lessicografia
Il vocabolario è uno dei pochi prodotti culturali che si siano sviluppati in autonomia in epoca moderna (cfr. Auroux 1992: 33). È vero che dizionari e glossari esistevano già in epoca classica, simili a summae erudite e disomogenee, e che possono considerarsi opere lessicografiche anche le enciclopedie medievali di Isidoro di Siviglia (VI-VII sec.) o di Rabano Mauro (VIII sec.). Ma, come ha scritto Lobodanov (1999: 255):
i glossari risalgono all’epoca della parola manoscritta, mentre i dizionari appartengono all’epoca della parola stampata […]; il glossario si scrive normalmente per un testo o per un piccolo gruppo di testi, il vocabolario invece si rivolge soprattutto all’insieme dei testi di una determinata lingua nazionale.
Il ➔ dizionario moderno risulta il frutto di aggiustamenti successivi che gli diedero forma definitiva solo nel XVI secolo, se non all’inizio del XVII. In questo senso, il dizionario potrebbe essere visto come uno dei risultati della regolamentazione delle lingue nazionali, anzi l’espressione compiuta del raggiungimento del loro equilibrio normativo. Gli antenati dei vocabolari possono tuttavia essere cercati nei lessici e nei ➔ glossari, nelle liste lessicali di vario tipo, redatte a scopo professionale, pedagogico, o al fine di commentare testi letterari.
Un più preciso antenato del dizionario moderno fu il Dictionarium latino di Ambrogio Calepino (Ambrogio da Calepio), del 1502, più volte ristampato e accresciuto, che divenne così famoso da produrre il passaggio del nome dell’autore a parola comune, nel significato di «quaderno; taccuino» (Migliorini 1927: 171). Il Calepino forniva la spiegazione dei termini latini proponendo esempi tratti dagli autori classici, però nelle voci furono introdotti via via gli equivalenti nelle lingue moderne (cfr. Marello 1989: 17).
Tra Quattrocento e Cinquecento, accanto al termine di vocabolario (si pensi al Vocabolarium breve di Gasparino Barzizza o al Vocabularium vulgare cum Latino di Nicola Valla), si diffuse quello di vocabulista: questo è il titolo di una raccolta di parole allestita da Pulci e Vocabulista ecclesiastico è il titolo della raccolta lessicale di Giovanni Bernardo Savonese (1480), con la spiegazione in volgare delle parole del latino della Bibbia. Anche ➔ Leonardo da Vinci adoperò il termine vocabolizzare per l’operazione di prender nota delle parole rare (cfr. Migliorini 19785: 302). Non tutti i più antichi vocabolari italiani portano però il nome di vocabolario o vocabolista: non di rado furono battezzati con libertà d’invenzione retorica e metaforica; abbiamo titoli quali Le tre fontane di Niccolò Liburnio (Venezia, 1526) e La Fabrica del mondo di Francesco Alunno (Venezia, 1546-1548).
La lessicografia italiana vera e propria, nettamente diversificata rispetto alle glosse e alle raccolte occasionali di parole, prese dunque l’avvio con le opere date alle stampe nella prima metà del Cinquecento, nelle quali il peso delle teorie letterarie relative alla fisionomia ideale della lingua volgare si fece subito sentire fortemente (sulla prima lessicografia italiana, cfr. Olivieri 1942 e 1943; Poggi Salani 1986). Liburnio fa riferimento a ➔ Dante, ➔ Francesco Petrarca e ➔ Giovanni Boccaccio, i tre autori che in quanto «tre fontane» dell’eloquenza erano scaturigine di buona lingua. Però Le tre fontane si configura solo parzialmente come ‘vocabolario’, perché l’impianto è per autori e per categorie grammaticali (cfr. Manni 1991: 70).
La Fabrica del mondo di Alunno, il più noto dizionario del XVI secolo, è ispirato ai principi toscanisti arcaicizzanti di ➔ Pietro Bembo. Di impianto metodico, è diviso in dieci libri, che comprendono fra l’altro Dio, il Cielo, il Mondo, gli Elementi, l’Anima, il Corpo, l’Uomo. Il titolo, anziché evocare il debito verso l’uno o l’altro scrittore del Trecento o verso le Tre Corone nel loro complesso, richiama l’idea della ‘costruzione’, dell’impianto architettonico: suggerisce dunque un ordine delle parole complessivo e universale, da cui discende la possibilità di descrivere ogni cosa e parlare di qualunque argomento possibile, secondo una tipica impostazione retorica. Il Vocabulario di cinquemila vocabuli toschi di Fabricio Luna (Napoli, 1536) è ricco di riferimenti agli autori moderni, mentre un altro celebre dizionario del Cinquecento, il Vocabolario, grammatica, et ortographia de la lingua volgare di Alberto Acarisio, pubblicato a Cento (presso Ferrara) nel 1543, è corredato di tutto quanto serviva per scrivere: sia le regole grammaticali, sia le liste di parole.
Tra i dizionari usciti fuori d’Italia nel XVI secolo, è importante quello bilingue di John Florio (Londra, 1598). La nuova edizione, Queen Anna’s New World of Words, or Dictionarie in Italian and English tongues, uscita nel 1611, un anno prima del Vocabolario degli Accademici della Crusca, comprende circa 70.000 parole tratte da circa 250 autori italiani scelti con una particolare disponibilità ad allargare il canone tradizionale (cfr. Gamberini 1970: 95). I due dizionari di Florio mostrano infatti una progettazione e realizzazione molto più libera e aperta, del tutto indipendente dai principi restrittivi che animarono l’Accademia di Firenze.
Il primo grande vocabolario europeo fu quello degli accademi- ci della Crusca (➔ accademie nella storia della lingua), pubblicato nel 1612, secondo un progetto nato da ➔ Lionardo Salviati, che però morì prima della sua realizzazione. Dopo di lui, non c’era nell’Accademia una figura di spicco che potesse raccoglierne l’eredità. Nessuno degli accademici aveva una matura competenza lessicografica o linguistica (cfr. Parodi 1974: 44). La squadra dei lessicografi fiorentini andò dunque formandosi da sé e mantenne notevole collegialità nelle scelte.
Il Vocabolario degli Accademici della Crusca non uscì a Firenze, dove era stato redatto, ma a Venezia, presso la tipografia di Giovanni Alberti. Ci restano le istruzioni che accompagnarono il segretario dell’Accademia incaricato di controllare il procedere della stampa. Sul frontespizio fu posta l’immagine del frullone o buratto, lo strumento che si usava per separare la farina dalla crusca (emblema dell’Accademia) con il motto «Il più bel fior ne coglie», allusivo alla selezione compiuta nel lessico, per analogia alla separazione della farina (il ‘fiore’) dalla crusca (lo scarto). Lo strumento, passato poi a simboleggiare in maniera negativa lo spirito censorio e puristico della Crusca, era allora una macchina all’avanguardia (cfr. Sabatini et al. 2005: 21).
La Crusca muoveva da un aperto dissenso nei confronti di coloro che l’avevano preceduta. In conformità con i programmi di ➔ Benedetto Varchi e di Salviati, aveva l’ambizione di riportare a Firenze la sede delle ricerche lessicografiche. In effetti il tentativo ebbe successo: gli accademici fornirono il tesoro della lingua del Trecento, esteso al di là dei confini segnati dall’opera delle Tre Corone (che pure ne erano la base), e lo integrarono con l’uso moderno, anche se le parole del fiorentino vivo erano documentate di preferenza attraverso gli autori antichi. Fu dato l’avvio alla pratica, discutibile, di citare i cosiddetti testi a penna, cioè manoscritti fiorentini inediti in possesso degli stessi accademici; si largheggiò nel presentare termini e forme dialettali fiorentine e toscane; si inserirono molti proverbi e modi di dire. Per quanto riguarda la scelta della grafia, il Vocabolario si distaccò dalle convenzioni ispirate al latino.
Questione importante è la presenza degli autori moderni nella prima Crusca: prevalse il canone di Salviati, arcaicizzante, e fu escluso ➔ Torquato Tasso. Tuttavia la Crusca, con tutti i difetti, fu il primo grande vocabolario europeo. Anche in Italia, nonostante il dissenso che si manifestò subito (con Paolo Beni, Alessandro Tassoni, Daniello Bartoli; ➔ età barocca, lingua dell’), il Vocabolario assunse un prestigio speciale. La sua fortuna è confermata da altre due edizioni nel XVII secolo: la seconda, del 1623, fu analoga alla prima, pur con molte giunte e correzioni; la terza, stampata nel 1691 a Firenze (non più a Venezia, come le due precedenti), si presenta invece diversa nella qualità e nell’aspetto esterno, in tre tomi al posto di uno (cfr. Vitale 1986: 273-333).
L’ultima edizione della Crusca completa, la quarta, uscì dal 1729 al 1738. Nel Settecento si ebbero ristampe non ufficiali e compendi del Vocabolario fiorentino. Le città interessate da questo fiorire di opere lessicografiche, a parte Firenze, furono Venezia e Napoli. Nonostante la fortuna dei compendi e delle edizioni non ufficiali, il Settecento fu il secolo il cui l’Accademia raggiunse l’apice della crisi, fino a quando fu soppressa, riducendosi a una classe dell’Accademia fiorentina (➔ Settecento, lingua del). Le diede tuttavia nuova vita Napoleone, nel 1811, restituendole l’autonomia e il compito di curare la revisione del Dizionario della lingua italiana (si noti la dicitura usata allora nel decreto napoleonico: Dizionario, alla francese, non Vocabolario, secondo la secolare tradizione dell’Accademia). Appena riaperta, la Crusca si diede da fare per progettare la quinta edizione del vocabolario (cfr. Zannoni 1848: 109-113), la quale però cominciò a essere pubblicata solo nel 1863. Doveva essere monumentale più delle precedenti, ma non si concluse: protrattasi stancamente, fu interrotta nel 1923 alla voce Ozono.
L’attività lessicografica italiana, comunque, nel XVIII secolo non fu solo quella della Crusca, e anzi mostrò nuova vitalità. Persino i lessicografi del latino si dedicarono occasionalmente alla lingua moderna: Jacopo Facciolati, collaboratore del Forcellini nel rifacimento padovano del Calepino del 1718, da cui poi si sviluppò il Lexicon totius latinitatis del Forcellini nel 1771, fu autore di un’Ortografia moderna italiana, testo scolastico per il Seminario di Padova, più volte ristampata. La data della prima edizione è ora fissata al 1721 (Serianni 1981: 24; Masini 2010: 253-266). Un dizionario pratico e maneggevole adatto all’impiego scolastico, la Prosodia italiana, era stato realizzato alla fine del Seicento dal gesuita palermitano Placido Spadafora, prima di tutto allo scopo di indicare gli accenti delle parole ai fini di una retta pronuncia.
Nel Settecento, in diretta relazione con l’autorità della Crusca, la censura colpì il Vocabolario cateriniano del senese Girolamo Gigli. Gigli preparava nel 1717 un dizionario del lessico di santa Caterina da Siena, con voci che sbeffeggiavano con gustose spiritosaggini la Crusca e Firenze (cfr. Trifone 2007: 69-72): vi si parlava scherzosamente dei cavalli fiorentini che non intendono corrìre alla senese; delle guardie pronte a schiacciare uova senesi per impedire la nascita di pulcini di cattiva lingua; della macchina costruita da Galileo dopo il cannocchiale per filtrare la ➔ gorgia toscana; della macchina da infilare nella gola dei bambini abbandonati per insegnare loro a parlare con la gorgia.
La polemica, inizialmente limitata, proruppe senza freno nella voce Pronuncia, quasi piccolo saggio autonomo di letteratura satirica. Diffusasi la notizia di queste trovate, il duca di Toscana Cosimo III intervenne. Le pagine già pronte del Vocabolario cateriniano in corso di stampa, sequestrate in tipografia, furono bruciate al suono della campana del Bargello. Gigli si ridusse in miseria e fu costretto a pubblica ritrattazione. L’opera fu successivamente edita nel 1720 a Lucca, con la falsa indicazione di «Manilla nell’Isole Filippine», ma in versione edulcorata, con tanto di ritrattazione dell’autore.
Un altro caso di censura riguarda Francesco Alberti di Villanova, lessicografo di successo che ben rappresenta l’evoluzione del vocabolario italiano nell’età dei lumi (cfr. Mura Porcu 1990). Aveva esordito con il Dizionario del cittadino o sia ristretto istorico, teorico e pratico del commerzio (Nizza, 1763), rimaneggiamento di un’opera francese; si era imposto con il fortunatissimo Dizionario francese-italiano e italiano-francese (1771-1772), per il quale aveva raccolto abbondante lessico tecnico-pratico. Zolli (1981: 589) ha scritto che Alberti «rappresentò un’autentica rivoluzione nella tradizione lessicografica, legata ancora agli schemi della Crusca». Sessa (1984: 205) gli ha riconosciuto la capacità di raccogliere «le istanze più moderne della tradizione secentesca e [...] l’attualità culturale settecentesca», tanto che egli «lascerà in eredità al nuovo secolo un metodo di far dizionari aperto a confronti europei e rispondente agli stimoli dell’enciclopedismo». Serianni (1984: 115) ha visto in lui il primo «vero stacco colla tradizione cruscante». Il Dizionario universale critico, enciclopedico della lingua italiana di Alberti, la sua opera più impegnativa, uscì, in parte postuma, tra il 1797 e il 1805 in 6 volumi a Lucca, a spese dell’autore. Venne poi un’edizione tutta postuma (prima milanese, 1825), con dedica a Vincenzo Monti firmata da Francesco Antolini. Il luogo della prima stampa, Lucca, è significativo, perché quella «lucchese era l’editoria ‘enciclopedica’ per eccellenza: tra il 1758 e il 1871 Ottaviano Diodati, per primo in Italia, aveva pubblicato [...] l’Encyclopédie in 17 volumi, ai quali se ne aggiunsero dal 1765 al 1776 altri 11 di incisioni» (Sessa 1984: 222 in nota). Grazie a tre lettere pubblicate da Cartago (2005: 93-99), sappiamo che Alberti aveva tentato senza successo di realizzare il proprio vocabolario a Firenze, incontrando molte resistenze, tanto che, amareggiato, si era proposto si realizzare da sé un vocabolario che superasse tutte le Crusche, presenti e future. Ciò dà la misura della sua irritazione e delle sue ambizioni. Infatti il suo dizionario segnò davvero in maniera indelebile il rinnovamento della lessicografia italiana.
Il vantaggio di questo dizionario sulle varie edizioni della Crusca può essere constatato attraverso l’esame delle abbondanti aggiunte di lemmi, passate poi in larga parte ai vocabolari del primo Ottocento, anche se spesso, nel clima di purismo trionfante, egli fu accusato di aver introdotto troppi francesismi e di essere stato troppo innovatore.
Alla fine della prefazione al Dizionario critico enciclopedico, Alberti promise inoltre una novità ambiziosa, prosecuzione dei tentativi già cinquecenteschi di ordinare le parole in forma di «specchio del mondo», alla maniera dell’Alunno: ideò un «Albero Sistematico» diviso in tre branche principali, Dio, Uomo, Mondo, e promise un indice lessicale riordinato secondo questi criteri, contenente i rinvii alle pagine con i lemmi specifici di riferimento. Morì però durante la stampa, e il progetto non fu portato a termine.
Alberti dimostra una speciale attenzione alla terminologia tecnica in generale e alla terminologia della marineria (➔ marineria, lingua della) e del commercio in particolare, dà spazio al lessico che si potrebbe definire propriamente «scientifico» (Morgana 1983: 41-42 ha dimostrato che incluse i termini che provenivano da un testo di notevole importanza, il Saggio alfabetico d’istoria medica e naturale di Antonio Vallisnieri), colmando una storica lacuna dei vocabolari italiani. Nel quadro del rinnovamento settecentesco della lessicografia italiana, un altro lessicografo del XVIII secolo, il veneziano Gian Pietro Bergantini, rappresenta le ambizioni ancora irrisolte di una tradizione lessicografica alla ricerca del rinnovamento, ma in difficoltà nel portare alla stampa i progetti. A Bergantini si deve il primo e unico volume di una grande opera che si arrestò alle sezioni alfabetiche A-B. La parte più corposa rimase inedita, benché integralmente compiuta: Vitale (1978: 479), Sessa (1984: 205) e Morgana (2003: 117-18; 2006: 55) ricordano il suo ampio Dizionario dell’eloquenza italiana in 10 volumi più uno di supplemento, finito di preparare nel 1757, e il Dizionario universale italiano in 6 volumi di circa 700 pagine ciascuno, più uno di aggiunte, di cui tentò la pubblicazione nel 1753 e nel 1758.
Un’importante ‘rivisitazione’ settentrionale della Crusca fu realizzata nel 1800-1811 dal veronese padre Antonio Cesari, la figura più rappresentativa del ➔ purismo italiano. Cesari non voleva innovare rispetto alle tendenze arcaicizzanti, anzi rimproverava l’Accademia di non aver fatto abbastanza e aspirava a far di Verona l’erede di Firenze, e di sé stesso il salvatore della lingua. Fin dal 1813 ➔ Vincenzo Monti, maestro nell’arte del sarcasmo, dimostrò di non sopportare il «grammuffastronzolo di Verona», pittoresco epiteto ricavato dalle giunte stesse di Cesari alla Crusca. Dalle colonne del «Poligrafo» di Milano, gli rinfacciò di aver dato una versione del vocabolario della Crusca apparentemente più ampia, in realtà peggiorata. Nel 1816 la Crusca, interpellata sulla possibilità di unirsi a Milano per realizzare un dizionario comune, rifiutò di collaborare (cfr. Vitale 1978: 389; Sessa 1991: 170). La richiesta e la risposta sono pubblicate in Zannoni (1848: 113-117).
Ebbero così origine le polemiche che compongono la Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, volumi diretti e organizzati e promossi da Monti tra il 1817 e il 1824, con un’appendice del 1826, uno dei capitoli più interessanti nella storia della lessicografia italiana, che rappresenta il superamento definitivo del monopolio lessicografico dell’antica accademia di Firenze, perché la critica antipurista di Monti, avviata contro Cesari, si estese a colpire il vocabolario fiorentino (non solo la versione veronese). Gran parte della Proposta è costituita dalla ricerca di errori compiuti dai vocabolaristi fiorentini. La Proposta, pur dominata dalla figura di Monti, si presentava come un’opera d’équipe in cui entravano contributi diversi, alcuni propriamente storico-linguistici (i saggi di Giulio Perticari), altri di vera e propria teoria lessicografica, come il Parallelo del vocabolario della Crusca con quello della lingua inglese compilato da Samuele Johnson e quello dell’Accademia spagnuola di Giuseppe Grassi, autore del Dizionario militare italiano (1ª ed. Torino, 1817) e del Saggio intorno ai sinonimi della lingua italiana (Torino, 1821).
L’arricchimento dei dizionari della prima metà dell’Ottocento è innegabile, ma l’impianto lessicografico restava ancorato alla tradizione (➔ Ottocento, lingua dell’).
Ciò vale per il Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi (Firenze, 1833-1842), per i sei volumi del cosiddetto «Dizionario di Bologna», curato da Francesco Cardinali, Francesco Orioli e Paolo Costa (1829), per i sette volumi del cosiddetto «Dizionario della Minerva», dal nome della tipografia che lo stampò, a cura di Luigi Carrer e Fortunato Federici, usciti a Padova tra il 1827 e il 1830.
La lessicografia italiana, sovrabbondante al punto che si parlò allora di ‘lessicomania’ (cfr. Marazzini 2009: 287), mostrava tuttavia una certa incapacità nel rompere con il passato. La Crusca restava il termine di riferimento, anche se a volte polemico. Il milanese Giovanni Gherardini fra il 1838 e il 1840 diede alle stampe due volumi di Voci e maniere di dire italiane additate a’ futuri vocabolaristi, ricchi di osservazioni critiche verso la Crusca e di riferimenti ad altri lessici. Il primo volume, di mille pagine, era dedicato alla sezione alfabetica A, il secondo, un po’ più piccolo, alle sezioni alfabetiche B-Z. Tra il 1829 e il 1840 la società napoletana Tramater diede alle stampe un Vocabolario universale italiano, la cui base era ancora la Crusca, ma rivista in maniera considerevole, pur con il consueto metodo delle aggiunte. L’opera aveva un taglio tendenzialmente enciclopedico e dedicava molta attenzione alle voci tecniche, di scienze, lettere, arti e mestieri, nel solco di Francesco Alberti. Il cosiddetto «Tramater» introdusse nel volume VII (1840) la distinzione tra le sezioni alfabetiche U e V, rompendo una tradizione antica e di Crusca, che si era conservata ancora nel «Dizionario della Minerva», nel «Dizionario di Bologna», nel Manuzzi. Non si trattava in assoluto di una novità, perché la distinzione era stata adottata già dall’edizione milanese di Alberti del 1825 e da Gherardini; la stessa soluzione grafica era già nell’Ortografia enciclopedica di Antonio Bazzarini (Venezia, 1824-1836), preceduto dal Dizionario dei sinonimi di ➔ Niccolò Tommaseo del 1830, secondo la preferenza manifestata fin dal Settecento dal Dictionnaire de l’Académie française, che certo servì da modello.
Il vocabolario della società Tramater riuscì il migliore disponibile, fino a quando non fu superato dal Tommaseo-Bellini, che oscurò tutti i concorrenti. Con il Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini (1865-1879) il salto di qualità della lessicografia è sostanziale, anche perché quest’opera (pur prendendo le mosse dal «Tramater» e dal Manuzzi) non segue meccanicamente la traccia delle altre precedenti, ma si caratterizza per l’originalità, legata alla singolare figura dell’autore principale. La presentazione, firmata da Luigi Pomba, successore di Giuseppe Pomba, è datata «Torino, 15 giugno 1861», all’insegna dei tempi nuovi, sotto l’auspicio dell’unità politica appena raggiunta.
La lingua viva entrò nei dizionari su ispirazione delle idee manzoniane, ma ➔ Alessandro Manzoni non vide il compimento del vocabolario che aveva proposto egli stesso nella Relazione del 1868. Alla sua morte, nel 1873, si era appena avviata la pubblicazione del Nòvo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, il cosiddetto «Giorgini-Broglio», dal nome dei due manzoniani che si accollarono il lavoro. Il vocabolario, la cui realizzazione si trascinò dal 1870 al 1897, diede lo spunto alla celebre requisitoria di ➔ Graziadio Isaia Ascoli contro la soluzione fiorentina alla ➔ questione della lingua. Al Giorgini-Broglio va riconosciuta una reale capacità di rinnovamento, in quanto fu un esperimento pionieristico di lessicografia a deciso orientamento sincronico, in una tradizione come quella italiana in cui l’orientamento diacronico tendeva in genere ad essere prevalente. Ebbe però scarso successo e non raggiunse mai un largo pubblico, anche per la concorrenza di altre iniziative lessicografiche che si collocavano in una posizione non troppo diversa, come il Vocabolario della lingua parlata di Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani, del 1875, e il Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana del pistoiese Policarpo Petrocchi (sul quale cfr. Manni 2001). Petrocchi realizzò una sorta di compromesso, perché divise la pagina in due fasce sovrapposte, relegando nella fascia bassa il lessico «arcaico» che secondo l’impostazione manzoniana avrebbe dovuto essere eliminato. Il Giorgini-Broglio «scomparve quasi del tutto dalla circolazione e rimase confinato in uno stato di semiclandestinità» (Ghinassi 1979: 18-19).
Un altro settore della lessicografia che ebbe sviluppo notevole nel XIX secolo fu quello dei vocabolari specialistici, come il citato Dizionario militare di Giuseppe Grassi, il Dizionario della economia politica e del commercio (1857-1861) di Gerolamo Boccardo, il Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo (1881) di Giulio Rezasco, il Vocabolario marino e militare (1889) di Alberto Guglielmotti, libro celebre anche perché utilizzato da ➔ Gabriele D’Annunzio (cfr. Praz 19664: 439-449). Spesso il lessico amministrativo era sottoposto agli strali dei puristi nei dizionari di ➔ barbarismi e parole da evitare, a partire dalla raccolta del Bernardoni, del 1812, e fino al Lessico della corrotta italianità di Fanfani e Arlìa (1877) e oltre (➔ burocratese).
La lingua italiana dimostrava di essere debole o poco utilizzabile nei settori tecnico-pratico e familiare. Si ebbero infatti vari lessici di arti, mestieri e voci ‘domestiche’ (assai noto quello di Giacinto Carena, del 1846). Anche i dizionari di sinonimi, come quello, già citato, di Tommaseo, ebbero lo scopo di rendere più domestica, familiare e al tempo stesso precisa la lingua comune. All’Ottocento risalgono inoltre alcuni dei più autorevoli e tutt’oggi utilizzabili dizionari dei dialetti italiani, come quello veneziano di Boerio, quello milanese di Cherubini e quello piemontese di Sant’Albino. Capitolo a parte è quello del rapporto tra gli scrittori e il vocabolario, che è illuminato dagli esempi di Manzoni e Monti postillatori della Crusca, o di Faldella raccoglitore di un vocabolario personale ricco di voci toscane, secondo una pratica attestata ancora nel giovane Cesare Pavese (cfr. Marazzini 2009: 371-383).
Il ventennio fascista (➔ fascismo, lingua del), dal punto di vista lessicografico, si inaugurò con la soppressione dell’antico vocabolario dell’accademia di Firenze, ma il nuovo vocabolario voluto da Mussolini, diretto da Giulio Bertoni, prodotto dall’Accademia d’Italia, non ebbe esito felice. Il primo volume del 1941, con le lettere A-C, fu anche l’ultimo.
La casa editrice UTET di Torino, erede dell’Unione Tipografico Editrice dei Pomba (gli editori del Tommaseo), nel 1961 avviò la stampa di un’altra poderosa opera lessicografica, il Grande dizionario della lingua italiana, giunta alla Z nel 2002 con il 21° volume. La lessicografia italiana del Novecento è stata particolarmente vitale a Firenze, Roma e Torino. A Firenze, con alle spalle la tradizione della Crusca, si progettò il vocabolario storico dell’italiano, mai giunto in porto, di cui però la prima fase è l’attuale realizzazione del TLIO elettronico, documentazione di tutte le varietà dell’italiano antico, che copre l’arco cronologico fino al 1375 circa.
I due maggiori dizionari dell’uso di cui si disponga oggi per l’italiano, il GRADIT di Tullio De Mauro e il VIT di Aldo Duro, sono l’uno torinese (ancora della UTET) e l’altro romano (dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani). Anche molti tra i ‘piccoli’ vocabolari dell’uso sono strumenti eccellenti e testimoniano l’evoluzione e la vitalità dell’italiano. Tra essi, lo Zingarelli detiene una leadership non facile da contrastare nel mondo della scuola. La prima edizione in volume (dopo una a fascicoli) risale al 1922, presso la casa editrice lombarda Bietti e Reggiani. Dal 1941 il vocabolario passò alla Zanichelli di Bologna. Un sostanziale rinnovamento si ebbe nel 1980 con la X edizione. Il nome Zingarelli è comunque rimasto nell’opera, pur profondamente modificata, perché spesso i vocabolari si legano stabilmente al nome dei primi autori, come il Devoto-Oli, o il Palazzi-Folena, per citare solo i casi più noti.
Per un esame analitico della produzione lessicografica attuale (➔ dizionario), si può ricorrere a Pfister (1992), a Serianni (1992; 1994), oltre che alle indicazioni bibliografiche di Muljačić (1971: 208-215; 1991: 161-176), il quale ha anche fornito un quadro teorico assai dettagliato di tutte le possibili categorie lessicografiche. La storia complessiva dei vocabolari italiani, invece, è stata tracciata da Pfister (1990), Della Valle (1993; 2005) e infine da Marazzini (2009).
L’informatica è di valido aiuto alla lessicografia attuale, sia nella fase di elaborazione sia nella realizzazione del prodotto destinato all’utente, il quale può trarre beneficio nella sostituzione di un pesante volume cartaceo (o di una serie di volumi) con un disco leggero e facile da trasportare e consultare su PC, il cui difetto sta soprattutto nel rischio della prevedibile obsolescenza tecnologica, per le eventuali quanto probabili modificazioni dei sistemi operativi dei computer. Anche i dizionari del passato possono essere rivitalizzati da edizioni elettroniche, come è accaduto al Dizionario di Tommaseo, ora in CD-ROM edito da Zanichelli, e alle versioni delle cinque Crusche, che si consultano liberamente on-line nel sito dell’Accademia.
Auroux, Sylvain (dir.) (1992), Introduction. Le processus de grammaticalisation et ses enjeux, in Histoire des idées linguistiques, Liège, Mardaga, 3 voll., vol. 2º (Le développement de la grammaire occidentale), pp. 11-64.
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