Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fil rouge dell’età umanistico-rinascimentale, la riflessione sulle arti anima ininterrotta l’intero Cinquecento, secolo di rinnovata consapevolezza critica per l’estetica ante litteram. Tra teorizzazioni erudite, codificazione di maniera e vertenze controriformistiche sull’immagine sacra, scritti d’arte multiformi (di artisti e di letterati che ne sostengono l’ascesa) fioriscono in gran copia. Sullo sfondo di Rinascimento maturo, manierismo e pre-barocco si assiste, con l’esaltazione del genio e la legittimazione dell’individualità artistica, al battesimo dell’artista “moderno”: istituzionale (cortigiano, accademico); eccentrico (saturnino, individualista, eterodosso).
La trattatistica. Tra letteratura d’arte e teoria dell’arte
Calco di Kunstliteratur (Julius von Schlosser, Die Kunstliteratur. Ein Handbuch zur Quellenkunde der neueren Kunstgeschichte, 1924) e “insieme di tutte le fonti, manoscritte e a stampa, sull’arte”, la letteratura d’arte raduna materiali eterogenei: trattatistica (manuali tecnici, compendi teorici, repertori), fonti biografiche e memorialistiche (biografie/autobiografie di artisti, diari privati, cronache, aneddoti), epistolografia artistica, testi letterari, annoverando, tra le testimonianze di corredo, echi paratestuali in opere letterarie, letteratura periegetica (guide, taccuini di viaggio), fonti archivistiche e documentarie (registri contabili di mercanti; inventari di collezionisti; atti notarili).
Per consistenza, diffusione e respiro contenutistico, nel Cinquecento spicca fra tutte la trattatistica, la forma più tipica di elaborazione e sistemazione teorica rinascimentale che, con struttura dialogica, argomentazione analitica e impronta militante umanistica, ben asseconda l’urgenza moderna – solo in parte anticipata nel XV secolo – di ridefinire il ruolo dell’arte e l’operato dell’artista: è con trattati e teorizzazioni che s’intende affrancare l’artifex dalla condizione corporativa di artigiano/maestro di bottega e se ne rivendicano habitus e status d’intellettuale perché all’arte si riconoscano, al pari di scienza, filosofia e retorica, dignità “liberale” e autonomia.
Prodromi quattrocenteschi e primo Cinquecento
Leonardo da Vinci
Libro di pittura, Cap. II, IV, VI
[IV. De pittura e poesia] [Cod. Urb. Lat. 1270, databile 1505-1510]
Per fingere parole la poesia supera la pittura, e per fingere fatti la pittura su-pera la poesia, e quella proporzione ch’è da’ fatti alle parole, tal è dalla pittu-ra ad essa poesia, perché i fatti sono subiecto dell’occhio, e le parole subiecto dell’orecchio, e così li sensi hanno la medesima proporzione infra loro, quale hanno li loro obbietti infra sé medesimi; e per questo giudico la pittura essere superiore alla poesia.
[VII. Che differenza è dalla pittura alla poesia] [1492]
La pittura è una poesia mutta, e la poesia è una pittura cieca, e l’una e l’altra va imitando la natura quanto è possibile alle loro potenzie, e per l’una e per l’altra si po dimostrare molti morali costumi, come fece Apelle con la sua Ca-lunnia. Ma della pittura, perché serve a l’occhio, senso più nobile che l’orecchio, obbietto della poesia, ne risulta una proporzione armonica.
[VIII. Delle prime otto parti in che si divide la pittura] [1492]
Tenebre, luce, corpo, figura, colore, sito, remozzione e propinquità. Possene aggiungere a queste due altre, cioè moto e quiete, perché tal cosa è necessario figurare ne’ moti delle cose che si fingono nella pittura.
[XVII. Pittura e sua definizione] [1508-1510]
La pittura è composizione di luce e tenebre, insieme mista co le diverse quali-tà di tutti i colori, semplici e composti.
[IV. Del modo del studiare] [1508-1510]
Studia prima la scienzia, e poi la pratica nata da essa scienzia. Il pittore debbe studiare con regola, e non lasciare cosa che non si metta alla memoria, e ve-dere che differenzia è infra le membra delli animali e loro gionture.
[XXXV. Piacere del pittore] [1492]
La deità ch’ha la scienzia del pittore fa che la mente del pittore si trasmutta in una similitudine di mente divina; imperoché con libera potestà discorre alla generazione di diverse essenzie di varii animali, piante, frutti, paesi, campa-gne, ruine di monti, loghi paurosi e spaventevoli, che dano terrore alli loro risguardatori, et ancora lochi piaccevoli, suavi e dilettevoli di fioriti prati con varii colori, piegati da suave onde dalli suavi moti di venti, riguardando die-tro al vento che da loro si fugie; fiumi discendenti con li empiti de’ gran dilu-vii dalli alti monti, che si cacciano inanti le deradicate piante, miste co’ sassi, radici, terra e schiuma, cacciandosi inanti ciò che si contrapone alla sua ruina.
in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, 1971
Entro il 1545-1550 la revisione delle teorie sull’arte si radica alle acquisizioni quattrocentesche dei trattati umanistici, imprescindibili sia per il recupero del patrimonio tecnico-erudito dell’antichità, che per l’esercizio concettuale di conciliare auctoritates e istanze moderne: in continuità ideale tra exempla classici e nuove scoperte dell’ingegno (prospettiva, studi anatomici), la teorizzazione artistica si lega al doppio filo della sintesi arte-scienza/arte-poesia.
L’inedita codificazione di Leon Battista Alberti, dal De pictura (1435; in volgare, 1436) al De re aedificatoria (1450), incardina i topoi di tutte le riflessioni a seguire. Scopo della pittura è l’imitazione della natura, che esige l’applicazione di regole certe, scientifiche (“pitagorismo”) e fasi elaborative (circonscriptione, disegno di contorno; compositione, prospettiva e definizione anatomica; receptione di lumi, chiaroscuro e colori) ispirate all’orazione retorica (inventio, dispositio, elocutio). La figura umana – non isolata, ma parte di una scena narrativa – è soggetto privilegiato: moto e chiaroscuro ne dicono la psicologia. Simile nei fini a poesia e storia (storici e poeti sono “pittori” di parole), imitando modelli “perfetti” (Apelle, Zeusi) la pittura evoca armonia e bellezza.
Se Alberti restituisce in richiami costanti le fonti antiche sopravvissute (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, libro XXXV: teorie greche di linea, tonon, finito/non finito; Vitruvio, De Architectura: nel libro VII, censura delle grottesche), il neoplatonismo fiorentino di Marsilio Ficino recupera l’idea platonica di furor poetico come ispirazione superiore (i modelli della realtà preesistono nell’anima) che, unita al bello ideale di Plotino e alla metafisica medievale della luce, disvela all’artista un grado divino di percezione e la cifra magico-simbolica di un’arte mediatrice tra sensibile e intangibile: allegorie cristiane si combinano con favole pagane, miti orientali e suggestioni astrologico-esoteriche. L’assunto “pittura-poesia, arti sorelle” – abitate dal simbolo ed evocatrici entrambe d’immagini – si condensa nella fortunatissima dottrina oraziana dell’ut pictura poesis (Ars poetica, Ep. II, 3 Ad Pisones), cui si associano: l’aforisma di Simonide, da Plutarco, “la pittura è poesia muta, la poesia è pittura parlante”; similitudini pittoriche da Aristotele, Cicerone e Quintiliano; il parallelismo Dante-Giotto dal Liber de origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus di Francesco Villani (1325-1407); suggestioni stilnovistiche dal Trattato dell’arte (1390) di Cennino Cennini: la pittura, equidistante da poesia e scienza nel “trovare cose non vedute” con la “fantasia”, vuole “animo gentile”.
Baldesar Castiglione
Il Cortegiano, Libro I, capp. XLVII, L
[Libro I, cap. XLVII]
Allora il CONTE: Prima che a questo proposito entriamo, voglio – disse – ragionar d’un’altra cosa, la quale io, perciò che di molta importanza la estimo, penso che dal nostro Cortegiano per alcun modo debba esser lasciata addietro; e questo è il saper disegnare, ed aver cognizion dell’arte propria del dipingere. Né vi meravigliate s’io desidero questa parte, la qual oggidì forse par mecanica e poco conveniente a gentilomo: ché ricordomi aver letto che gli antichi, massimamente per tutta Grecia, voleano che i fanciulli nobili nelle scole alla pittura dessero opera, come a cosa onesta e necessaria, e fu questa ricevuta nel primo grado dell’arti liberali; poi per pubblico editto vetato che ai servi non s’insegnasse. Presso ai Romani ancor s’ebbe in onor grandissimo; e da questa trasse il cognome la casa nobilissima de’ Fabii, ché il primo Fabio fu cognominato Pittore, per esser in effetto eccellentissimo pittore, e tanto dedito alla pittura, che avendo dipinto le mura del tempio della Salute, gl’inscrisse il nome suo; parendogli che […] potesse ancor accrescere splendore ed ornamento alla fama sua lassando memoria d’essere stato pittore. […] E veramente, chi non estima questa arte, parmi che molto sia dalla ragione alieno; ché la machina del mondo, che noi veggiamo coll’amplo cielo di chiare stelle tanto splendido, e nel mezzo la terra dai mari cinta, di monti, valli e fiumi variata, e di sì diversi alberi e vaghi fiori e d’erbe ornata, dir si po che una nobile e gran pittura sia, per man della natura e di Dio composta; la qual chi po imitare, parmi esser di gran laude degno: né a questo pervenir si po senza la cognizion di molte cose, come ben sa chi lo prova. Però gli antichi e l’arte e gli artìfici aveano in grandissimo pregio, onde pervenne in colmo di summa eccellenza: e di ciò assai certo argumento pigliar si po dalle statue antiche di marmo e di bronzo che ancor si veggono. E benché diversa sia la pittura dalla statuaria, per l’una e l’altra da un medesimo fonte, che è il bon disegno, nasce. Però, come le statue sono divine, così ancor creder si po che le pitture fossero; e tanto più, quanto che di maggior artificio capaci sono.
[Libro I, cap. L]
Vedete dunque come lo aver cognizione della pittura sia causa di grandissimo piacere. E questo pensino quei che tanto godono contemplando le bellezze d’una donna che par lor essere in paradiso, e pur non sanno dipingere: il che se sapessero, arìan molto maggior contento, perché più perfettamente conoscerìano quella bellezza, che nel cor genera lor tanta satisfazione.
Sterminati e discontinui (pensieri brevi, aforismi), dopo il riordino per argomento a cura di Francesco Melzi (Codice Vaticano, Milano, 1520 ca.; editio princeps, Parigi, 1651), gli appunti tecnico-teorici di Leonardo da Vinci configurano Il libro de la pittura, summa postuma in cinque sezioni (superficie, figura, colore, “ombre e lume”, “propinquità e remozione”) che, di fatto, apre la trattatistica cinquecentesca. Lungi dall’essere “omo sanza lettere” (Carlo Dionisotti, Leonardo uomo di lettere, 1962), Leonardo raccomanda di indagare la natura con l’intelletto (scienza, matematica) per carpirne l’unità. Arte e scienza, sodales in Alberti, ora coincidono; pluripotenti sono però solo in pittura, “la più certa e nobile delle ‛scienze’ in quanto filiazione diretta della Natura, esperita tramite il più alto dei sensi, la vista”, come scrive Nello Forti Grazzini, consegnata al disegno. Suo il primato su tutte le arti, letteratura inclusa, e l’eccezionalità di essere impresa a un tempo individuale e universale, che dell’artista-creatore fa un “Signore e Dio”. È quindi Leonardo ad inaugurare il longevo dibattito cinquecentesco sul paragone classificatorio tra le arti: ostile alla scultura (arte vile, più di polvere e fatica che d’ingegno), estraneo all’ut pictura poesis (la poesia è frammentaria, mediata da lingue non universalmente intese), trova suprema la pittura che, riproducendo il movimento, “muove gli animi” (tempeste, battaglie, eros) e svela leggi del cosmo e gesti umani. Uomo colto, raffinato, “ornato di vestimenti” e allietato da musiche soavi, il pittore vinciano unisce pulchritudo (bellezza), venustas (grazia), eleganza: “decoro” oraziano e “sprezzatura” (difficoltà dissimulata con naturalezza) del Cortegiano (1528) convergono.
Taglio eminentemente scientifico hanno anche il trattato Divina proportione (1497; a stampa, 1509) di Luca Pacioli – matematico, allievo di Piero della Francesca, amico di Leonardo; gli scritti pratici lombardi del miscellaneo Prospectivo milanese (1500); i trattati d’architettura, ispirati ad Alberti e Vitruvio. Integralmente volgarizzata nel 1521 da Cesare Cesariano e commentata nel 1556 da Daniele Bàrbaro, l’opera vitruviana riceve moderna codificazione nel Trattato di architettura (1537; ed. ampliata, 1619) di Sebastiano Serlio, che nel libro IV distingue i cinque ordini architettonici (“dorico, ionico, corintio, toscano e composito”) secondo capitello, base, colonna. Un’apologia fortemente umanistica della scultura è comune al De Sculptura latino (1504) di Pomponio Gaurico e al Torricella. Dialogo nel quale si ragiona delle statue e miracoli, i quai per quelle far si veggono (1540) di Oto Lupano, in cui i tre interlocutori (un soldato luterano, un frate cattolico, un letterato) anticipano i dibattiti conciliari sul nesso immagini-culto, propendono rispettivamente per idolatria, iconofilia (Biblia pauperum, non sono le immagini sacre a essere venerate, bensì le entità da esse ritratte), attesa dei dogmi tridentini. Se il magistero leonardesco echeggia ancora nel Dialogo di Pittura (1545, 1548) di Paolo Pino – la pittura, “natural filosofia”, è però vicina a scultura e retorica per inventio comune (disegno è dispositio, colorire è elocutio) – nella Lezzione, nella quale si disputa della maggioranza delle arti e qual sia più nobile, la scultura o la pittura (1549), tenuta nel 1547 all’Accademia di Firenze, Benedetto Varchi passa in rassegna pareri d’artisti illustri alla volta d’un giudizio di primato unanime. Francesco d’Olanda (1517-1584), portoghese di rientro da Roma (1538-1540), non a caso nel Da pintura antigua (1548) si chiede se non sia “più nobile parlare d’arte o ammirare e magari eseguire delle opere”.
Vasari e le Vite. La storiografia d’arte tra biografia e trattato
Giorgio Vasari
Proemio della terza parte delle “Vite”
Veramente grande augmento fecero alle arti, nella architettura, pittura e scultura, quelli eccellenti maestri che noi abbiamo descritti sin qui, nella seconda parte di queste Vite, aggiungendo alle cose de’ primi regola, ordine, misura, disegno e maniera, se non in tutto perfettamente, tanto almanco vicino al vero, che i terzi, di chi noi ragioneremo da qui avanti, poterono mediante quel lume sollevarsi e condursi a la somma perfezione, dove abbiam le cose moderne di maggior pregio e più celebrate. […] le opere di Lionardo da Vinci, il quale, dando principio a quella terza maniera che noi vogliamo chiamare la moderna, oltre la gagliardezza e bravezza del disegno, et oltra il contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura così a punto come elle sono, con buona regola, migliore ordine, retta misura, disegno perfetto e grazia divina, abbondantissimo di copie e profondissimo di arte, dette veramente alle sue figure il moto et il fiato. Seguitò dopo lui, ancora che alquanto lontano, Giorgione da Castelfranco, il quale sfumò le sue pitture e dette una terribil movenzia a certe cose […]; ma più di tutti il graziosissimo Raffaello da Urbino, il quale, studiando le fatiche de’ maestri vecchi e quelle de’ moderni, prese da tutti il meglio, e fattone raccolta, arricchì l’arte della pittura di quella intera perfezzione che ebbero anticamente le figure di Apelle e di Zeusi, e più, se si potessi dire o mostrare l’opere di quelli a questo paragone. Laonde la natura restò vinta dai suoi colori, e l’invenzione era in lui sì facile e propria quanto può giudicare chi vede le storie sue, le quali sono simili alli scritti; mostrandoci in quelle i siti simili e gli edificii, così come nelle genti nostrali e strane le cere e gli abiti, secondo che egli ha voluto, oltra il dono della grazia delle teste, giovani, vecchi e femmine, riservando alle modeste la modestia, alle lascive la lascivia, at ai putti ora i vizi negli occhi et ora i giuochi nelle attitudini. E così i suoi panni piegati, né troppo semplici né intrigati, ma con una guisa che paion veri. […] Ma quello che fra i morti e’ vivi porta la palma, e trascende e ricuopre tutti, è il divino Michelagniolo Buonarroti, il qual non solo tien il principato di una di queste arti, ma di tutte tre insieme. Costui supera e vince non solamente tutti costoro che hanno quasi che vinto già la natura, ma quelli stessi famosissimi antichi che sì lodatamente fuor d’ogni dubbio la superarono. Et unico giustamente si trionfa di quegli, di questi e di lei, non imaginadosi appena, quella, cosa alcuna sì strana e tanto difficle, che egli con la virtù del divinissimo ingegno suo, mediante la industria, il disegno, l’arte, il giudizio e la grazia, di gran lunga non la trapassi; e non solo nella pittura e ne’ colori, sotto il qual genere si comprendono tutte le forme e tutti i corpi retti e non retti, palpabili et impalpabili, visibili e non visibili, ma nella estrema rotonditade ancora de’ corpi e con la punta del suo scarpello. E de le fatiche di così bella e fruttifera pianta son distesi già tanti rami e sì onorati, che oltra lo aver pieno il mondo in sì disusata foggia de’ più saporiti frutti che siano, hanno ancora dato l’ultimo termine a queste tre nobilissime arti con tanta e sì meravigliosa perfezzione, che ben si può dire, e sicuramente, le sue statue in qual si voglia parte di quelle esser più belle assai che le antiche; […]. Il che medesimamente per consequenzia si può credere de le sue pitture. Le quali, se per adventura ci fussero di quelle famosissime greche o romane da poterle a fronte paragonare, tanto resterebbono in maggior pregio e più onorate quanto più appariscono le sue sculture superiori a tutte le antiche. Ma se tanto sono da noi ammirati que’ famosissimi, che provocati con sì eccessivi premi, e con tanta felicità, diedero vita alle opere loro, quanto doviamo noi maggiormente celebrare e mettere in cielo questi rarissimi ingegni, che non solo senza premii, ma in una povertà miserabile fanno frutti sì preziosi? Credasi et affermisi dunque che, se in questo nostro secolo fusse la giusta remunerazione, si farebbono senza dubbio cose più grandi e molto migliori che non fecero mai gli antichi. Ma lo avere a combattere più con la fame che con la fama tien sotterrati i miseri ingegni, né gli lascia (colpa e vergogna di chi sollevare gli potrebbe e non se ne cura) farsi conoscere. E tanto basti a questo proposito, essendo tempo di oramai tornare a le Vite, trattando distintamente di tutti quegli che hanno fatto opere celebrate in questa terza maniera; il principio della quale fu Lionardo da Vinci. Dal quale appresso cominceremo.
in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Toribo, Einaudi, 1971
Giorgio Vasari
Lettera a Benedetto Varchi,12 febbrario 1547
Il volere, M. Benedetto mio onorandissimo, dimandar a me di quel ch’io in-tendo circa la maggioranza e dificultà della scoltura e pittura […] che, per rimanere più impacciato che non sono adesso nel scrivervi questa, andai a tro-vare il divino Michelagnolo, il quale, per esser in tutte due queste arte peri-tissimo, me ne dicessi l’animo suo. E ghignando mi rispose così: “La scoltura e pittura hanno un fine medesimo, dificilmente operato da una parte e dall’altra”; né altro pote’ trarne da esso. […] L’arte nostra non la può far nes-suno che non abbia disegno grandissimo et un giudizio perfetto […]. Che di-rò io della piumosità de’ capelli e della morbidezza delle barbe, i color loro sì vivamente stilati e lustri, che più vivi che la vivezza somigliano? Dove qui lo scultore nel duro sasso pelo sopra pelo non può formare. […] Dove lascio la prospettiva divinissima? […]: ché i lontani de’ monti e le nuvole della aria la scoltura non fa se non con duro magisterio. […] Appresso, il ritrare le perso-ne vive di naturale, somigliando, dove aviamo visto ingannar molti occhi a’ dì nostri: come nel ritratto di papa Paolo terzo, messo per verniciarsi in su un terrazzo al sole, il quale da molti che passavano veduto, credendolo vivo gli facevon di capo; che questo a scolture non veddi mai fare. E perché il disegno è madre di ognuna di queste arte, essendo il dipignere disegnare, è più no-stro che loro […]. Aviamo visto nel divin Michelagnolo a’ dì nostri a uno squadratore di cornice che ha in pratica i ferri, disegnando in sul sasso e con dir “Lieva qui e lieva qua”, aver condotto un Termine nella sepoltura di Iulio II pontefice, per la facilità dell’arte condotto; onde, vedendolo aver finito, dis-se a Michelagnolo che gli aveva obligo, avendogli fatto conoscere che aveva una virtù che niente ne sapeva. […] Tanto più vedendo questo secol d’oggi ripieno di tanti ornamenti nelle figure e nell’altre appertenenzie, delle quali mi par, quando un pittore ne sia privo, e della invenzione, d’ogni cosa madre onoranda, la quale con dolci tratti di poesia sotto varie forme vi conduce l’animo e gli occhi prima a meraviglia stupenda; e vedendo in elle antiquità in elle istorie di marmo le fughe degli armati, ma non il sudore e la spuma alle labbia e ‘lustri de’ peli de’ cavigli, e ‘ crini e le code di quegli sfilate, e lo abbagliamento delle armi et i riverberi delle figure in esse. La scoltura mai lo farà. Di più il raso, velluto, l’argento e l’oro, e le gioie con i lustri delle perle. Le quali pitture a quelli artefici che perfettamente le operano, ricamo in egli ornamenti dorati come castoni, le eccellenti pitture, come gioie dal mondo veramente tenute, massime da’ begli e dotti ingegni, come il vostro raro e di-vino. Al quale s’io non l’ho sodisfatto, perdoni a me che la penna non m’è sì facile come mi suole il pennello essere, dicendovi che volentieri e più vi arei fatto un quadro che questa lettera. State sano et amatemi.
Da Firenze alli XII di febbraio MDXLVII.
Il vostro Giorgio Vasari d’Arezzo.
in Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Bari, Laterza, 1960-62
Spartiacque cronologico-critico del XVI secolo, la pubblicazione nel 1550 delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori (Firenze, Torrentino) di Giorgio Vasari inaugura il genere della storiografia artistica moderna, che la riedizione accresciuta del 1568 (Giunti) – il titolo mutato in Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, con l’aggiunta delle Vite de’ vivi e de’ morti dall’anno 1550 insino al 1567, la lettera di Giovan Battista Andriani (1511-1579) sugli artisti antichi e l’autobiografia d’autore – non fa che ribadire.
Discostandosi dall’argomentazione precettistica del trattato puro (che pur riserva a sezioni proemiali), Vasari ricorre di preferenza, con rielaborazioni inedite, al genere narrativo ed epidittico, tra aneddotico e laudativo, di più archetipi biografici. Se per le vite di uomini illustri la tradizione antica offre una sintesi di elementi celebrativi, parenetici ed educativi propri dell’opus oratorium (Plutarco, Vite parallele; Plinio; le vite di pittori, perdute, di Cornelio Nepote; biografie imperiali da Historiae e Annales di Tacito; Svetonio, Vite dei Cesari; Historia augusta), la risemantizzazione umanistica vanta le Vite dei pittori di Bartolomeo Facio (1400-1457), la Vita di Filippo Brunelleschi di Antonio Manetti e, soprattutto, i tre celebri medaglioni (Leonardo, Raffaello, Michelangelo) in forma di Elogia (1524-1527; a stampa, 1546) e sapore novellistico di Paolo Giovio (1483-1552), l’ispiratore di Vasari. Inanellando paradigmi di vite votate all’arte, Vasari sussume historia magistra vitae, aristotelica trasmissibilità didattica della “scienza” e Commentari di Lorenzo Ghiberti (1378-1455), noti per excursus storiografici, intarsi autobiografici e il concetto di “lunga notte” medievale. Con orditura ingegnosa che tradisce l’apporto di Giovio, Varchi, Annibal Caro e Pietro Aretino, tra il 1546 e il 1550 Vasari ammassa notizie sugli artisti e corredo iconografico illustrativo, dispone le biografie in diacronia e le ordina in tre sezioni anagrafiche per altrettante fasi stilistiche o “maniere”, a tracciare un moderno iter dell’arte (analogo a quello antico dell’arte egizia, greca, romana) verso la perfezione naturalistica: la prima, “maniera vecchia”, “gotica” o “barbarica” (infanzia dell’arte), da Cimabue a Giotto (fine XIII-XIV sec.); la seconda, “moderna”, della “rinascita” (giovinezza), da Masaccio a Botticelli, ligia alle norme ma difettosa di “facilità graziosa e dolce” (XV sec.); la terza, della perfezione matura, da Leonardo - con Giorgione e Raffaello - all’acmè del “divin” Michelangelo che, eguagliando e superando la “graziosissima grazia” del Laocoonte e dell’Apollo del Belvedere, vince gli antichi (prima metà del XVI sec.). Repertorio monumentale d’intento esaustivo (gli “infiniti casi occorsi a li artefici”), eppur capace di esaltare l’individualità dell’artista, le Vite hanno per lo più carattere toscanocentrico, scarsa sistematicità teorica, impianto manieristico, ma forte visibilità: lemma già quattrocentesco, Maniera assurge, con Vasari, a emblema di un’età in cui naturalità, idealità e tradizione classica si fondono, mentre il primato del disegno – padre (già vinciano) delle tre “arti maggiori” e delle “minori o applicate” – sul colore è difesa strenua del gusto fiorentino dal veneziano (a Firenze, con Vincenzo Borghini, nel 1561 Vasari fonda l’Accademia del disegno).
Baccio Bandinelli
Memoriale
A dì 18 di maggio 1552.
Al nome di Dio, della Gloriosa Madre; di S.o Giovambatista e S.a caterina da Siena miei avvocati. Questo libro chiamato Memoriale, segniato B, è di me Cavalier Bartolomeo Bandinelli, nobile fiorentino, tenuto e scritto per le mani di Cesare mio figliolo, da me dettatogli, dove saranno scritte più e diverse memorie sì come hanno fatto Bartolomeo e Francesco di Bandinello miei avo-li; e tutto per inteligenzia de’ miei successori, acciò sappino chi sono e quanto si devono bene portare, e tutto a gloria di Dio.
[Memoria VII]
Quando a me Bartolomeo vostro padre averei molto che dire, ma, perché la mia opera e fatti sono più nuovi, cercherò presto di spedirmi. Sì come era mio padre di vivace ingegnio et attivo, così a pena uscito dalle fasce che mi co-minciò ad istruire, e vedendomi con disegni su per fogli e con la neve e con la terra al solito de’ fanciulli formare un leone, ora una figura, ora un’altra, dalle quali congetturando gli incentivi et inclinazione della natura, che, fomentati, rare volte falliscono, cominciò ad insegniarmi a disegniare, e perché voleva che io attendessi alli studi delle lettere e particolarmente alla latina, quello che mancava di giorno voleva che io supplissi di notte, facendomi ancora in-segniare al Rustici la scultura. […]
in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Torino, Einaudi, 1971
Jacopo da Pontormo
Diario, fatto nel tempo che dipingeva il coro di San Lorenzo (1554-1556)
[31] di marzo, la domenica mattina desinai in casa di Daniello pesce e castro-ne, e la sera non cenai, e lunedì mattina mi si smosse el corpo con dolore: le-vàmi e poi per essere fredo e vento ritornai nel leto e stettivi insino a hore 18, e in tucto dì poi non mi sentii bene; pure la sera cenai un poco di gota lessa con delle bietole e burro, e sto così senza sapere quello che à essere di me”; “adì 7 in domenica sera di genaio 1554 caddi e percossi la spalla e ‘l braccio e stetti male a casa Br[onzino] sei dì; poi me ne tornai a casa e stetti male insino a carnovale che fu adì 6 di febraro 1554.
Pontormo, Diario, fatto nel tempo che dipingeva il coro di San Lorenzo (1554-1556), a cura di E. Cecchi, Firenze, Le Monnier, 1956
Benvenuto Cellini
Vita scritta per lui medesimo
[I, 3]
Avvenne che la partorì una notte di tutti e’ Santi, finito il dì d’Ognisanti a quattro ore e mezzo innel mille cinquecento a punto. Quella allevatrice, che sapeva che loro l’aspettavano femmina, pulito che l’ebbe la creatura, involta in bellissimi panni bianchi, giunse cheta cheta a Giovanni mio padre, e disse: “Io vi porto un bel presente, qual voi non aspettavi”. Mio padre, che era vero filosofo, stava passeggiando e disse: “Quello che Iddio mi dà, sempre m’è caro”; e scoperto i panni, coll’occhio vidde lo inaspettato figliuolo mastio. Aggiunto insieme le vecchie palme, con esse alzò gli occhi a Dio, e disse: “Signore, io ti ringrazio con tutto ‘l cuor mio: questo m’è molto caro, e sia il Benvenuto”. Tutte quelle persone che erano quivi, lietamente lo domandavano, come e’ si gli aveva a por nome. Giovanni mai rispose loro altro se none: “È sia il Benvenuto”; e risoltisi, tal nome mi diede il santo Battesimo, e così mi vo vivendo con la grazia di Dio.
[II, 77] - Fusione del Perseo
Di poi che io ebbi dato il rimedio a tutti questi gran furori, con vocie grandissima dicievo, ora a questo et ora a quello: “Porta qua, leva là”: di modo che, veduto che ‘l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con tanta voglia mi ubbidiva, che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagnio, il quale pesava in circa a 60 libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornacie, il quale cone gli altri e di legnie e di stuz-zicare or co’ ferri et or cone stanghe, in poco spazio di tempo e’ divenne liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignioranti, e’ mi tornò tanto vigore, che io non mi avedevo se io avevo più febbre o più paura di morte. Innun tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ogniuno s’era sbigottito, et io più degli altri. Passato che fu quel gran romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l’un l’altro; e veduto che ‘l coperchio della fornacie si era scoppiato e si era sollevato di modo che ‘l bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma e nel medesimo tempo feci dare alle due spine […] di modo che, veduto ogniuno che ‘l mio bronzo s’era fatto benissimo liquido, e che la mia forma s’empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano et ubbidivano; et io or qua et or là comandavo, aiutavo e dicievo: “Oh Dio, che con le tue immense virtù risuscitasti da e’ morti, et glorioso te ne salisti al cielo!”; di modo che innun tratto e’ s’empié la mia forma.
B. Cellini, Opere, a cura di B. Maier, Milano, Rizzoli, 1968
Giovan Maria Tarsia
Oratione o vero Discorso fatto nell’essequie del divino Michelagnolo Buonarroti. Con alcuni sonetti e prose latine e volgari di diversi circa il disparere occorso tra gli scultori e pittori
Chi non vede alla fine
che la pittura è più ampia e maggiore,
e più somiglia il ver, dando il colore?
Ella fa lo splendore
del ciel, del sole, del fuoco e degli occhi,
e discerne le botte da i ranocchi.
Lasciate omai, capocchi,
lasciate omai questa vostra perfidia,
e sia l’onor di Apelle, e non di Fidia.
G. M. Tarsia, Oratione o vero Discorso fatto nell’essequie del divino Michelagnolo Buonarroti. Con alcuni sonetti e prose latine e volgari di diversi circa il disparere occorso tra gli scultori e pittori, Firenze, Sermartelli, 1564
Benvenuto Cellini
Sonetti intorno alla disputa di precedenza fra la scultura e la pittura
[Replica di messer Benvenuto Cellini al Lasca]
O voi, ch’avete, non sapendo, sparte
parole al vento, a far che la scultura
sie men della sua ombra, abbiate cura
che chi non sa nulla può dir de l’arte. […]
Non sa principio o fine
quel che non riverisce il suo maggiore;
tal non discerne il ceco alcun colore,
e privo di splendore,
così d’ogni giudizio ha spento gli occhi,
simile a talpe, a lombrichi, a ranocchi.
Via, pedanti capocchi!
ché l’ignoranzia ha in voi cotal perfidia:
poco è il saper di Apelle a quel di Fidia.
B. Cellini, Opere, a cura di B. Maier, Milano, Rizzoli, 1968
Con sguardo dialettico alle due Vite, tra 1550 e 1568 appaiono autobiografie di artisti. Sfogo privato, il Diario “fatto nel tempo che dipingeva il coro di San Lorenzo” (1554-1556) di Iacopo Carucci detto il Pontormo è testimonianza laconica ed autoreferenziale, fitta di “notazioni igieniche e dietetiche”, laddove Benvenuto Cellini affida alla Vita scritta per lui medesimo (ma dettata, tra 1558 e 1565, a un “fanciullino” di bottega e lasciata interrotta) l’apologia capricciosa, egocentrica e fortemente autocelebrativa di una “vita travagliata” d’artista (fusione del Perseo), da cui emerge, con stile scanzonato, toni municipali e prodigiose imprese, l’idea di un’arte ch’è parimenti perizia tecnica, virtù morale e miracolo. Artificioso è pure il Memoriale (1552) di Baccio Bandinelli, fisso all’immagine dell’artista-uomo di corte con patenti nobiliari, ricchezze e terreni, cui Vasari risponde con una demistificazione tra le più denigratorie.
Il secondo Cinquecento. Accademia e Controriforma
Gabriele Paleotti
Discorso intorno alle immagini sacre e profane
[I, cap. VII. Che l’arte del formare le imagini, cristianamente essercitata, riesce nobi-lissima]
Ma noi ci movemo per lo privilegio della legge cristiana, la qual con modo meraviglioso e supremo nobilita et illustra le cose sue […]; noi risponderemo che, poi che la imbecillità nostra ordinariamente non comporta che possiamo salire alla contemplazione delle cose sublimi senza l’appoggio di queste infe-riori, però è commendata questa arte come mezzo et instrumento per ascen-dere più alto e quindi ritiene giustamente la sua dignità, sì come alcune virtù, se bene sono mezzane paragonate ad altre virtù maggiori, restano nondime-no nel coro delle virtù e sono per la necessità et importanza loro da tutti pre-giate et onorate; oltra molti altri effetti degni di meraviglia, causati dalle ima-gini […]. Ora per tutte queste cose crediamo che debba essere chiaro, quanta sia la dignità, grandezza et eccellenza di questa arte, poi che viene adornata di quatro titoli di rara e singolare nobiltà, due secondo il consenso de’ savii del mondo, e due secondo la verità nostra evangelica […].
[I, cap. XIX. Del fine proprio e particolare delle immagini cristiane]
[pittore cristiano] Il fine principale serà, col mezzo della fatica et arte sua ac-quistarsi la grazia divina; impero ché il cristiano, nato a cose sublimi, non si contenta nelle operazioni sue avere mira così bassa e riguardante solamente alla mercé degli uomini e commodi temporali, ma, levando gli occhi in alto, si propone un altro fine molto maggiore e più eccellente, che sta riposto nelle cose eterne […]. Del fine poi di essa pittura diciamo che, sì come, quando ella si considera come pura arte, il fine suo è solamente di assomigliare, come già s’è detto; così ora, essercitandosi come operazione di uomo cristiano, acquista insieme un’altra più nobile forma e perciò passa nell’ordine delle più nobili virtù. E questo privilegio nasce dalla grandezza della legge cristiana, col mezzo della quale tutte le azzioni che per altro seriano stimate meccaniche o vili, fatte con deliberazione e dirizzate con debita ragione al fin eterno, cre-scono subito di grado e si vestono de’ meriti di virtù; né però distruggono o contradicono al prossimo fine, che era dell’arte sola, ma lo inalzano, lo ag-grandiscono e gli danno perfezzione. Sì che, quanto al proposito nostro, la pittura, che prima aveva per fine solo di assomigliare, ora, come atto di virtù, piglia nuova sopraveste, et oltre l’assomigliare si inalza ad un fine maggiore, mirando la eterna gloria e procurando di richiamare gli uomini dal vizio et indurli al vero culto di Dio.
[II, cap. II. Delle cose che si possono e non possono dipingere]
Quelle cose, che possono essere soggetto idoneo ad uno autore per metterle in iscritto e farne libri, possono egualmente servire per materia ad un pittore o altro simile artefice per rappresentarle con figure; et allo incontro, quello che dalle leggi è proibito che non si ponga in scrittura, parimente non sarà lecito ad essere espresso da uno pittore; poiché […] non è altro la pittura, che certa sorte di libro muto e taciturno. […] Dunque, essendosi dal sacro Conci-lio Tridentino con l’Indice dei libri data buona regola per discernere quali siano i libri permessi e quali i proibiti, potrà la istessa servire per norma al conoscere quali siano le pitture da essere seguite o fuggite dal cristiano. […] può il pittore dipingere persone e cose, come la benedetta Vergine, la sacra Croce, il Volto Santo e simili; overo operazioni, come il Battesimo del Signo-re, la Nunziazione della Madonna, con altre somiglianti. […]
in Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Bari, Laterza, 1960-1962
Giovan Paolo Lomazzo
Idea del tempio della pittura
[Cap. IV. Degli scrittori dell’arte antichi e moderni]
Non è stato alcuno tra gli antichi o moderni, ch’abbi scritto o trattato di quest’arte lodevolmente, che non sia stato anco eccellente in esercitarla, se ben non può però negarsi che alcuni non si trovino anco, i quali, come che siano ignoranti o almeno poco intendenti di lei non pur in prattica, ma anco nell’istessa teorica, ardiscono di far discorsi e dialogi nel capo loro. Ma par-lando dei primi, i quali hanno saputo e praticarla et insegnarla altrui col suo dire, fra tutti i più antichi si fa menzione di Policleto […]. Doppo di lui, si legge che scrissero dell’arte Menechino et il grande scultore Lisippo […[. A-presso a questi trovasi che Prassitele scrisse, in cinque volumi, delle nobili opere di pittura, scoltura e statuaria di tutto il mondo, et Eufranore Istmio dei colori; […]. Scrissene anco l’unico e famoso Apelle, facendone un copioso trattato, che fu commentato da Demetrio filosofo. Ma niuno di quelli è per-venuto alle mani nostre, per l’ingiurie dei tempi. Solamente l’opere dell’antichissimo ottico e matematico Azel arabo ci si sono conservate, le qua-li Vitellione commentò, aggiungendo ai sette di lui tre altri suoi libri. Vitruvio medesimamente nella sua Architettura ha trattato di quest’arte, descrivendo nel terzo tutta la simmetria del corpo umano, dalla quale tutti gli ordini dell’architettura derivano […]. Finalmente ne hanno scritto Euclide, Archi-mede, il greco Gemino et altri matematici, dei quali ne parlo in altri luochi del mio trattato, i quali furono fino ai tempi del Magno Constantino. Perché d’allora in qua, fin al tempo di Michelangelo Buonarroti, tutte l’arti giacquero come sepolte. […] Ma sopra tutti questi scrittori è degno di memoria Leonar-do Vinci, il qual insegnò l’anatomia dei corpi umani e dei cavalli, ch’io ho veduta apresso a Francesco Melzi, designata divinamente di sua mano. […] Dei più moderni e degni di maggior lode i quali hanno scritto di quest’arte, lasciandone molti, che sarebbe troppo lungo catalogo, è stato Georgio Vasari pittore aretino, il quale ha scritto la vita dei pittori, scultori e degl’architetti, cominciando da Cimabue e scendendo giù fino a quelli del suo tempo; ben-ché egli ha principalmente scritto degl’italiani, e massime dei toscani. Per il che con ragione Michelangelo in un suo sonetto, che si legge nella vita di lui descritta da esso Vasari, gli rese le lodi di che egli aveva ornato i pittori to-scani. E se ben non può negarsi che in ciò egli non si dimostrasse alquanto partigiano, nondimeno non si deve dafraudar della meritata gloria, che[ché] di lui garriscano alcuni o ignoranti o invidiosi, poiché se non con lunghe vigi-lie o fatiche, né senza grande ingegno e giudizio si è potuto ordire così bella e diligente istoria. […]
[Cap. V. Come possono i pittori rappresentar tutte le cose]
Vedendo gl’antichi che la natura era dimostratrice di tutte le forme delle cose create, e che ciascuna cosa da sé dimostrava tutto quello che si poteva deside-rare di vedere, secondo la qualità sua, s’imaginarono di voler con l’arte imi-tarla, sì che con meraviglia degl’uomini si vedesse che tanto eglino con l’ingegno et industria loro potevan fare, quanto fa l’istessa natura. E di qui vennero non solamente ad acquistarsi onore vivendo, ma anco morendo e-terna gloria appresso gl’uomini: riempiendo le menti per gl’occhi della dol-cezza delle forme e delle bellezze naturali.
in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Torino, Einaudi, 1971
Verosimiglianza aristotelica e ‘demolizione’ del primato vasariano di Michelangelo (che cita una lettera di Aretino, del novembre 1545) innervano il Dialogo della pittura intitolato l’Aretino (1557) di Ludovico Dolce, sostenitore della linea veneziana e tizianesca di classicismo-naturalismo cromatico (di cui Aretino è portavoce), contro la fiorentina, manieristica, del disegno. Giocoforza la “convenevolezza”, vanno evitati eccessi e deformazioni, tipi umani o nudi nerboruti, scorci reiterati, eccessivo contrasto tonale; Michelangelo, maestro del disegno “vigoroso e terribile”, è inferiore a Raffaello, invitto per grazia (“gentiluomini”), comunque superato da Tiziano, che “cammina di pari con la natura: onde ogni sua figura è viva, si muove e le carni tremano” e “nelle cose sue combattono e scherzano sempre i lumi con l’ombre”.
La revisione delle Vite di Vasari tiene dunque conto, nel 1568, delle obiezioni di Dolce, mentre la Maniera segue un inarrestabile processo di accademizzazione che è carattere dominante della trattatistica “manieristica” (Schlosser) di secondo Cinquecento, debordante e lontana dagli agili pamphlet di Alberti o Dolce: dal Primo libro del trattato delle perfette proporzioni di tutte le cose che imitare e ritrarre si possono con l’arte del disegno (1567) di Vincenzo Danti, divulgatore di un magistero “normalizzato” di Michelangelo; a Giovan Paolo Lomazzo con il Trattato dell’arte della pittura, diviso in VII libri (1584), l’Idea del tempio della pittura e Della forma delle Muse (1591); fin all’Idea de’ scultori, pittori e architetti (1607) di Federico Zuccari.
Antonio Possevino
Societatis Iesu Tractatio de Poësi et Pictura ethnica, humana et fabulosa collata cum vera, honesta et sacra
Somiglianza della pittura con la poesia. Il suo fine, le sue armi.
Gli stessi precetti e norme che si addicono alla poesia si addicono alla pittura; ma a questa tanto di più quanto è più vero ciò che ha detto Orazio: “Le cose che entrano per l’orecchio impressionano l’animo più debolmente di quelle che si offrono alla fedele testimonianza degli occhi e che lo spettatore percepisce direttamente”. D’altronde, la pittura è arte imitatrice come la poesia; e come la penna emula il pennello, così il pennello la penna, al punto che l’uno e l’altra si prestano vicendevolmente il frutto delle proprie fatiche. “La poesia – dice sempre Orazio – è come la pittura: c’è quella che ti prende di più se la guardi da vicino, e quella che è più godibile da lontano”. […] È anche identico il fine di entram-be, che è duplice: l’utilità e il diletto. Le scienze poi e un’informazione quasi enciclopedica sono necessarie all’una e all’altra […]. Tuttavia la pittura riceve grandi aiuti dall’aritmetica, dalla geometria e dall’ottica; […]. Da ogni ramo della filosofia, e specialmente dalla morale, deve prendere aiuto il pittore, giacché rappresentare l’animo ed esprimere tutti i sentimenti e i turbamenti e gli altri affetti procura somma lode alla pittura.]
Testo originale:
Pictura similis Poësi. Eius finis. Praesidia unde.
Quae poëticae, eadem picturae conveniunt monita et leges; at huic tanto ma-gis quanto verius est quod dixit Horatius:
Segnius irritant animos demissa per aurem
quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quae
ipse sibi tradit spectator.
Porro imitatrix poëtica, imitatrix et pictura, et ut calamus penicilli, sic penicil-lus calami aemulus, ut utrique invicem sibi suorum laborum commodent usum.
Ut pictura (inquit idem Horatius) poësis:
erit quae, si propius stes,
te capiat magis; et quaedam, si longius abstes.
[…] Finis item utrique idem, qui duplex, utilitas et iucunditas. Scientiae au-tem ac propemodum omnium notitia rerum utrique necessariae […]. Ab ari-thmetica tamen ac geometria, qui net ab optica, magnas accipit pictura com-moditates; […]. Ex omni autem philosophia, sed praecipue ex morali, prae-sidium pictori accersendum est, cum animum pingere ac sensus omnes ex-primere et perturbationes atque alias animi affectiones summam picturae conciliet laudem. […]
in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Torino, Einaudi, 1971
Rifacendosi a teorie cosmologico-astrologiche ficiniane e al “magico” con cui Agrippa di Nettensheim (1486-1535) crede di superare le aporie aristoteliche, Lomazzo imbastisce una “metafisica” per cui, simbolicamente, l’arte è un tempio retto da sette governatori (Michelangelo, Gaudenzio Ferrari, Polidoro, Leonardo, Raffaello, Mantegna e Tiziano), ognuno detentore della perfezione per un settore dell’arte e sotto l’influsso di un pianeta. Se la bellezza ideale si frange in una pluralità di modelli tutti degni d’imitazione, non esiste l’unicum di perfezione stilistica, bensì maniere individuali che dicono l’identità del temperamento ispirato dell’artista. Fortuna prebarocca hanno, di Lomazzo, l’esaltazione della figura serpentinata e la digressione storiografica sulla trattatistica d’arte, la cui “bibliografia ragionata” è oggetto d’integrazione nella Tractatio de Poësi et Pictura ethnica, humana et fabulosa collata cum vera, honesta et sacra (1595) del gesuita Antonio Possevino (1533/34-1611).
Celebri, di Federico Zuccari, la Lettera a prencipi et signori amatori del dissegno, pittura, scultura et architettura. Con un Lamento della Pittura (1605), il trattato d’impostazione neoscolastica L’idea de’ pittori, scultori et architetti (1607) e le tornate da console nell’Accademia romana di San Luca (1593-1594), che Romano Alberti (già autore di un giovanile Trattato della nobiltà della pittura, 1585) registra nell’Origine e progresso dell’Academia del Dissegno de’ pittori, scultori et architetti di Roma(1604).
La tendenza alla codificazione si accentua, anche in architettura, nelle Regule delli cinque ordini (1562) di Jacopo Barozzi detto Il Vignola che, ispirandosi a un Serlio meno vitruviano, fissa i rapporti di grandezza fra le parti della colonna, e nel Trattato di architettura (1566) di Alvise Corner o Cornaro (1475-1566), che preferisce solidità a venustas e riflette sulla dialettica architettura-paesaggio. Vitruviani e classicisti sono invece I quattro libri dell’architettura (1570) di Andrea Palladio, decisivi – nel confronto di luoghi, forme e funzionalità tra edifici antichi e moderni – per l’architettura civile, sacra e teatrale, come per la pianificazione di città, ponti e prigioni, e l’Idea della architettura universale (1615) di Vincenzo Scamozzi, enciclopedici ed onnicomprensivi in dieci volumi, con premesse teoriche, notizie bibliografiche (leggi sulla costruzione della città), esempi stranieri e indagine antiquaria (villa di Plinio, “gallerie” moderne, disposizione museale).
Fortemente precettistico, il côté controriformistico della trattatistica ribadisce solennemente quanto sancito nella sessione di chiusura (XXV) del concilio tridentino: esaltato l’uso cultuale delle immagini, a essere promossa è un’estetica d’intensa devozione ed inclinazione ascetico-moraleggiante, epurata da “lascivia”, “bellezza procace”, incongruenze d’ordine teologico. D’intransigente dogmatismo, il Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa le istorie (1564) di Giovanni Andrea Gilio (?-1584): ostile a deviazioni, oscuri allegorismi, torsioni e oscenità, stigmatizza il Giudizio di Michelangelo, mentre il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597) nel Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582) auspica un Index (mai realizzato) delle pitture proibite: “pagane, superstiziose, eretiche”; ma anche, per principi gesuitici di veridità storica e moralità edificante, “inverosimili, ridicole, mostruose, prodigiose, grottesche, sproporzionate”. Afflato pedagogico hanno pure le Instructiones Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae (1577) di Carlo Borromeo e i trattati De’ veri precetti della pittura libri III (1586) di Giovan Battista Armenini, seguace del manierismo centro-italico di Vasari, ma consapevole della decadenza coeva della pittura, e Il Riposo, in cui della pittura e della scultura si favella (1584) di Raffaello Borghini (1537-1588), suggellati dalla palinodia (Lettera scritta agli accademici del disegno l’anno 1582 con la quale mostra quanto sia pericolosa cosa all’anime degli artefici di pittura e scultura l’esercitar l’arte loro in rappresentazioni meno che oneste) di Bartolomeo Ammannati che dei nudi creati eleggerebbe – non senza autobiografismo lirico – la censura.
Ekphrasis e letteratura delle immagini
Paolo Giovio
Raphaëlis Urbinatis vita
[Del resto in ogni genere di pittura mai venne meno alle sue opere quella par-ticolare bellezza che chiamiamo grazia; benché qualche volta egli sia stato ec-cessivo nel rilevare i muscoli delle membra, mostrando troppo ambiziosa-mente di anteporre la forza dell’arte della natura. Neppure sembra che abbia osservato esattamente le regole della prospettiva; ma nel tirare le linee di con-torno e insieme di saldatura tra le varie zone di colore e nell’addolcire e fon-dere l’asprezza di colori troppo vivaci riuscì, da artista amabilissimo qual era, a ciò che era solo mancato al Buonarroti, cioè ad unire a pitture sapientemen-te disegnate l’ornamento luminoso e resistente dei colori ad olio.]
Testo originale:
[…] Caeterum in toto picturae genere numquam eius operi venustas defuit, quam gratiam interpretantur; quamquam in educendis membrorum toris ali-quando nimius fuerit, quum vim artis supra naturam ambitiosius ostendere conaretur. Optices quoque placitis in dimensionibus distantiisque non sem-per adamussim observans visus est; verum in ducendis lineis, quae commis-suras colorum quasi margines terminarent, et in mitiganda commiscendaque vividiorum pigmentorum austeri tate iucundissimus artifex ante alia id prae-stanter contendit, quod unum in Bonarota defuerat, scilicet ut picturis erudite delineatis etiam colorum oleo commisto rum lucidus ac inviolabilis ornatus accederet. […]
in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Torino, Einaudi, 1971
Pietro Bembo
Lettera a Bernardo Dovizi
Scritti d’arte del Cinquecento, Vol. V
[…] Deh, Monsignor mio caro e dolce, come ho io a fare? Io vorrei doman-darvi una grazia, e temo di non essere presontuoso. […] La grazia dunque, che io da voi disidero, è questa: che non si essendo per Rafaello da Urbino potuto dar luogo alla Venerina marmorea, che ‘l sig. Giangiorgio Cesarino vi donò, nella stufetta nuova a cui voi assegnata l’avevate, siate contento di do-narla a me, che la terrò carissima, che la porrò nel mio camerino tra ‘l Giove et il Mercurio, suo padre e suo fratello, che me la vagheggerò ogni giorno molto più saporitamente che voi far non potrete per le occupazioni vostre et infinite; che ve la serberò fedelmente, et ogni volta che vorrete ve la potrete ritorre e ripigliare; il che non averrebbe se essa andasse in mano d’altri, come necessariamente andrà se ella non viene alle mie. […]
P. Bembo, Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Torino, Einaudi, 1971
Pietro Aretino
Lettera a Paolo Giovio
Scritti d’arte del Cinquecento
[Sul paragone ‘storia’ degli annali di Giovio e ‘pittura’ di Michelangelo] […] Legga pur sì fatti annali chi vol vedere deliberare a la necessità, risolvere al dubbio e consultare a l’occorrenza con quei tratti, con che Michelangelo divino tondeggia le linee e distende i colori. Scolpite voi il grave, il terribile e il venerabile ne le figure de l’istoria vostra; onde se li potrà ben dire testimo-nio dei tempi, luce de la verità, vita de la memoria, maestra de la vita e nunzia de l’antiquitade […]
P. Aretino, Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Torino, Einaudi, 1971
Michelangelo Sermartelli
Composizioni di diversi autori in lode del ritratto della Sabina scolpito in marmo dall’eccellentissimo M. Giovanni Bologna, posto nella piazza del Serenissimo Gran Duca di Toscana
[IV. Vincenzio Alamanni]
Mentre io miro il bel marmo e scorgo in esso
d’alta prole infiammar giovin desio
casta donna a rapir, rapirmi anch’io
sento dentro e di fuor dal marmo istesso.
Ma se spirto hai ‘n un sasso e moto impresso
vivace sì, gentil Bologna mio,
ben dee securo dall’eterno oblio
vivere il nome tuo lungi e d’appresso.
Tre volti ivi spirar sembrano in vista,
desio, tema, dolor, voce alta e chiara
di chi preme e chi sfugge e chi s’attrista.
Onde il Gran Duce pio, ch’opra sì rara
saggio conosce, onor sommo le acquista;
stupisce anco a guardar la gente ignara.
[V. Bernardo Davanzati]
Rapir pien di desire e di sospetto
sovrumana beltà giovine ardente,
lei contorcersi e strider veramente
giurano i sensi e ‘l crede l’intelletto;
altri d’antico gelo il cor ristretto
caderne a terra attonito e dolente.
Ma non s’asconde all’erudita gente
di tanta finzïon l’alto concetto.
La gloria dell’intera arte divina
espressa nel triforme simulacro,
idea e norma a tutti i grandi artisti,
è, Gian Bologna mio, la tua Sabina.
Di quella ardesti; il lungo studio e macro
è il vecchio padre a cui tu la rapisti.
[VII. Cavalier Gualtieri]
“Giove, la tua pietà dall’empia mano,
che oltraggio e forza al mio bel corpo face,
salva mi renda, e del garzone audace
spenga il foco e ‘l desio caldo ed insano”.
“Misero me, che aita chieggio in vano,
e in van, figlia, mi sdegno; oggi al ciel piace
che per alta cagion laccio tenace
stringa insieme il sabin sangue e ‘l romano”.
Queste voci udirà chi intento mira
il marmo, che scultor illustre pose
d’Etruria in mezzo a la più altera parte.
Febo, il cui raggio il mondo alluma e gira,
vedeste mai fra le più rare cose
di natura maggior possanza, e d’arte?
M. Sermartelli, Composizioni di diversi autori in lode del ritratto della Sabina scolpito in marmo dall’eccellentissimo M. Giovanni Bologna, posto nella piazza del Serenissimo Gran Duca di Toscana, Firenze, Sermartelli, 1583
Massima adesione all’ut pictura poesis, l’ekphrasis (descrizione di opere d’arte in poesia e in prosa, “pensiero visivo”) è genere letterario prettamente cinquecentesco, parafrasi o persino traduzione stilistica del soggetto iconografico: “quidsimile verbale di una realtà visiva, che è la realtà pittorica di partenza”, di cui dà identiche suggestioni. Tra gli esempi più alti si annoverano: i passi critico-collezionistici di Giovio (Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus); le Notizie d’opere di disegno (1520-1540) di Marcantonio Michiel sulle collezioni di Padova e Venezia (villa Bembo, Wunderkammer di casa Odoni), con “scheda filologica” sul San Girolamo nello studio; le composizioni poetiche, laudative o critiche, di opere d’arte che, memori dell’accoglienza pubblica, fanno critica militante raffinata (sonetti, madrigali sul Ratto della Sabina di Giambologna, raccolti da Michelangelo Sermartelli, Composizioni di diversi autori in lode del ritratto della Sabina scolpito in marmo dall’eccellentissimo M. Giovanni Bologna, posto nella piazza del Serenissimo Gran Duca di Toscana, 1583); l’epistolografia artistica di Aretino (L’allocuzione del “divin Tiziano”, lettera ad Alfonso d’Avalos, 1540; la stroncatura dei nudi michelangioleschi del Giudizio “che farien non che altro chiuder gli occhi per vergogna ai postriboli”, lettera ad Alessandro Corvino, 1545-1547); l’influenza della letteratura periegetica (Francesco Albertini, 1469-1517/21, Memoriale di molte statue e pitture che sono nell’inclita città di Florentia e l’Opusculum de mirabilibus novae et veteris Urbis Romae, 1510; Francesco Sansovino, Venetia descritta, 1581; Francesco Bocchi, 1548-1613/18, Le bellezze della città di Fiorenza, 1591).
Originando dal “simbolo che figurativamente traduce”, la letteratura delle immagini coniuga, col gusto simbolico-magico per allegorie, personificazioni, enigmata e mysteria, universalità del linguaggio e polisemia figurale. Monumentale enciclopedia per eruditi in 58 libri, gli Hieroglyphica (1556) di Pierio Valeriano (1477-1558) reinterpretano l’iconologia paganeggiante in chiave ermetica (mito di Orfeo-Cristo) con echi negli omonimi ellenistici di Oropollo e nell’Hypnerotomachia Poliphili (1499).
Se all’emblematica – inaugurata dall’Emblematum liber (1531) di Andrea Alciato, con 212 emblemi su vizi e virtù e forte intertestualità disegno-epigramma – sottendono linguaggio criptico, uso del latino, contenuti morali ed emancipazione dell’immagine da margine a fulcro dell’emblema, le imprese, più divulgative, dicono la perfetta interdipendenza figura-parola: l’impresa perfetta esige – nel Dialogo dell’imprese militari e amorose (1551; a stampa, 1555-1556) di Giovio – giusta proposizione anima/corpo, motto/figura; mancanza di oscurità; bellezza iconica; esclusione della figura umana; motto breve in altra lingua. Larga la fortuna cinque-seicentesca dell’impresistica: Girolamo Ruscelli (1518-1566), Scipione Ammirato, Luca Contile (1505-1574), fino al dialogo Il Conte o vero de l’imprese (1594) di Torquato Tasso e l’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (1592-1675).
Cruciale, negli studi di mitografia ed iconologia, l’apporto dell’ut pictura poesis: attento a epigrammi, idilli e pratiche ecfrastiche greche, nel Mythologia (1551) Natale Conti (1520-1580) indulge ad allegorizzazioni moraleggianti e cristiane dei miti antichi, mentre le Imagini dei dèi de li antichi (1566) di Vincenzo Cartari, su base ovidiana, dilagano come repertorio iconografico per opere figurative. Alle soglie del barocco, vistosa è la fortuna dell’Iconologia (1593; illustrata, 1603) di Cesare Ripa, in cui le allegorie vincono gli emblemi.