APOCALITTICA, Letteratura
Termine derivato dal greco (ἀποκαλύπτειν "svelare cose recondite, segrete") col quale si designa una vasta letteratura giudaica, e in minor quantità cristiana, il cui contenuto è formato per la massima parte da asserite rivelazioni, che la divinità o altri esseri pretermondani avrebbero fatte a personaggi per lo più tradizionalmente celebri, e che ha quasi sempre relazione con credenze messianiche o escatologiche.
Origine e sviluppo. - L'Apocalittica, come tipo ben definito di letteratura, comincia col sec. II a. C. presso i giudei, per prolungarsi, dopo essersi diffusa anche presso i cristiani, fino a qualche secolo d. C. Tuttavia non è da credere che essa fosse letterariamente e concettualmente una creazione ex novo, giacché buona parte dei suoi elementi già esistevano, più o meno sviluppati, nella precedente letteratura profetica legale e sapienziale; da questa essa li prescelse, come oggetto di predilezione, ampliandoli ed intrecciandoli con altri elementi estranei, fino a crearne un tipo letterario a parte, provocato dalle nuove circostanze storiche.
Di qui anche la sua importanza. La letteratura apocalittica giudaica supplisce in gran parte alla tanto sentita mancanza di documenti presso quel popolo nei due secoli immediatamente precedenti all'èra cristiana, mentre attraverso ad essa possiamo con sufficiente ampiezza ricostruire quel mondo dottrinale, con le sue credenze, le sue aspettative e il suo travaglio spirituale, in mezzo al quale spuntò e si diffuse il cristianesimo. In minor proporzione, anche l'Apocalittica cristiana integra le nostre cognizioni circa gl'insegnamenti dei capi delle comunità nei primi tempi dell'èra nuova, e circa le diffuse ed importanti credenze popolari nei secoli posteriori.
Nel sec. V a. C. l'attività profetica, e la sua conseguente letteratura, sono in totale declino presso i giudei. Ancora sorgono, è vero, in mezzo al popolo dei profeti che dispiegano una decisiva efficacia politica e religiosa, e noi abbiamo ancora buona parte dei loro scritti (v. bibbia, alcuni fra i profeti minori); tuttavia si sente a prima lettura che il loro stilo non sa più vergare le antiche pagine fresche e potenti, quali di un Osea, di un Amos o di un Isaia, bensì riprende e varia temi già noti, oppure scende nell'artificio, oltre a cedere sempre più campo al tipo della "visione". Dopo questi ultimi baleni, viene l'oscurità: cessa la letteratura profetica, perché cessa il suo stesso autore. La missione profetica non ha più rappresentanti. La mancanza di questi grandi animatori di masse, propugnatori dello schietto antico jahvismo contro le infiltrazioni allogene e sincretistiche, fu sentita profondamente da coloro che rimanevano fedeli alle antiche idee, e nei momenti di maggiore perturbamento sociale cercavano inutilmente dattorno a sé per vedere chi le rappresentasse come l'antica potenza. Durante uno di questi periodi critici, infatti, un pio poeta esclama: "Le nostre insegne noi non vediamo; non c'è più profeta, né c'è tra noi chi sappia fino a quando (ciò perduri)". (Salmo, LXXIV [Vulg., LXXIII], 9; cfr. anche I Maccab., IV, 46; IX, 27; XIV, 41).
Ai profeti, in realtà, erano succeduti gli scribi; ma l'opera di costoro non poteva sostituire adeguatamente quella dei primi. Il profeta aveva creato ex-novo: lo scriba ordinava e riduceva a sistema il materiale accumulato dall'altro. Il profeta, sotto l'azione dello Spirito, era una "fonte di acque vive" (Geremia, II, 13): lo scriba incanalava quelle acque, facendole sboccare nello stagno della casuistica. E, ciò ch'è ben più grave, le circostanze storiche, profondamente mutate, facevano sentire sempre più dolorosamente la mancanza dei primi e l'insufficienza dei secondi. Le condizioni della nazione si facevano infatti sempre più critiche: dopo il crollo di Gerusalemme (586 a. C.) e l'esilio babilonese, avvenuti secondo i profeti quale punizione della condotta del popolo, i rimpatriati si eran dati premura di ricostruire su basi puramente jahvistiche una nuova nazione; questa, ammaestrata dalle dolorose esperienze del passato, si sarebbe mantenuta fedele a quel Dio Jahvè, che nel passato le aveva continuamente promesso, per bocca appunto dei profeti, non solo ogni gloria e prosperità terrena qual premio della sua fedeltà, ma specialmente il trionfo di quel Messia che sarebbe uscito dal popolo giudaico per trionfare su tutte le nazioni della terra. Tuttavia, nulla di ciò ancora avveniva: la Palestina era passata dall'alto e remoto dominio dei Persiani a quello più vicino dei Tolomei, poi a quello dei Seleucidi fattosi sempre più pesante fino a divenire insopportabile sotto Antioco Epifane; infine era venuta la ferrea potenza di Roma. Di sotto, poi, a questa successiva oppressione non si scorgeva alcun vago preannunzio del Messia liberatore. Ma v'era anche qualcosa di peggio: col passar degli anni la compattezza etnografica e religiosa della nazione si dissolveva sempre più sotto l'azione dell'ellenismo, che, dopo aver premuto con limitata efficacia per alcune decine d'anni, era riuscito - verso i tempi dello stesso Antioco - a sfondare gli argini della nazione e ad inondarla. In tali circostanze come spiegare i disegni della Provvidenza? Come spiegare la dilazione del mantenimento delle sue promesse riguardo alla nazione?
Insieme con questa sorgeva un'altra angosciosa domanda, ad essa affine e in qualche modo collegata. Non solo l'intera nazione soffriva, in modo apparentemente inspiegabile, ma anche i suoi membri, specialmente i più pii, erano quasi sempre dei giusti tribolati. Di qui il terribile problema dell'origine e giustificazione teologico-morale del dolore nell'individuo giusto. Anche questo problema, che del resto è così spontaneamente umano, aveva avuto nella precedente letteratura giudaica trattazioni o fugaci (Geremia, varî Salmi, ecc.) o fondamentali (Giobbe); ma esso fu ripreso ai tempi della fioritura apocalittica con nuova passione, e discusso sotto nuova luce: si cercò cioè di spiegare, nel bel mezzo delle circostanze storiche sempre più sfiducianti, di rispondere alla domanda angosciosa: ma che vantaggio c'è ad essere giusti, se il giusto soffre come e più degli altri?
La risposta data a questa doppia domanda, sociale e individuale, mentre da una parte confermò le antiche promesse messianiche, ribadendole anzi con molti nuovi artificiosi argomenti: dall'altra, riguardo cioè alla delimitazione del tempo messianico e di quello escatologico, andò a ritroso dalle febbrili attese fino allora alimentate, e proiettò questo doppio avvenimento in un imprecisato futuro.
Caratteristiche dell'Apocalittica giudaica. - Le più sottili, e forse più importanti, fra esse si riscontrano confrontando questi scritti apocalittici con quelli profetici, da cui dipendono. I profeti, in primo luogo, avevano spesso parlato condizionatamente, e in modo particolare avevano annunciato le grandi promesse di Dio al popolo d'Israele in dipendenza dell'atteggiamento futuro di costui. L'Apocalittica al contrario non conosce tali condizioni; ciò che fu profetato, deve avverarsi infallibilmente; essa tratta gli avvenimenti umani quasi fossero avulsi dal mondo attuale, o fossero semplicemente oggetto di assoluti decreti divini. Inoltre i profeti avevano discusso soprattutto la vita d'Israele che si svolgeva sotto i loro occhi, e per lo più non oltrepassando i singoli episodî; molto più raramente, nei passi di maggior levatura, essi spingono lo sguardo in un lontano avvenire del loro popolo, considerato ad ogni modo come in relazione col momento presente (basterebbe ciò a mostrare che i profeti erano uomini che avevano fiducia nella storia, e che miravano a dominarla). L'Apocalittica invece si allontana in un doppio senso dal presente: primo, perché si spinge avanti in un remoto futuro, e anche quando tratta del presente vuol quasi dissimularlo sotto simboli; in secondo luogo perché si ritira in un remoto passato, attribuendo immancabilmente le sue produzioni a personaggi antichissimi (basterebbe ciò a mostrare che gli scrittori apocalittici avevano sfiducia nei loro tempi, e non riuscivano a dominarli). Un altro punto, dottrinalmente assai più importante, è la questione dell'oltretomba. I profeti nei loro insegnamenti erano stati gli araldi del futuro regno messianico: avevano lumeggiato quell'avvenire radioso in cui Israele sarebbe stato "lume alle genti", ed avevano esortato il popolo a prepararsi e rendersi degno di quell'èra felice in cui esso sarebbe stato guida delle nazioni, le quali avrebbero abbandonato i loro culti idolatrici per unirsi ad esso. Più in là il loro sguardo non si era spinto. L'oltretomba non entrava direttamente nella loro missione, ed essi ne avevano fatto semplicemente astrazione: e se il nome e la descrizione degli Inferi ebraici (šĕ'ōl) entra nei loro scritti (ad es. in Isaia, XIV, 9 segg.), non è per esser discusso e tanto meno riprovato, bensì perché tolto di peso dalla tradizione viva del popolo. L'Apocalittica, invece, non solo accetta e conferma le prospettive messianiche dei profeti, ma è anche spinta dalle mutate circostanze dei tempi a varcare il limite impostosi da quelli: essa discute, propugna, e descrive l'al di là, ed assegna all'oltretomba un valore morale di punizione o di premio rispetto all'al di qua. Ma anche su questo punto l'Apocalittica non creò ex novo: essa sviluppò in proporzioni straordinarie i relativi germi, che sono non solo di fondo semplicemente umano, ma esplicitamente attestati come già preesistenti anche in Israele, quantunque in maniera sporadica (Giobbe, XIX, 23-27).
Gli scritti apocalittici giudaici si presentano letterariamente o sotto la forma profetica, quasi cioè preannunciassero il futuro (dal punto di vista del personaggio a cui sono attribuite, mentre in realtà raccontano ciò che è passato dal punto di vista del vero autore): oppure dànno una massima ampiezza a descrizioni, specialmente del mondo invisibile; naturalmente, queste due forme spesso si intrecciano insieme. Altri artifici letterarî ampiamente usati, e di cui, come si è visto, si trovano esempî anche nella precedente letteratura profetica, sono la "visione" specialmente avvenuta durante il sogno: inoltre il "simbolo", che investe sia una cosa inanimata (candelabro, corno, libro, ecc.), sia un essere animato (toro, agnello, occhio veggente, ecc.), sia anche un fatto a cui è attribuito un senso allegorico. Questi simboli sono impiegati soprattutto a predire il futuro, ossia - come si è osservato - a narrare in realtà il passato. Uno speciale artificio simbolico, anche nell'Apocalittica cristiana, è quello di designare un dato personaggio con un numero: questo numero non è arbitrario, bensì ottenuto dalla somma delle lettere che compongono il nome del personaggio alle quali sia attribuito il corrispondente valore numerico che ordinariamente avevano (legge della Gematria ebraica). Così si ha il numero 888, per indicare 'Ιησοῦς in Orac. Sibill., I, 326-330; il numero 1660, per indicare Μονογενής, ib., I, 144-145; secondo molti interpreti il numero 666 di Apocal. Giov., XIII, 18, indica Nerone, ebraico, mentre altri lo computano diversamente. Altri esempî sono più oscuri.
Un'immancabile caratteristica dell'Apocalittica giudaica è l'attribuzione della rivelazione a celebri personaggi dell'antichità, quali Adamo, Enoch, Mosé, altri patriarchi, Isaia, ecc. Questi autorevoli nomi non erano soltanto una commendatizia per i relativi scritti, in mezzo alla sfiducia del presente; ma probabilmente corrispondevano anche a un'interna convinzione del vero autore, il quale, data la mancanza del ministero profetico, si era persuaso di sostituirlo almeno in parte col rintracciare altre opportune verità, meditando sugli antichi scritti e interpretando il loro latente spirito.
Un'altra nota distintiva è il grande risalto che l'Apocalittica dà all'angelologia, compresa la demonologia. Anche qui, tuttavia, si tratta di uno sviluppo enorme, più che di una creazione ex novo: giacché nei precedenti scritti, e non solo profetici ma anche legali e sapienziali, troviamo più di un accenno, ed in avvenimenti di molta importanza, a credenze in esseri spirituali, buoni o cattivi, che vengono in relazione anche con uomini (così in Genesi, Isaia, Giobbe, ecc.; v. angelo). Tuttavia nell'Apocalittica si scende molto più al particolare: si enumerano le mansioni di questi spiriti nel cielo e fra gli uomini, le loro gesta passate, se ne conoscono i nomi, fra i quali insieme con alcuni più antichi (Michele, Gabriele, Raffaele) ne appaiono altri affatto nuovi (Uriele, Raguele, Saraqiele, Remiele; formati cioè da una seconda parte che è il nome di Dio, 'el, e da una prima che si riferisce a un attributo divino).
Altre caratteristiche che, pur non essendo immancabili, sono largamente attestate nell'Apocalittica giudaica, o vi si indovinano di sovente come sottogiacenti al pensiero espresso, sono la concezione fatalistica della storia dell'umanità, e il dualismo storico-cosmico. La concezione fatalistica fu provocata dal mancato adempimento di quelle profezie, che, come si è detto, erano condizionate e non assolute; ma poiché ai tempi dell'Apocalittica ogni detto degli antichi profeti era interpretato come di forza assoluta, così, per salvare ad un tempo e la veracità delle profezie e l'onnipotenza di Dio, si credette di ritrovare la spiegazione dell'adempimento finora mancato nel fatto che Dio stesso suscitava direttamente gli impedimenti in contrario (imperi, tiranni, ecc.), avendo predeterminato egli stesso lo svolgimento degli eventi, e servendosi di tali ostacoli come di strumenti espressamente adibiti. D'altra parte l'adempimento delle profezie non poteva mancare; ma continuandosi a interpretarle in senso strettamente materiale e nazionalistico, mentre pure non solo il presente ma anche il prossimo prevedibile futuro ispiravano sempre più nera sfiducia riguardo all'indipendenza e al trionfo del nazionalismo giudaico, cosiddetto adempimento fu relegato - come si è accennato - alla "fine dei tempi", al "gran giorno" di Dio, in una prospettiva quanto mai vaporosa, che era in contrasto stridente con le febbrili attese fino allora alimentate.
A questo processo si riconnette in qualche modo anche il dualismo storico-cosmico. Le disillusioni del nazionalismo giudaico avevano provocato anche un'altra spiegazione, favorita probabilmente all'esterno dalle idee persiane, con le quali fin dai tempi di Ciro il popolo ebraico era venuto in contatto: se le profezie non si avverano, si pensò, ciò avviene perché c'è una forza, ostile a quella di Dio, che impedisce l'avverarsi della sua parola. In questo dualismo ostile, Dio certo rimarrà vincitore "alla fine dei tempi": ma frattanto si sta svolgendo la lotta, e il popolo giudaico è il bersaglio del "secolo" presente, che è il principio ostile a Dio. Con una nettezza inequivocabile si esprime infatti uno di questi scritti: "L'Altissimo non ha fatto un solo secolo [nel senso piuttosto di "mondo", come il siriaco ebraico] bensì due" (IV Esdra, VII, 50). Qui l'Altissimo è proclamato autore di ambedue i "secoli" in omaggio al monoteismo ebraico; ad ogni modo nel "secolo" presente regna il male, e solo nel "secolo" futuro il popolo giudaico trionferà.
Su questa intelaiatura comune a quasi tutta l'Apocalittica giudaica, vengono intessuti dei motivi dottrinali o ricamate delle figure che sono particolari a questo o quello scritto; naturalmente con divergenze o anche esplicite contraddizioni. Il liberatore del popolo oppresso, che sbaraglierà i pagani, è Enoch, secondo Enoch etiopico (LXXI, 14 segg.; cfr. Enoch slavo, XXII, 8; LVI, 2; LXIV, 5); è invece un angelo, secondo l'Assunzione di Mosé (cfr. Daniele XII, 1). Nelle parabole di Enoch etiopico campeggia la figura del "Figlio dell'uomo" (lo stesso termine che si ritrova poi nel Nuovo Testamento, ma che già era stato impiegato in Daniele), specie di Messia, celeste, preesistente, fondatore del futuro regno indistruttibile (cfr. Daniele, VII, 13-14). Varietà e discrepanze maggiori si trovano nelle varie descrizioni del "secolo" futuro, del giudizio finale, e simili.
A questo punto, per dare un'idea concreta di simili scritti apocalittici, presentiamo un riassunto del più antico e per molti rispetti più importante di essi, il libro di Enoch etiopico:
Capp. 1-5: Introduzione, in cui Enoch descrive il futuro giudizio messianico ove saranno puniti gli angeli prevaricatori e gli uomini empî, e verranno ricompensati i giusti; la descrizione è fatta dietro comunicazione degli angeli a Enoch, che è incaricato di parteciparla alle generazioni future. - Capp. 6-16: Punizione dei "duecento" angeli che ebbero commercio con le figlie degli uomini, ed alle quali svelarono una quantità di secreti, ivi numerati, che vanno da misteriose formule magiche fino all'arte di tingersi le occhiaie con l'antimonio. - Capp. 17-36: Viaggi di Enoch nell'oltremondo; ivi egli visita i depositi dell'uragano, della luce, ecc. viene a conoscere i nomi e le mansioni dei "sette" arcangeli il peccato delle "sette" stelle "che sono incatenate per 10.000 secoli"; vede, fra numerose altre meraviglie, il luogo dei dannati, il paradiso terrestre, le porte da cui escono gli astri, ecc. - Capp. 37-71, ossia Libro delle parabole. Prima parabola: lotta fra i due mondi, quello eccelso dei santi e quello basso degli empî; il futuro giudizio sarà la manifestazione del mondo eccelso, ossia del "regno". Seconda parabola: manifestazione e trionfo del "Figlio dell'uomo", annientamento degli empî. Terza parabola: fine delle cose dopo l'avvento del "regno" messianico. A questo punto Enoch è assunto a contemplare i segreti del cielo. - Capp. 72-82: Descrizione delle meraviglie astronomiche, e dei prodigi dei giorni estremi a punizione degli empî. - Capp. 83-90: Serie di sogni visionarî, in cui sotto altrettanti simboli sono presentati i varî personaggi dell'antichità e i periodi della storia giudaica, da Adamo ed Eva fino all'epoca di Giuda Maccabeo. (Il Messia vi è simbolizzato come un toro bianco dalle grandi corna). - Capp. 91-105 (con alcuni spostamenti): Parenesi e maledizioni, fra cui è contenuta una storia del mondo in 10 settimane.
Dipendenze. - Il compito della critica, di sceverare i varî elementi confluiti in dati scritti, ha trovato nell'Apocalittica un campo di ricerche che è di un'ampiezza ma anche di una difficoltà straordinarie. E la ragione è chiara: non solo i singoli scritti sono spesso, nello stato odierno, opera di più autori successivi, ma anche dal lato concettuale ognuno di essi si può presentare come prodotto sintetico di varî elementi religiosi, politici, leggendarî e mitici. Le ipotesi quindi si sono moltiplicate, sotto l'urgenza di schiarire il mondo spirituale in mezzo a cui è apparso il cristianesimo; tuttavia si è ancora lontani dall'aver fatto sufficiente luce. Una cosa sembra indubitabile: che cioè, a parte le tendenze politiche e di confraternita ben riscontrabili ancora oggi negli scritti, gli altri elementi sono stati desunti non dalle loro primitive fonti, bensì dalla tradizione popolare giudaica, in cui essi erano penetrati maggiore o minor tempo prima e con cui si erano quasi incorporati. Ecco quindi che, passando in rivista la storia d'Israele nelle sue relazioni con i diversi popoli, si è messa l'Apocalittica in dipendenza dai miti assiro-babilonesi (specialmente H. Gunkel, Schöpfung und Chaos, 2ª ediz., Gottinga 1921; A. Jeremias, Das alte Testament im Lichte des alten Orients, 3ª ediz., Lipsia 1916), oppure da quelli iranici (specialmente W. Bousset, Die Religion des Judentums im späthellenistischen Zeitalter, 3ª ediz., Tubinga 1926), o anche da quelli greci (Dieterich) e tardivi egiziani (Wessely).
Scritti apocalittici giudaici. - I seguenti passi di profeti, tutti contenuti nel canone dell'Antico Testamento, hanno un colorito apocalittico e vi appaiono alcune di quelle che poi furono le caratteristiche dell'Apocalittica tipica: Isaia, XXIV-XXVII XXXIII, XXXIV-XXXV; Geremia, XXXIII, 14-26; Ezechiele, II, 8, XXXVIII-XXXIX; Gioele, III, 9-17; Zaccaria, XII-XIV. Oltre a ciò, vi è l'intero libro di Daniele in cui, più che in qualunque altro scritto dell'Antico Testamento, appaiono le suddette caratteristiche. Riguardo ad esso tuttavia vi è una radicale differenza di giudizio, che investe anche la sua qualità di scritto apocalittico, fra l'antica tradizione giudaica e cristiana, seguita anche oggi dalla maggior parte dei cattolici, e i critici recenti. Secondo costoro, quasi tutti, il libro di Daniele è sorto nel bel mezzo della fioritura apocalittica giudaica (poco dopo il 167 a. C.): è quindi uno scritto strettamente apocalittico, sia nelle forme sia nella sostanza; secondo la tradizione invece è dei tempi in cui esso si afferma scritto, cioè durante e poco dopo l'esilio babilonese (586-538), ed è quindi un libro sostanzialmente profetico con larghissimo impiego di forme apocalittiche (v. bibbia, daniele). - Scritti apocrifi sono:
Il Libro di Enoch conservato in etiopico. - Questo libro (di cui abbiamo dato sopra il riassunto) è una compilazione di diversi scritti, la cui origine va dal sec. II al I a. C. o poco dopo. (Una sua fonte è certamente l'apocalittico Libro di Noè nominato nel Libro dei Giubilei). Il maggior numero di questi scritti è dovuto ad autori giudaici, sebbene ovunque possano essersi introdotte interpolazioni cristiane, specialmente nel Libro delle parabole. Fu scritto originariamente parte in ebraico, parte in aramaico: quindi tradotto in greco, da cui (verso il sec. V d. C.) in etiopico, e forse in latino; ma tutti i testi, salvo l'etiopico e una piccola parte del greco, sono andati perduti. Godé di grande autorità, non solo presso i giudei, ma anche presso i cristiani antichi; presso i primi servì da modello e da fonte ad altri scritti apocalittici: presso i secondi è citato da molti Padri più antichi (Clemente Aless., Origene, Tertulliano; anzi nella Lettera di Barnaba, IV, 3; XVI, 5, è allegato come Scrittura) e a parere di S. Girolamo, De viris ill., IV, 7, anche dall'epistola canonica di Giuda, V, 14. Un altro scritto attribuito allo stesso patriarca è
Il Libro di Enoch conservato in slavo, detto anche Libro dei secreti di Enoch. - Tratta delle visioni che Enoch ebbe visitando i sette cieli. Scritto verso la metà del sec. I d. C., secondo alcuni in greco da un giudeo ellenista egiziano, secondo altri in ebraico o aramaico da un palestinese, si è conservato solo nella traduzione slava, in doppia recensione, pubblicata da pochi anni.
I Testamenti dei 12 Patriarchi. - Contiene le ultime parole dette a guisa di "testamento" dai figli di Giacobbe; ogni testamento ha una parte storica, una parenetica, ed una profetica. Fu scritto nel sec. II-I a. C. da un giudeo, in ebraico o aramaico, donde fu tradotto in greco, quindi in armeno e slavo; nelle varie versioni subì una grande quantità di interpolazioni cristiane che ne ave vano trasformato l'aspetto a tal punto, che fino a pochi anni addietro era ritenuto uno scritto d'origine cristiana. Questa circostanza rende particolarmente difficile un giudizio sull'influenza di questo scritto nelle prime comunità cristiane, la quale certo non fu trascurabile.
I Salmi di Salomone. - In numero di 18, esaltano la bontà di Dio verso il popolo eletto, descrivono la malvagità degli empî e le tribolazioni di Gerusalemme, esprimendo ardente speranza nel Messia figlio di David. Furono scritti originariamente in ebraico, quasi sicuramente in Palestina da un pio fariseo che aveva assistito alla presa di Gerusalemme da parte di Pompeo Magno nel 63 a. C.; sono conservati in greco ed in siriaco. La loro forma letteraria è molto simile a quella dei Salmi canonici, ma la lor attribuzione a Salomone probabilmente è dovuta non all'autore bensì a qualche scriba.
L'Assunzione di Mosè è il titolo convenzionale dato ad un ampio frammento latino, che probabilmente deriva dalla stessa opera chiamata da qualche scrittore antico Ascensione oppure Testamento di Mosè. Questo frammento, pubblicato dal Ceriani nel 1861, è mutilo al principio ed alla fine. Riferisce le ultime allocuzioni di Mosé al suo successore Giosuè, nelle quali, dopo aver delineato profeticamente la storia del popolo ebraico fino all'epoca romana tratta della venuta del Messia nel giudizio a glorificazione d'Israele. Fu scritto verso l'anno 4-6 d. C., probabilmente da un pio giudeo dello stampo antico, avverso sia ai Sadducei sia ai Farisei dell'ultima generazione. Il superstite frammento latino presuppone la versione greca di un originale ebraico o aramaico, tutti perduti. Secondo Origene (De princip., III, 2, 1) la lettera canonica di Giuda, 9, dipende dall'Assunz. di Mosè; dal frammento superstite ciò non appare.
L'Apocalisse di Baruch siriaca, con un'appendice contenente la Lettera di Baruch alle 9½ tribù. - Tratta delle tribolazioni del popolo ebraico e dell'attuale distruzione di Gerusalemme, delle 12 piaghe che precederanno la venuta del Messia, del suo regno (presentato sotto simboli), della storia del mondo (egualmente in forma simbolica), e di molte altre questioni teologiche; la Lettera di Baruch consola gli esuli esortandoli all'osservanza della Legge. Poiché molte parti dell'opera non aderiscono bene fra loro, e soprattutto contengono concetti e giudizî contrastanti, si è concluso che anche questa sia una compilazione da scritti precedenti. Nella presente forma risale a circa la fine del sec. I d. C. L'odierno testo siriaco è versione da un perduto testo greco, che a sua volta riproduceva l'originale ebraico o aramaico, parimente perduto.
L'Apocalisse di Baruch greca. - Baruch vi narra i viaggi che fece in ispirito attraverso 5 cieli. Il numero quindi fa già sospettare che l'odierno testo non sia che una ricapitolazione di un testo più ampio; Origene infatti espressamente attesta (De princip., II, 3, 6) che un libro di Baruch parlava di 7 cieli. Sembra scritto nella prima metà del sec. II d. C. da un giudeo, ma ha non poche interpolazioni di mano cristiana. Dal testo greco, conservato in un solo manoscritto, dipende una versione slava, che è una ulteriore riduzione (descrive il viaggio a 2 cieli soltanto).
L'Apocalisse di Abramo. - Nella sua prima parte, di tipo midrascico, tratta della conversione di Abramo al monoteismo; nella seconda, di tipo apocalittico, descrive le visioni che Abramo, portato in cielo da un angelo, ebbe circa la storia del popolo ebraico. Fu scritto, forse al principio del sec. II d. C., da un giudeo in ebraico o in aramaico, ma rimane soltanto in una traduzione slava. Anche questo scritto contiene interpolazioni cristiane.
Il Libro IV di Esdra. - È costituito da uno scritto primitivo (capp. 3-14), che riferisce 7 visioni, o colloquî, di Esdra con l'Altissimo. Gerusalemme è distrutta, il popolo è in esilio; perciò il veggente domanda perché Dio abbia permesso che tante calamità piombassero sul popolo eletto e fedele alla Legge, perché i giusti debbano essere così tribolati e gli empî così prosperosi, e quando sarà che venga il giudizio che ristabilirà le cose secondo giustizia. Alle varie domande risponde l'angelo a nome di Dio, promettendo la ricostruzione di Gerusalemme e la resurrezione con la giusta ricompensa. Sebbene alcuni critici abbiano ritenuto questo scritto come opera di compilazione, generalmente invece lo si crede opera di un solo autore, giudeo, della fine del sec. I d. C., e redatto in ebraico o aramaico. È invece certo che i capp. 1-2 e 15-16 sono aggiunte cristiane. Godé di grandissima autorità presso i Padri cristiani, fu tradotto prima in greco, e poi da questo in latino, siriaco, etiopico, armeno e arabo; queste versioni sono superstiti, salvo la greca perita come l'originale. Il frequente uso che di questo apocrifo fanno, oltre i Padri, anche la liturgia e il culto ecclesiastico, han fatto sì che dopo il concilio di Trento esso fosse stampato in appendice alle edizioni della Vulgata.
Altri scritti di minore importanza apocalittica, oppure del tutto perduti salvo il titolo e qualche scarso frammento, sono: Le Apocalissi di Elia e di Sofonia superstiti in copto; i Paralipomeni di Geremia (ossia Il Resto delle parole di Baruch) superstiti in greco etiopico armeno e slavo; Ezechiele apocrifo, frammentario; il Testamento di Giobbe superstite in greco; la Preghiera di Giuseppe; il Libro di Eldad e Modad. In quasi tutti si trovano tracce di rimanipolazione cristiana. Ciò poi avviene specialmente nei cosiddetti Oracoli Sibillini (v.) in 14 libri, dei quali mancano i libri 9-10, che forse non sono mai esistiti; di questo apocrifo soltanto i libri 4-5 e porzioni del 1 e 3 sembrano di origine giudaica (sec. II a. C.- sec. II d. C.), mentre gli altri sono di mano cristiana (il 6-7 forse di provenienza gnostica).
Apocalittica cristiana. - Il movimento cristiano si riconnette intimamente con le idee messianiche dei profeti, pel fatto stesso che Gesù presenta sé stesso come il predetto da loro e l'avveratore delle loro profezie. D'altra parte il movimento cristiano era sbocciato in quell'ambiente in cui già da secoli fioriva la letteratura apocalittica giudaica; perciò, mentre da una parte è naturale supporre che i primi seguaci del nuovo movimento si fossero assimilate espressioni e concezioni di quella diffusa letteratura (la quale inoltre si presentava quasi come un'adattazione esegetica degli antichi scritti profetici): dall'altra parte essi non potevano se non dissentire dai suoi due punti fondamentali, che abbiamo già visti, cioè la concezione temporale-nazionalistica del regno messianico e l'epoca della venuta del Messia. Dal momento ch'essi si dichiaravano cristiani, ritenevano che il promesso Messia non doveva ancora venire in un indefinito futuro, bensì era già venuto nella persona di Gesù; e poiché questi aveva dichiarato che il suo regno "non era di questo mondo", e che egli era venuto ad insegnare a tutti gli uomini, non il culto del tempio di Gerusalemme o di Garizim, bensì ad adorare il Padre "in spirito e verità", con ciò stesso il sogno nazionalistico dell'Apocalittica giudaica svaniva.
Tuttavia Gesù stesso aveva preannunziato una sua seconda venuta (παρουσία) che si sarebbe manifestata in forma tanto splendida e gloriosa, quanto umile e dimessa era stata la prima venuta. Inoltre questa seconda venuta di Gesù aveva un'importanza anche pratica particolare, perché aveva un valore di consolazione per i cristiani, già alle prese con le prime persecuzioni da parte dei giudei e dei gentili, e un valore di giustizia perché essa avrebbe sancito il trionfo pubblico e solenne dei fedeli. Sotto quest'aspetto morale quindi, la seconda venuta di Gesù offriva alla mente dei primitivi cristiani una certa analogia con la prima venuta del Messia dell'Apocalittica giudaica. A ciò si aggiunga la questione dell'escatologia individuale, giacché uno dei dogmi cristiani più nitidamente enunciati da S. Paolo era appunto quello della resurrezione (ammessa anche dai Farisei, negata invece dai Sadducei). Si presentavano quindi spontanee alle menti cristiane molte domande che si riferivano all'una o all'altra questione, o anche alle relazioni che intercedevano fra ambedue. Quando si sarebbe manifestata la seconda venuta di Gesù? Quando la resurrezione dei fedeli già morti? Dovevano passar tutti attraverso la resurrezione: ovvero alcuni di essi sarebbero ancora nella presente vita al tempo della seconda venuta di Gesù, di modo che potevano riunirsi a lui ancora viventi? Più tardi ancora, le domande dei cristiani si indirizzarono sempre su questa traiettoria a punti più particolari, quali l'avvenire della Chiesa, l'avvenire delle singole anime dopo morte, ecc., offrendo così altro campo a speculazioni.
Di questo stato d'animo dei primitivi cristiani, e del pensiero, non solo degli apostoli, ma di Gesù stesso riguardo alle relative questioni, abbiamo testimonianze in varî passi sia delle Lettere sia dei Vangeli canonici; i quali passi, tanto per la materia trattata quanto per le espressioni usate, mostrano affinità letteraria con gli scritti apocalittici giudaici. Questa affinità è poi di gran lunga maggiore nell'unico libro del Nuovo Testamento, che deliberatamente trasporta in terreno cristiano la forma apocalittica giudaica, cioè l'Apocalisse di Giovanni l'Apostolo; in essa, se il pensiero dissente dall'Apocalittica giudaica, in ciò che per un cristiano essa aveva di superato (specialmente nei due punti accennati sopra), l'impalcatura letteraria che sostiene questo pensiero è del medesimo materiale, ritrovandovisi lo stesso simbolismo (di esseri animati o inanimati) le stesse artificiosità letterarie (Gematria, ecc.) e perfino le stesse espressioni ("Figlio dell'uomo", "Sposa", ecc.) degli scritti apocalittici giudaici (v. apocalisse).
Ben più ardua è l'esegesi dei passi di colorito apocalittico contenuti nei Vangeli canonici e nelle Lettere, come pure nell'intera Apocalisse, implicando questioni che investono la stessa origine del cristianesimo; per cui è necessario consultare i rispettivi commenti (v. anche parusia).
Scritti apocalittici cristiani. - Il Nuovo Testamento, è rappresentato in questo campo, oltreché dall'intera Apocalisse di Giovanni, dai seguenti tratti: Matteo, XXIV; Marco, XIII; Luca, XXI; I Tessalonicensi, IV-V; II Tessal. - Scritti apocrifi sono:
L'Apocalisse di Pietro, greca. - Quest'opera già nel sec. II d. C. era molto diffusa e stimata: è ricevuta nel canone Muratoriano (lin. 71-72) e usata come canonica da Clemente Alessandrino. Ne rimangono alcuni frammenti, ritrovati da pochi anni, nei quali sono descritte a vivaci colori la gloria dei giusti in cielo e le pene dei dannati nell'inferno. Da quest'opera è da distinguere
L'Apocalisse di Pietro, etiopica (ossia l'Apocalisse di Pietro per mezzo di Clemente) conservata in etiopico e arabo, ed in frammenti copti, nella quale Clemente Romano espone i segreti delle cose future rivelati a lui da S. Pietro. Forse questa Apocalisse è una amplificazione tardiva della precedente.
L'Apocalisse di Paolo. - Sembra opera del tutto indipendente da una Ascensione di Paolo, libro d'origine cainita, ricordato da Epifanio (Haer., 38, 2) ma oggi del tutto perduto. Essa, fondandosi sull'accenno di S. Paolo in II Corinti, XII, 2-4, descrive un viaggio di costui nell'inferno e nel paradiso, con molte particolarità sulle pene dei dannati e i gaudî degli eletti. Già nota a S. Agostino (in Ioan., 98, 8) nell'anno 416, era stata scritta circa 20 anni prima, trovandovisi nominato l'imperatore Teodosio (+ 395). Ebbe una fortuna straordinaria; scritta originariamente in greco (o forse in siriaco), ne rimangono ancora oggi traduzioni e rifacimenti, oltreché in greco e siriaco, anche in arabo, armeno, copto, slavo e latino. Quest'ultimo ha particolare importanza perché, diffusissimo nel Medioevo sotto il nome di Visio Pauli (se ne conoscono almeno 6 recensioni diverse), fu a sua volta fonte più o meno diretta della vasta letteratura visionaria medievale in volgare antico, francese, tedesco, anglo-sassone e italiano. (Cfr. A. Graf, A proposito della "Visio Pauli", nel Giornale storico della letter. italiana, XI [1888], p. 344 segg.). Che pure Dante l'abbia conosciuta e utilizzata nella Divina Commedia, è attestato espressamente da Francesco da Buti nel commento a Inferno, II, 28.
Altre Apocalissi hanno assai scarsa importanza: l'Apocalisse di Tommaso superstite in latino, posteriore al sec. IV e forse d'origine manichea; tre Apocalissi di Giovanni apocrife, superstiti due in greco e una in copto, sorte tra i sec. VIII-IX; due Apocalissi della Vergine Maria, una superstite in greco (circa sec. IX), l'altra, che sfrutta ampiamente l'Apoc. di Paolo, in etiopico (circa sec. VII); più tardive ancora sono le Apocalissi di Daniele e di Esdra. Altre, come un'Apocalisse di Stefano nominata nel decreto pseudo-Gelasiano, e una di Zaccaria, sono andate perdute. Sono invece frammenti del Vangelo di Bartolomeo, scritto eretico del sec. IV, sia l'Apocalisse di Bartolomeo sia le cosiddette Domande di Bartolomeo.
A questi scritti sono da aggiungersi le interpolazioni e rifacimenti fatte da autori cristiani su scritti apocalittici giudaici, già segnalate sopra, e sotto un certo aspetto anche il Pastore di Erma che impiega estesamente l'artificio della "visione", pur rimanendo uno scritto di tipo profetico-ecclesiastico (v. erma).
Bibl.: I testi si trovano tradotti nelle seguenti raccolte, ove sono indicate anche le varie edizioni dei testi originali. Per i testi giudaici: R. H. Charles, The Apocrypha and Pseudepigrapha of the Old Testament in English, edited in conjunction with many scholars, voll. 2, Oxford 1913; E. Kautzsch, Die Apokryphen und Pseudepigraphen des Alten Testaments, voll. 2, 2ª ed., Tubinga 1921; P. Riessler, Altjüdisches Schrifttum ausserhalb der Bibel, Augusta 1928. Per i testi cristiani: E. Hennecke, Neutestamentliche Apokriphen, 2ª ed., Tubinga 1924; M. R. James, The Apocryphal New Testament, being the apocr. Gospels, Acts, Epistles and Apocalypses, Oxford 1924.
Per lo studio dell'argomento, oltre le opere già citate, cfr. E. Schürer, Geschichte des jüd. Volkes im Zeitalter Jesu, 4ª ed., III, Lipsia 1909, pp. 268 segg., 524 segg., 555 segg.; Székely, Bibliotheca Apocrypha, I, Friburgo in B. 1913; J. M. Lagrange, Le Messianisme chez les Juifs, Parigi 1909; M. R. James, The lost Apocrypha of the Old Test. Their titles and fragments collected, translated and discussed, Londra 1920; Bardenhewer, Geschichte der altkirchl. Literatur, 2ª ed., I, Friburgo in B. 1913, pp. 498-622, con ampia bibliografia ad ogni scritto. Bibliografia ricchissima è pure nelle voci Apocalyptique e Apocryphes (di J. B. Frey), in Suppl. al Dictionn. de la Bible del Vigouroux, Parigi 1928.