Viaggio, letteratura di
Una nozione dall'incerto statuto
Il viaggio si offre alla letteratura come un tema di immensa potenzialità e produttività per la sua idoneità a combinare narrazione e descrizione, spazialità e diacronia, e anche per la sua disponibilità a infinite sfumature di metaforicità e allegoria e per la sua apertura a suggestioni referenziali le quali spaziano dal destino dei popoli all'avventura dell'individuo. Collocandosi all'incrocio fra reale e fantastico, fra verità e meraviglia, costituisce un patto testuale di 'accettabilità' del diverso e dell'inconsueto, entro cui trovano luogo delle modalità di scrittura che vanno dalla testimonianza autobiografica all'epica, dalla rappresentazione realistica e scientifica alla conversione romanzesca e alla trasfigurazione lirica. Da ciò scaturisce un'ampiezza di spettro che rende difficile identificare uno specifico univoco della letteratura di viaggio.
Può soccorrere, a tal fine, la ricorrente rappresentazione en abyme della scena del racconto di viaggio che si trova nei più importanti testi odeporici, e che aiuta a rintracciare costanti nonché a scandire mutazioni storiche. La costante principale consiste nella costituzione come voce narrante del viaggiatore stesso; una scelta che in prima istanza sembra dettata da un'esigenza di credibilità del racconto: solamente il viaggiatore può essere in grado di narrare un'esperienza che si colloca 'a distanza' dal destinatario; lo scontro con l'ignoto, con il diverso, è attestabile solo da chi, in prima persona, lo ha vissuto. Questo dato è significativo perché non riguarda soltanto le scritture di tipo informativo, che si possono iscrivere nella categoria generale delle 'relazioni di viaggio', ma ricorre (ed è fatto assai meno ovvio) anche nei testi, dichiaratamente o di fatto, finzionali: che proprio in quanto tali non dovrebbero avere alcun bisogno, in linea di principio, di giustificare la plausibilità del narrato.
Dall'Epopea di Gilgamesh all'Eneide virgiliana
La più antica scrittura tematizzata sul viaggio, l'Epopea di Gilgamesh, presenta l'eroe eponimo glorificato come 'uomo che conobbe i Paesi del mondo', che svelerà le 'cose segrete' che ha appreso dall'uomo-Dio "che chiamano il Lontano": i suoi viaggi sono raccontati epicamente in terza persona, ma il cantore ci informa che è stato l'eroe, al suo ritorno, a incidere su una pietra l'intera storia.
Ancora più esplicita è la delega del narratore al viaggiatore nel testo fondativo delle narrazioni di viaggio: l'Odissea omerica. Come è noto, per il racconto affascinante delle "prodigiose avventure" di Odisseo, Omero cede proprio a lui la parola per quattro interi libri (da ix al xii), quasi una sorta di callida cessione di responsabilità del narratore per rendere 'accettabili' contenuti così lontani dal reale conosciuto. La legittimazione del racconto sta nella sua poeticità, nella morfé epéon: la narrazione di viaggio, di un'esperienza altra, distante, sconosciuta all'ascoltatore e non verificabile, consente di mettere a fuoco la natura peculiare della 'finzione' artistica, distinta dalla eventuale 'falsità' del referente. Proprio da questa sottolineatura nacque una netta distinzione, nell'antichità, fra scritture di viaggio proiettate verso il racconto mitico o fantastico e 'relazioni' indirizzate a fornire conoscenza obiettiva di realtà sconosciute. Su questo versante la testimonianza del viaggiatore-scrittore diede luogo a testi descrittivi (i Peripli, le Periegesi), una sorta di diari di bordo i quali fondavano la geografia e abbozzavano anche un'informazione etnografica e antropologica. La stessa storiografia cercò legittimità presentandosi come basata su testimonianze raccolte direttamente attraverso percorsi nei luoghi delle vicende narrate.
Sul versante mitopoietico e fantastico l'eredità dell'Odissea venne raccolta dai due capolavori dell'epica alessandrina e di quella romana, le Argonautiche di Apollonio Rodio (dove l'eroe Giasone, in contrasto con il poliméchanos Odisseo, si caratterizza di fronte alle difficoltà del viaggio per la sua amechanía, indecisione e subordinazione al fato) e l'Eneide virgiliana, anche qui con significativi cambiamenti, perché al ritorno di Odisseo si contrappone - per così dire - un viaggio di 'andata', un itinerario ascendente e formativo il cui approdo è la fondazione di una nuova civiltà, la conquista di nuovi valori: preparando così gli sviluppi allegorici e trascendenti del tema nell'era cristiana.
Il viaggio, tuttavia, si dispose più compiutamente e pervasivamente come impulso e sostegno alla 'finzione' letteraria nel genere cui, con significativa improprietà per il mondo greco-romano, si è dato il nome di romanzo. Il viaggio ha innervato la narrazione non solo collocando in lontananze fantastiche la materia del narrato, ma sorreggendo, con la dinamicità costitutivamente insita al tema, l'intreccio: la peripezia di viaggio divenne nucleo fondante di una tradizione narrativa che ebbe lunghissimo seguito.
Il Medioevo: tra allegoria e 'meraviglia'
Il cristianesimo ha assunto il campo semantico del viaggio a significazione di un'esistenza umana concepita come transizione, come 'passaggio' terrestre verso Dio. "Io sono la via, la verità, la vita" dice Cristo nel Vangelo secondo Giovanni (14, 6). Il cristiano è viator anche in senso proprio: una nuova tipologia di viaggio, il pellegrinaggio, ha prodotto un'immensa fioritura di Itinerari latini che descrivono in forma di diario e/o di guida il percorso verso i luoghi santi (Gerusalemme, Roma, Santiago de Compostela): ma l'enfasi si è spostata dalla descrizione dei luoghi al significato mistico del percorso, avviando una tendenza all'uso allegorico del viaggio che trovò l'acme nella Divina Commedia. Il viaggio pervade e struttura in profondo il capolavoro dantesco a diversi livelli: come metafora dell'esperienza esistenziale del narratore (il "cammin di nostra vita", "di tua vita il viaggio"); come disegno fondante dell'invenzione narrativa, l'"altro vïaggio" escatologico, allegoria della progressiva acquisizione di conoscenza che conduce a Dio; come bagaglio linguistico e repertorio di immagini per la descrizione di un oltretomba che è, specie nelle prime due cantiche, perpetuo movimento di anime, demoni, angeli, figure magiche; come metafora infine della stessa scrittura del poema, raffigurata, per es., con originale riattivazione di un topos nautico antico, come navigazione di un legno che "cantando varca" (Par. ii, 3); ma anche, ancora una volta attraverso le parole del viaggiatore, come racconto: il viaggio dell'Ulisse dantesco oltre le colonne d'Ercole potrà ben essere "folle volo" (Inf. xxvi, 125), perché l'ardore "a divenir del mondo esperto" (v. 98) che lo muove è privo della grazia divina, ma questo non gli impedisce di divenire paradigma affascinante di un riuso moderno del tema che ne fa un segno di eroismo intellettuale, di laica passione conoscitiva e di sfida all'ignoto.
Non stupisce così che nella narrativa romanzesca il Medioevo abbia recuperato dai modelli 'pagani' antichi il tema del viaggio, sia come connotazione eroica del personaggio, sia come sostegno dell'impianto narrativo. La funzione fondante del viaggio per il consolidamento strutturale del genere romanzesco appare ben chiara nei capolavori di Chrétien de Troyes in cui il viaggio e le successive 'avventure' affrontate dal protagonista costituiscono una precisa concatenazione di eventi e sorreggono uno sviluppo narrativo che 'rappresenta' direttamente una ricerca, una quête, non più imposta dagli dei, ma volontariamente scelta dall'eroe come percorso formativo.
A partire dal 12° sec., all'uso finzionale oppure allegorico del tema si accompagnò una ripresa dello stimolo a narrare esperienze reali di viaggio, sempre più frequenti e impegnative sulla spinta di esigenze di mercatura, di religione oppure di diplomazia. La più celebre di queste narrazioni, Il Milione di Marco Polo, sembra invertire il rapporto fra viaggiatore e scrittore: qui è il viaggiatore a delegare allo scrittore di professione (ossia Rustichello da Pisa) il racconto. Nel particolare sistema di presentazione del testo che contraddistingue Il Milione, lo sdoppiamento tra la funzione testimoniale del viaggiatore Marco e la funzione espositiva-espressiva dello scrittore Rustichello finisce in realtà per produrre una compatta unità: il 'libro', soggetto autonomo e unico della narrazione. Per altra via, viene confermato il principio della necessaria unificazione fra viaggiatore e narratore del viaggio; con un risultato paradossale, caratteristico delle relazioni medievali: è la funzione creativa della scrittura, non solamente quella formale, a intrecciarsi strettamente e quasi a confondersi nel confronto con le meraviglie sconosciute dei Paesi lontani, con l'esperienza del reale. Come è noto, il viaggio di Marco Polo offre ragguagli sulle usanze della corte del Gran Kahn, e 'mette anche in ordine' tutta l'informazione utile al viaggiatore di mercatura, ma pure, senza alcuna soluzione di continuità oppure di scarto di registro, raccoglie e verifica le tracce di una tradizione letteraria fantastico-romanzesca, e raggiunge, o quanto meno colloca nella mappa dei suoi itinerari, i luoghi della geografia sacra, dalla valle dell'Eden al biblico regno di Gog e Magog. Per questa via, si comprende come un'invenzione fantastica come I viaggi di Mandeville abbia ottenuto credito di relazione di un vero viaggio e pure enorme successo per almeno due secoli. E non parrà assurdo se, come garantisce F. Colombo, la stessa impresa paterna della 'discoverta' americana, l'avvenimento che segna l'inizio dell'era moderna, aveva tratto, senza distinzioni, stimolo importante, se non determinante, dalla lettura di "Marco Polo viniziano e Gioan di Mandavilla".
Viaggi di esplorazione e viaggi fantastici
A prima vista il Giornale di bordo di C. Colombo sembrerebbe porsi, sia per l'ingenuità delle descrizioni sia per le frequenti concessioni al gusto del "meraviglioso", in continuità con le relazioni medievali. Furono però le nuove finalità perseguite - non più scambiare merci e ambascerie, ma "discuoprire e conquistare", come recita il mandato della regina Isabella - a mutare di segno al racconto dei viaggi in terre lontane. A questa svolta contribuì il mutamento sostanziale nei processi di ricezione dei testi letterari intervenuto con l'invenzione della stampa: il corpus imponente delle relazioni di viaggio cinquecentesche, tramandato da straordinarie imprese editoriali come quella di G.B. Ramusio, il quale a metà 16° sec. curò la raccolta, la traduzione, il commento e la stampa di una settantina di Navigazioni e viaggi, rispose all'esigenza di garantire a un pubblico vastissimo la verità delle straordinarie diversità narrate, spogliate di ogni risonanza leggendaria e descritte senza reticenze (con l'implicita funzione di incentivare e legittimare ogni processo di omologazione, violenta o "evangelica", di quelle diversità).
Per converso, i grandi viaggi rinascimentali stabilirono quella che E.J. Leed (1991) ha chiamato "una rifrazione culturale dinamica", deviando verso la civiltà europea e la sua identità moderna lo sguardo attivato dalle alterità e dalle lontananze visitate. Nacque così, o rinacque (un suggestivo precedente antico è la Storia vera di Luciano), il viaggio immaginario, il percorso in Paesi fantastici che nella loro patente artificialità adombrano, per contrasto o per enfasi paradossale, aspetti del qui e dell'ora europei: una linea che dal Quarto libro del Gargantua rabelaisiano attraversa i viaggi lunari di Cyrano de Bergerac per giungere alla narrativa 'filosofica' dell'Illuminismo, dai Viaggi di Gulliver di J. Swift al Micromega di Voltaire.
Ma è soprattutto sul terreno del romanzesco, in prosa e in versi, che il secolo delle grandi navigazioni e scoperte geografiche scoprì la funzione non meramente 'tematica' del viaggio, e ne fece anzi una struttura privilegiata dell'invenzione letteraria. Come osservarono già i commentatori contemporanei, L. Ariosto nell'Orlando Furioso non solo mette i personaggi vertiginosamente in moto per selve, per mari e fin sulla Luna, ma è esso stesso un poema "errante": come "chi va lontan dalla sua patria", il poeta vede cose sorprendenti, diverse dal vero quotidiano, e tuttavia il suo canto "non parrà menzogna"; sulla metafora del viaggio si fonda un meccanismo di piena legittimazione del "fingere" letterario.
Il viaggio come spunto di riflessione sulla 'diversità' del mondo
Fra tardo Cinquecento e Settecento, il campo della 'relazione' di viaggio si bipartì abbastanza nettamente in diretto rapporto al tipo di esperienze reali che vi si rifletteva. Da un lato c'erano i viaggi verso mete già conosciute, il cui fine era fondamentalmente un incremento di esperienza del viaggiatore: si generalizzò, per es., il fenomeno del Grand Tour, percorso europeo destinato a formare i rampolli dell'aristocrazia inglese (ma anche francese e tedesca). Dall'altro proseguirono, sino agli inizi dell'Ottocento, i viaggi di scoperta transoceanici, i giri del mondo alla ricerca di vie nuove e terre sconosciute, che produssero scritture di carattere soprattutto descrittivo, prive di ambizioni letterarie. E tuttavia fu proprio attraverso i rozzi diari di bordo dei Walter, dei Bougainville, dei Cook, dei La Pérouse, che si resero visibili, assumendo progressiva autonomia dalle scritture descrittive e relazionali del viaggiatore di mestiere, le implicazioni etiche, filosofiche, politiche del confronto con le estreme "diversità" del mondo. La finzione di un Supplément au voyage de Bougainville di D. Diderot segnalò materialmente il fenomeno del passaggio dal genere ecfrastico del voyage a una letteratura narrativa e filosofica che sfruttava la situazione del viaggiatore, la sua "dislocazione" in Paesi lontani, per esaltare, contro dogmatismi religiosi e razionalistici, il principio della relatività.
In questa direzione del resto l'ingegnoso stratagemma delle Lettres persanes di Montesquieu aveva già avviato un filone riflessivo e critico della finzione odeporica: collocando il viaggio nel Paese del destinatario del testo, sono 'straniate', e quindi rese visibili e messe in discussione, le usanze e le credenze di quest'ultimo. Ma il tema dell'allontanamento avventuroso e straniante sostiene anche la conversione realistica del romanzo, cioè il passaggio dal romance al novel. Il moderno romanzo borghese nasce in una delle isole australi visitate e descritte dai circumnavigatori del mondo, Juan Fernandez, scelta da D. Defoe per farvi naufragare il suo Robinson Crusoe ed epicizzare il percorso della middle class: l'accanito "desiderio di navigare", come pure la decisione della partenza, contro gli ideali di mediocre stabilità del padre di Robinson, rendono eroiche le virtù di intraprendenza e laboriosità che garantiscono all'individuo il successo.
L'interiorizzazione del tema del viaggio nel Romanticismo
La svolta moderna, che mosse dagli anni della Rivoluzione francese e si rafforzò nell'età romantica, consistette in una sorta di curioso divorzio fra l'esperienza reale del viaggio e le scritture che hanno un carattere propriamente letterario. L'osservazione delle caratteristiche dell'altrove visitato venne progressivamente rimossa dalle attenzioni della letteratura, e delegata allo sguardo scientifico (da L. Spallanzani ad A. von Humboldt a Ch. Darwin) o storico-artistico (da J. Burckhardt a J. Ruskin). Mentre l'evoluzione dell'impegno propriamente letterario, creativo e/o critico, venne segnata da una paradossale negazione dei dati che caratterizzano il referente: la mobilità e la spazialità. J.-J. Rousseau scrisse nelle sue Rêveries du promeneur solitaire (pubblicate postume nel 1782) che il movimento non deve venire dal di fuori, ma deve formarsi nella nostra interiorità. Al viaggio "in caccia di cognizioni e incrementi" L. Sterne sostituì il Sentimental journey (1768), "viaggio del cuore in traccia della natura e di quei sentimenti che da lei sola germogliano", "viaggio riposatissimo" per cui non sarebbe nemmeno necessario spostarsi dalla propria contrada. Qualche anno dopo J. De Maistre pubblicò un Voyage autour de ma chambre (1794), sostituendo alle coordinate geografiche quelle dell'immaginazione e della memoria.
L'interiorizzazione del tema promossa da Rousseau e Sterne stimolò altresì una forte valenza autobiografica in queste scritture. Ma il tragitto narrato non era più un'esperienza formativa, un acquisto di cognizioni che promuovesse la maturità: era piuttosto il rispecchiamento di una vocazione, l'esternazione di un'autenticità individuale già data, ma inespressa, soffocata dalla 'consuetudine giornaliera' del 'ristretto ambito familiare': sono parole dell'Italienische Reise (1817) di J.W. Goethe. Questa idea del viaggio come ritrovamento del proprio io più profondo ha attraversato il Romanticismo, sia sul versante finzionale (si pensi per es. all'Ofterdingen di Novalis, all'Ortis foscoliano e al Childe Harold's pilgrimage di G.G. Byron) sia nei testi memoriali e autobiografici (Chateaubriand, H. Heine, Stendhal). A segnare ancor meglio la perdita di referenzialità diretta del tema sta la larga presenza del viaggio nella letteratura del "fantastico", dalle sue origini "gotiche" alla sua piena espansione romantica. Dal viaggiatore osservatore illuminato e anche curioso si passò al "viaggiatore entusiasta" cui E.T.A. Hoffmann attribuì la narrazione di "storie meravigliose"; però si tratta di inquietanti meraviglie: le mete dei viaggi settecenteschi, reali o finzionali, assunsero improvvisamente nel nuovo secolo segno negativo e sinistro (si pensi all'orientalismo allucinato del Vathek di W. Beckford, all'Italia tenebrosa di tanti romanzi gotici, agli abissi marini e ai ghiacci polari di alcuni dei Racconti straordinari di E.A. Poe); più spesso, questi viaggi fantastici perdono ogni destinazione e si trasformano in erranze maledette, per mare (S.T. Coleridge, The rime of the ancient mariner, poema scritto nel 1797 e pubbl. in Lyrical ballads nel 1798), o per terre e attraverso il tempo (Ch.R. Maturin, Melmoth the wanderer, 1820), oppure in vagabondaggi infiniti.
Perdita dell'innocenza: il viaggio come naufragio
Appunto questa tensione estrema dell'immaginario odeporico, il distacco da ogni istanza di significazione del reale, segnala una crisi latente del mito del viaggio come scoperta dell'ignoto, e di conseguenza delle scritture di viaggio come rivelazione affascinante del nuovo e del diverso. L'età moderna aveva ormai esaurito le possibilità di discoverta aperte dall'impresa di Colombo: le desolate strofe della canzone leopardiana Ad Angelo Mai anticipano la perdita d'aura del viaggio nella modernità, esplicitata qualche decennio dopo da Ch. Baudelaire. Ancora una volta, la svolta fu rappresentata direttamente all'interno della scrittura. Le voyage, testo di chiusura di Les fleurs du mal (1857), mette in scena il dialogo fra gli "straordinari viaggiatori" e le "menti infantili" degli ascoltatori, e registra la vanità della speranza di "meraviglia" del racconto di viaggio, scrigno della "ricca memoria" da cui si attendono splendidi gioielli fatti d'astri e di eteri, e che si dichiara di contro "perpetuo notiziario della noia", resoconto del male di una "umanità ciarliera" uguale a sé stessa nella sua follia dovunque e in qualsiasi tempo.
Ma se il viaggio perse la capacità di "significare" il diverso, la realtà altra da noi, l'attenzione si spostò sulla difficile rappresentazione di questo inabissamento dell'io e nell'io che è l'unica "avventura" possibile dell'uomo moderno. Il Novecento si aprì con una sorta di "antiodissea", come qualcuno ha voluto definire Heart of darkness (1902) di J. Conrad: inaugurazione esemplare di una linea di testi che mettono en abyme il racconto di viaggio, illustrando la frustrazione del sogno infantile di esplorazione e di scoperta ma anche rinvenendo in questa testimonianza una funzione centrale della letteratura moderna. Se l'impresa consiste nel raggiungere la nostra immagine, oasi d'orrore nel deserto di noia che attraversiamo, protagonista di questa impresa è il linguaggio, la voce capace di "affrontare le tenebre", di affacciarsi oltre l'orlo dell'abisso per "dire" l'orrore.
La 'fine dei viaggi' e la rivincita della letteratura
Il secondo dopoguerra portò allo scoperto la consapevolezza della irreversibile mutazione socioantropologica subita dal viaggio nella modernità. Da un lato, i nuovi e veloci mezzi di trasporto riuscirono a eliminare difficoltà materiali, ridussero al contempo la fatica e i disagi dello spostamento, mutarono la percezione delle distanze; dall'altro, i luoghi di destinazione tesero ad assimilarsi, la fotografia e il cinema resero fruibili le immagini del lontano; e persero centralità quando non scomparvero elementi una volta fondanti del viaggio come l'aspettativa dell'ignoto e la scoperta del diverso: da impresa individuale il viaggio si trasformò in fenomeno di massa, si professionalizzò come settore del mercato creando strutture di addetti specializzati, diventò turismo.
È stato un grande antropologo a trasmettere meglio di tutti la presa di coscienza di questa epocale mutazione. C. Lévi-Strauss ha fissato nella formula La fin des voyages che intitola la prima parte di Tristes Tropiques (1955; trad. it. 1960) le conseguenze della "cristallizzazione monoculturale" del globo: quelli che erano un tempo "scrigni magici pieni di promesse fantastiche" ora possono soltanto rendere manifeste "le forme più infelici della nostra esistenza storica". Di fronte a questo amaro sapere (come lperaltro l'aveva chiamato Baudelaire) tratto dal viaggio moderno, l'antropologo è passato dall'iniziale stupore per la proliferazione e il "successo incomprensibile" dei racconti di viaggio alla considerazione della funzione sostitutiva e illusoria di queste narrazioni, "passione, follia, inganno", nostalgia delle diversità perdute che garantivano la vitalità della specie umana.
L'ultima generazione di scrittori di viaggio (P. Theroux, P. Matthiessen, B. Chatwin) verifica la desolata diagnosi di Lévi-Strauss. La nostalgia per il fascino dell'ignoto indirizza i percorsi verso le mete meno battute, le estreme periferie del globo, o si esprime direttamente come una sorta di archeologia del viaggio, come estremo tentativo di registrare, ripetendoli, percorsi leggendari, di salvare la memoria di creature, popolazioni, usanze in procinto di scomparire.
Ma anche il vagabondaggio di Chatwin si chiude con lo smarrito interrogativo del viaggiatore dei nostri tempi: What am I doing here? (1989) è il titolo della sua ultima raccolta. La risposta a questa domanda non proviene dalla letteratura, ma come letteratura. Nella suggestiva riscrittura fantastica del Milione da parte di I. Calvino (Le città invisibili) "tutte le città dell'Impero e dei reami circonvicini" sono ormai catalogate e descritte nell'atlante del Gran Kahn. E tuttavia quella mappa, la "breve carta" dell'Angelo Mai leopardiano che racchiude l'immaginario perduto dopo la scoperta di Colombo, ha la straordinaria qualità della letteratura: "rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome". E "il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere".
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