che il contratto firmato nel 1973 rappresentò per l’azienda, in termini reali, un raddoppio del monte salari. L’incapacità di governare le relazioni industriali faceva parte di un deteriorato quadro del Paese rispetto agli anni migliori del miracolo economico.
Un episodio cruciale fu la nazionalizzazione nel 1962 dell’energia elettrica, una misura che rientrava in un insieme di richieste avanzate dal Partito socialista italiano per abbandonare l’alleanza con i comunisti ed entrare a far parte di una coalizione di centrosinistra con la Democrazia cristiana. L’industria elettrica appariva dominata da società ad azionariato diffuso, ma in realtà era controllata dalle grandi famiglie del capitalismo italiano (inclusi i Pirelli) che potevano godere in tal modo di una rendita di posizione in grado di fornire cospicui finanziamenti. Per la sua nazionalizzazione prevalse la soluzione proposta dall’allora governatore della Banca d’Italia Guido Carli, con la quale si scelse di indennizzare le società, piuttosto che non i singoli azionisti.
Qualcosa di analogo era già avvenuto nel 1905 quando si erano nazionalizzate le ferrovie italiane: le società ferroviarie titolari degli indennizzi riversarono i capitali ottenuti nell’allora emergente settore elettrico. Carli, che poi riconobbe il suo errore, si aspettava che si sarebbe ripetuto un comportamento simile, questa volta a favore del settore chimico che appariva particolarmente dinamico. Ma, mentre nel 1905 era stato relativamente facile passare da un monopolio a un altro, negli anni Sessanta l’industria chimica era particolarmente competitiva e il tentativo di trasferimento si rivelò un disastro, bruciando un enorme ammontare di risorse finanziarie. Senza dubbio questa operazione indebolì il capitalismo privato italiano e quindi la posizione, al suo interno, della famiglia Pirelli che era fra i maggiori azionisti dell’industria elettrica. A questo punto sembrò concretizzarsi l’affermazione del banchiere Enrico Cuccia che aveva parlato di «un capitalismo senza capitali», un capitalismo «a suffragio ristretto» che risultava dominante grazie ad alleanze e a partecipazioni incrociate, ma scarsamente dotato di reali risorse finanziarie. Solo l’effettivo avvento della grande impresa ad azionariato diffuso poteva fare evolvere positivamente una situazione del genere.
In questo scenario travagliato Pirelli giocò un ruolo centrale. Importante si rivelò la sua relazione con Mediobanca, l’unica vera banca d’affari italiana, fondata nel 1945 dalle tre banche dell’IRI, Banca commerciale italiana, Credito italiano, Banco di Roma; dal 1958 erano entrate nel suo azionariato la Banca Lazard, la Berliner und Frankfurter Bank e la Pirelli, consentendo al suo amministratore delegato Cuccia di non sentirsi completamente dipendente dal potere politico. Fu questa un’alleanza estremamente importante per Pirelli – che fra l’altro siederà nel Cda dell’istituto per quasi quarant’anni – in quanto Mediobanca lo assisterà robustamente in tutte le crisi aziendali e nei tentativi di scalata ostili resi possibili dal fragile assetto proprietario visto in precedenza.
Pirelli, con il suo sodale Gianni Agnelli e lo stesso Cuccia, fu tra gli ideatori di Montedison, che nacque, nel 1966, dalla fusione fra la Edison, che in quanto maggiore azienda elettrica del Paese vantava forte liquidità, e la Montecatini, la più importante azienda chimica italiana. All’inizio degli anni Sessanta quest’ultima era certamente ricca di risorse tecniche e scientifiche, ma in critiche condizioni economiche, perché gravata da settori arretrati, eredità delle politiche degli anni Trenta. La Montedison divenne la maggiore impresa italiana, ma non ebbe fortuna poiché i suoi vertici non seppero trasformarla da confusa conglomerata in un compatto e competitivo gruppo chimico. Nel 1968, dopo un’acquisizione segreta dei suoi titoli in borsa, la holding pubblica ENI, guidata con determinazione e spregiudicatezza dal successore di Enrico Mattei, Eugenio Cefis, arrivò a vantarne il controllo.
In una riunione svoltasi a Roma nell’ottobre di quell’anno presso la sede dell’IRI, alla quale parteciparono i maggiori azionisti della società, Pirelli, unico fra i partecipanti, criticò aspramente l’azione di Cefis dando voce all’opinione del grande capitalismo privato. In effetti Cefis, che aveva acquisito una posizione di controllo grazie al danaro pubblico, tre anni dopo divenne il capo della maggiore azienda privata italiana, la Montedison, mentre Pirelli e Agnelli si dimettevano dal Cda. In una lettera indirizzata al governatore Carli al momento delle sue dimissioni dalla Banca d’Italia, Pirelli, pur fra larghi riconoscimenti, gli rimproverò di non aver ostacolato il disegno di Cefis, il quale, d’altra parte, non riuscì a risanare la grande impresa chimica e si dimise nel 1977 abbandonando del tutto la scena economica italiana.
Pirelli continuò in questi anni a svolgere un’intensa attività – nonostante il gravissimo incidente automobilistico, avvenuto presso Genova nel marzo 1973, a seguito del quale perse la vita il fratello Giovanni e Leopoldo stesso rimase ustionato – e ad assumersi molte responsabilità.
Pirelli diede il suo nome alla Commissione che realizzò un vasto cambiamento nella Confindustria, favorendo una maggiore decentralizzazione delle strutture dell’Associazione, così da rispondere meglio alle domande di una società frammentata come quella italiana. La Commissione Pirelli diede voce anche ai giovani industriali e alle piccole e medie imprese, che finalmente ebbero una rappresentanza ai vertici dell’organizzazione. Cosa ancora più importante, la Commissione riconobbe la piena legittimità del conflitto industriale e delle attività sindacali; dopo anni di dura contrapposizione fra la Confindustria e i governi di centrosinistra, veniva anche riconosciuta la validità dell’economia mista e della programmazione economica. È possibile affermare tuttavia che questo illuminato riformismo giunse tardi a placare quella radicale conflittualità nelle fabbriche degli anni Settanta che ebbe, come esito estremo, terribili episodi di terrorismo.
Nonostante questi impegni esterni – la cui importanza l’onorificenza di cavaliere del lavoro assegnatagli nel 1977 contribuiva, almeno in parte, a sottolineare – Pirelli non cessò di dedicare larga parte del suo tempo all’azienda di famiglia, memore della massima di Thomas Edison, che suo padre amava spesso ricordargli, secondo la quale l’attività dell’imprenditore è fatta per il 90% di perspiration, sudata fatica, e per il 10% di inspiration, creatività. A differenza del suo amico, presidente della Fiat, Agnelli, Pirelli era immerso nell’attività del giorno per giorno; era chiaro che avesse una strategia da realizzare gradualmente con il consenso del management, con il quale si chiudeva spesso in ritiri dedicati alla discussione degli obiettivi aziendali. Importante fu anche per lui il rapporto con gli azionisti, ai quali dal 1968 inviava due volte l’anno una lettera per informarli dell’andamento della Società, una forma di comunicazione allora rara in Italia, dove gli obblighi di legge legati all’istituzione della CONSOB si ebbero solo nel 1974 e l’obbligo della relazione semestrale nel 1987. Pirelli percepì sempre con grande chiarezza la necessità del mantenimento e dell’espansione delle dimensioni internazionali dell’impresa.
In questo senso l’episodio di internazionalizzazione più importante degli anni Settanta fu la fusione con la Dunlop, grazie alla quale emerse un colosso che – con un fatturato annuo di due miliardi di dollari, 200 fabbriche sparse in tutto il mondo e 178.000 dipendenti – si posizionava al terzo posto nel settore della gomma dopo i giganti americani Goodyear e Firestone. Ma, sebbene i due gruppi fossero complementari, la fusione non riuscì, restando la Union P-D, come essa si chiamava, la somma delle parti costituenti e non una nuova entità, diversa e superiore a esse. Ciò fu dovuto anche al fatto che la Dunlop, controllata fino ai primi anni Venti dalla famiglia Du Cros, era successivamente divenuta un’impresa manageriale ad azionariato diffuso, essendo i suoi maggiori azionisti investitori istituzionali e compagnie di assicurazione. Si è visto invece come la Pirelli fosse ancora una società a controllo familiare, il cui assetto proprietario sarebbe stato posto in discussione da una radicale ristrutturazione degli assetti organizzativi e di controllo.
Malgrado la messa in atto di strategie comuni il principale obiettivo che aveva portato alla nascita della Union, la piena integrazione nel settore pneumatici, non venne raggiunto. Non fu quindi una sorpresa che di comune accordo i due gruppi decidessero, nel 1981, di sciogliere l’intesa e di riprendere l’autonomia operativa.
La Pirelli si trovò in difficoltà dalle quali uscì grazie all’appoggio di Mediobanca e alla vendita di alcuni ‘gioielli di famiglia’, fra i quali la sede del suo quartier generale, il Pirellone, grattacielo progettato dall’architetto Gio Ponti e considerato uno dei simboli della Milano moderna. Tuttavia, la seconda metà degli anni Ottanta, che vedeva soffiare il vento del liberismo e della supremazia della finanza, apparve per la società milanese un periodo di promettente sviluppo.
Nel 1986 la Pirelli acquisì dalla Bayer la società tedesca Metzeler, specializzata nella produzione di pneumatici per moto, consolidando così la leadership in quel settore, mentre nel 1988 cercò di estendere l’attività pneumatici agli Stati Uniti con illancio di un’offerta pubblica di acquisto nei confronti del gigante americano Firestone: il prezzo offerto fu però giudicato insufficiente dal management della società statunitense che preferì l’offerta assai più remunerativa della giapponese Bridgestone. Il gruppo milanese dovette quindi ripiegare, per avere una testa di ponte sul mercato americano, sull’acquisizione di una società minore, la Armstrong, operazione i cui risultati non sarebbero però stati proporzionati alle attese.
Nel 1989 contribuì a creare un clima euforico l’operazione finanziaria realizzata sulla piazza di Amsterdam dove fu collocato il 25% della Pirelli Tire Company, holding in cui erano state concentrate tutte le attività del gruppo nel campo dei pneumatici. Il collocamento delle azioni avvenne a un prezzo dieci volte superiore ai profitti realizzati nello stesso 1989, che pure era considerato un anno eccezionale. Il successo dell’operazione convinse ancora di più i vertici aziendali e lo stesso Pirelli che l’irrobustimento dell’impresa non poteva avvenire che per acquisizioni esterne. Nel settembre del 1990 l’azienda comunicò ufficialmente la sua volontà di effettuare una fusione amichevole con la tedesca Continental, un’impresa delle sue stesse dimensioni che ne avrebbe ribadito la presenza ai massimi livelli dell’oligopolio mondiale. L’offerta fu inizialmente accolta con favore, sia dai politici sia dalla classe dirigente economica tedesca, dato anche l’appoggio della potente Deutsche Bank e della compagnia assicurativa Allianz, preventivamente informate dell’iniziativa.
Ben presto però si rivelò un errore fatale la scelta di Pirelli di conseguire il controllo della Continental attraverso due diverse vie: l’acquisizione iniziale di un sia pur cospicuo pacchetto di azioni della società tedesca, e il conferimento alla stessa, in un secondo momento, della Pirelli Tire, la holding che era stata recentemente quotata alla Borsa di Amsterdam. L’intento evidente era quello di sostituire parte dell’ingente liquidità necessaria per l’acquisizione con un segmento importante del gruppo italiano, un asset che tuttavia – almeno secondo i calcoli fatti dal management Continental – era stato fortemente sopravvalutato. Gli ambienti industriali e finanziari tedeschi ebbero così buon gioco nel dichiarare l’iniziativa della Pirelli una scalata ostile. Per la società milanese costituì una bruciante sconfitta che provocò una perdita di quasi 700 miliardi, metà dei quali necessari a rimborsare coloro che avevano coadiuvato la Pirelli nel tentativo. Nell’ottobre del 1986 Pirelli in un discorso pronunciato al Collegio degli ingegneri di Milano dichiarò che dovere di un imprenditore era offrire buoni risultati agli azionisti: se ciò non era possibile una volta, ci doveva riprovare, ma se avveniva più volte era suo dovere dimettersi. Fedele a questo principio, Pirelli lasciò la carica di presidente esecutivo della società agli inizi del 1992, restando solo presidente del Cda fino al 1996.
A suo merito di capoazienda rimaneva una reputazione di assoluta correttezza e di onestà: notevole il fatto che, unico fra i grandi capitalisti italiani, Pirelli non venne nemmeno sfiorato da Tangentopoli e anzi ebbe a dichiarare, in un’intervista a Eugenio Scalfari del 1999, che le grandi imprese, se avessero voluto, avrebbero potuto estirpare la mala pianta della corruzione.
Bisogna anche ricordare lo stile di vita ‘calvinistico’ che apparteneva alla sua famiglia; Pirelli stesso ebbe a scrivere in un breve taccuino di memorie di aver assolto al mestiere di capo di una grande azienda per senso del dovere. Numerose testimonianze di persone che gli furono vicine gli riconobbero un’inclinazione per una vita meno assorbita dagli affari. Il vero limite di Pirelli, che pure durante gli anni della sua leadership cercò in ogni modo di confermare e rafforzare ulteriormente l’antica vocazione internazionale dell’azienda, fu quello di restare attaccato alle vecchie regole di quel ‘capitalismo senza capitali’ che rappresentava un tratto distintivo del sistema economico italiano. L’impresa controllata dalla famiglia continuò a essere un’istituzione in Italia, e lo è anche oggi, tuttavia esistono vincoli tecnologici in alcuni settori, come quello della gomma, nei quali un’azienda, soprattutto se diversificata, richiede una dimensione e una complessità superiori alle possibilità di una famiglia.
Forse, come rappresentante della terza generazione, la missione di Pirelli avrebbe dovuto trasformare la società che portava il suo nome da familiare a manageriale: ma questo sarebbe stato chiedere troppo a un gentiluomo milanese profondamente legato alle tradizioni.
Nel 1947 aveva sposato Giulia Ferlito – dal matrimonio sarebbero nati Cecilia (1952) e Alberto (1954) – dalla quale si separò nel 1980. Si sarebbe poi legato a Rosellina Archinto, alla quale rimase unito sino alla fine.
Morì il 23 gennaio 2007 a Portofino.
Fonti e Bibl.: I documenti relativi alla storia dell’azienda – tra cui i bilanci di tutte le società del gruppo, i verbali d’assemblea, la raccolta Pirelli, Rivista di informazione e tecnica – sono conservati a Milano, alla Fondazione Pirelli, presso l’Archivio generale e presso l’Archivio storico pirelli, mentre i documenti privati sono in Archivio privato di Leopoldo Pirelli, anch’esso custodito nell’omonima Fondazione, il cui sito è visionabile all’indirizzo www.fondazionepirelli.org/IT_ archivio (consultato il 20 giugno 2015).
Per ricostruire la parabola imprenditoriale di Leopoldo si vedano i seguenti testi: E. Scalfari - G. Turani, Razza Padrona, storia della borghesia di stato, Milano 1974, ad. ind.; P. Ottone, Il gioco dei potenti, Milano 1984, ad. ind.; P. Anelli - G. Bonvini - P. Montenegro, Pirelli 1914-1980. Strategia aziendale e relazioni industriali nella storia di una multinazionale, I, Dalla prima guerra mondiale all’autunno caldo, Milano 1985; P. Bolchini, Pirelli 1914-1980. Strategia aziendale e relazioni industriali nella storia di una multinazionale, II, Il gruppo Pirelli - Dunlop: gli anni più lunghi, Milano 1985; M. Castaldo - M. Pittini, Evolution to a global organization. Pirelli 1970-1987, Fontainebleau 1988, ad. ind.; J. McMillan, The Dunlop story. The life, death e re-birth of a multinational, London 1989, ad. ind.; S. Cingolani, Le grandi famiglie del capitalismo italiano, Bari 1990, pp. 159-169; N. Colajanni, Il capitalismo senza capitali, Milano 1991, ad ind.; M. Borsa - L. De Biase, Capitani di sventura, Milano 1992, ad. ind.; T. Baums, Hostile takeovers in Germany. A case study on Pirelli vs. Continental A.G., Osnabrück 1993; G. Vergani, Pirelli 1872-1997, Centoventicinque anni di impresa, Milano 1997; E. Scalfari, Un’intervista con L. P., in La Repubblica, 27 ottobre 1999; A. Pirelli - G. Pirelli, Legami e conflitti. Lettere 1931-1965, a cura di E. Brambilla Pirelli, Milano 2002; G. Manca, Sul filo della memoria. 50 anni di Pirelli e dintorni, Milano 2005; N. Tranfaglia, Vita di Alberto Pirelli (1881-1971), Torino 2010, ad. ind.; S. Cofferati, I conflitti e le scelte di un industriale coraggioso, in L. P. Valori e passioni di un uomo d’impresa, Milano 2012, ad indicem.