Letteratura e arti visive
Se il Novecento può dirsi il secolo delle avanguardie - nel senso che da esse derivano le sue espressioni meglio caratterizzanti il percorso della modernità -, dalla cultura avanguardistica riceve un'articolazione specifica il tema plurisecolare dell'intreccio, scambio, influenza reciproca tra parola e immagine, letteratura e arti figurative: insomma il tema delle 'arti sorelle' o dell'ut pictura poesis, come per secoli retori, scrittori e artisti hanno definito tale prospettiva interdisciplinare. È dalla fine del 19° secolo, quando l'arte moderna sancisce la rinuncia alla poetica del 'rispecchiamento', che l'immagine si rivela nuovamente nella sua radicale autonomia e alterità e la sua traducibilità nella parola si enfatizza come un processo di grande problematicità. Le immagini rendono ora visibile un senso che supera l'idea della realtà esterna e cerca di rinnovarsi in una dimensione peculiare, metastorica, sul filo di un'assoluta metaforicità. La strategia delle avanguardie - di quelle storiche e, con alcune varianti, anche delle neoavanguardie, soprattutto sul versante delle arti figurative - fu attiva proprio in direzione dell'elaborazione di linguaggi estetici capaci di cogliere e articolare tale metaforicità che, essendo il fondamento comune sia dell'immagine pittorica sia della parola letteraria, diviene la base per individuare e studiare differenze e intrecci fra i due linguaggi.
All'inizio degli anni Sessanta in Italia l'esperienza della neoavanguardia, all'interno di una ricerca febbrile e pervasiva di nuovi linguaggi artistici, enfatizzò l'istanza interdisciplinare, promuovendo la circolazione di categorie analitiche o metartistiche - si pensi a formule come il 'trionfo del significante' o la 'riduzione dell'io', o all'idea dell'elaborazione di un testo attraverso la manipolazione di linguaggi esistenti - nel lavoro di artisti e scrittori, da E. Baj a E. Sanguineti, da G. Pomodoro a N. Balestrini, da G. Paolini a E. Pagliarani, o di critici attenti alle esperienze sui due versanti, da R. Barilli a F. Menna, da G. Dorfles a U. Eco. Gli incontri del Gruppo '63, le analisi e i programmi ospitati in riviste come Il Verri (diretta da L. Anceschi), Grammatica (con A. Perilli, G. Manganelli, A. Giuliani, G. Novelli), Il Marcatré (con E. Battisti, E. Sanguineti, G. Dorfles, V. Gelmetti) riproposero tematiche trasversali, capaci di promuovere un rinnovamento radicale nelle varie discipline. Sul piano creativo la collaborazione tra scrittori e pittori spesso si limitò a un parallelismo di ricerche nei rispettivi linguaggi, ma le formulazioni in sede di dibattito teorico furono molto più ricche e (potenzialmente) fertili. Alcune formulazioni di Barilli - come quelle relative alla "rivoluzione gnoseologica" promossa dalle avanguardie in cui si afferma "un comportamento 'aperto', libero, sdegnoso dei conforti del buon senso e dei criteri di una sana amministrazione economica, esaltato e angosciato a un tempo dalla sua stessa libertà" (Barilli 1995, p. 234) - divennero prospettive entro le quali operò anche la ricerca delle arti visive; sulla stessa linea si collocano le tesi di A. Guglielmi, relative a una letteratura - un'arte - 'fredda', verso cui spingerebbero le filosofie del moderno: esistenzialismo (attento al valore dell'esperienza individuale della realtà, nel fluire di un'esistenza percepita nella sua parzialità e fenomenicità), fenomenologia (la descrizione rigorosa dei 'fenomeni' intesi come l'orizzonte su cui vanno proiettati i 'vissuti' soggettivi), psicoanalisi (l'analisi delle dinamiche della psiche tra 'inconscio', 'super io' censorio e normativo, 'io' dialettico e regolatore) sono tutte dottrine da recuperare strumentalmente, non perché propongono una nuova visione del mondo, ma perché consentono di svincolare la realtà da ogni schema dell'ideologia e della tradizione, per isolarla in un'oggettività inerte ma pura.
Quando venivano proposte queste tesi, alla metà degli anni Sessanta, la cultura visiva internazionale si muoveva a partire dalle esperienze dell'informale (sperimentazione attorno alle possibilità espressive ed emotive della materia, tese al superamento dell'immagine tradizionale: tanto dell'immagine astratta, come pura forma trascendente il fenomeno, quanto dell'immagine naturalistica come effigie o simbolo); ciò conduceva a uno smontaggio dell'arte tradizionale, a beneficio di un'apertura degli spazi e dei limiti entro cui l'artista poteva attuare i suoi processi critico-creativi. Solo se inquadrati in questa ricerca globale di rinnovamento dei linguaggi estetici, che investe anche la letteratura, la musica, il teatro, si comprendono appieno i nuovi indirizzi di ricerca proposti da movimenti quali l'Arte povera (fondata sull'evento mentale e comportamentale, sul contingente, su una riscoperta dei valori antropologici del gesto artistico, ai fini di spogliare l'immagine di ogni sua ambiguità e ideologicità: Celant 1969), la Pop Art (l'immersione nella "volgarità scrosciante d'energie" della contemporaneità storico-sociale come unica prospettiva per uscire dalle ambiguità dell'ideologia artistica tradizionale e rinnovare le dinamiche creative, attenti preliminarmente a considerare tutti i modi dell'esperienza quotidiana in termini di potenziale estetico: Boatto 1967), la Land Art (l'artista avverte il bisogno di far ritorno a un oggetto naturale o quanto meno ricavato direttamente dall'ambito naturale: Dorfles 1973), la Body Art (il recupero, spesso esasperato, di una dimensione fisica, corporea della creatività: il corpo dell'artista diviene la risorsa principale della sua ricerca, la fonte di nuovi mezzi espressivi, spesso nel tentativo di un superamento dei limiti imposti a ogni essere umano: Rainer 1968) ecc. In questa prospettiva tali esperienze artistiche possono correlarsi con i paralleli fenomeni letterari. Così per l'intensa e variegata stagione degli scrittori beat negli Stati Uniti o per la ricca esperienza del nouveau roman francese (M. Butor, A. Robbe-Grillet) parallela, per vari aspetti, a quella del nouveau réalisme, nato alla fine degli anni Cinquanta: le loro poetiche postulano in sostanza una nuova oggettività, a partire dall'enfatizzazione o dall'accumulazione degli oggetti, che fanno emergere in modo nuovo e talora imprevisto le proprietà che a essi già appartenevano.
Anche nella Germania dell'immediato dopoguerra il Gruppo 47 aveva raccolto scrittori come G. Grass, H.M. Enzensberger, P. Weiss, H. Böll e altri attorno a un ideale rinnovamento dei temi e dei linguaggi della letteratura; contemporaneamente, attraverso gli anni Cinquanta e Sessanta, gli artisti visivi, tra cui Wols, B. Bachem, W. Vostell, J. Beuys, P. Brüning, operano, con tecniche e poetiche diverse (dall'astrattismo al pop, dall'espressionismo al concettuale e allo happening), per ridefinire i codici e gli statuti della pratica artistica.
Una tendenza della ricerca sull'espressione e sulla comunicazione verbale ed extraverbale, a lungo attiva nella cultura europea, è quella che ispira le sperimentazioni di una letteratura tesa ad ampliare le proprie risorse linguistiche ricorrendo a strumenti tipografici o a elementi 'visivi' della pagina scritta. Ci si riferisce a quella variegata gamma di 'scritture' presentate con l'etichetta della 'poesia visiva', di cui ricordiamo protagonisti, nei primi anni Sessanta, il gruppo fiorentino guidato da L. Pignotti ed E. Miccini, e quello napoletano con L. Caruso e F. Piemontese. Il Gruppo '63 ospitò anche gli esperimenti dei collage di N. Balestrini, R. Pedio e M. Diacono: i materiali della poesia visiva sono ideogrammi, lettere alfabetiche, corsivi, arabeschi, immagini, geroglifici, combinati in modo da scuotere il linguaggio e la lettura d'uso abituale. A volte i caratteri di stampa mantengono la loro funzione significante e il loro senso si intreccia con quello delle immagini che interrompono la 'linearità' della scrittura; in altre occasioni la componente tipografica è isolata e destrutturata per offrirsi nella sua pura realtà visiva. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta si accostarono a questo tipo di sperimentazione molti pittori, da G. Novelli a G. Baruchello, da M. Rotella a L. Patella.
Già nel 1945, in Francia - che pure, ai primi del secolo, aveva visto nascere i calligrammi di Apollinaire o le invenzioni dei surrealisti e dei dadaisti - il movimento del Lettrismo, fondato da I. Isou, rivendicava il valore in sé della lettera dell'alfabeto, indipendentemente dalla parola che la ospita. A questo precedente si richiama la poesia concreta, che polverizza radicalmente il 'significato' del segno verbale per enfatizzarne la componente visiva, tipografica. Lo scopo è quello di attivare simultaneamente la funzione semantica ed estetica della parola, sulla base di un'utilizzazione contemporanea di tutte le dimensioni materiali degli elementi linguistici, i quali possono anche apparire spezzati in sillabe, suoni, morfemi o lettere (Bense 1965); nella dialettica tra parole e immagini, né le prime debbono fare da commento alle seconde, né queste da illustrazione alle prime: la poesia visiva pretende un'interazione totale tra i due codici, da cui nasca un senso unitario, integrativo dei due livelli espressivi (Pignotti 1968).
Questa strada di ricerca poetica, come d'altronde quella del mistilinguismo e di molte altre tecniche che la neoavanguardia farà proprie, era già stata percorsa in Italia da E. Villa, poliedrico scrittore e critico, autore di alcune rilevanti scoperte di artisti italiani, primo fra tutti A. Burri. Oltre ai testi creativi, risultano fondamentali ai fini del nostro discorso alcuni suoi studi critici. Accanto a saggi d'impostazione più tradizionale, Villa ha composto pagine (Attributi dell'arte odierna: 1947/1967, 1970) che esibiscono un'affascinante scrittura tra il descrittivo e l'evocativo, quasi dei poèmes en prose. La parola, in questa prospettiva, acquista il ruolo di un segno analogo a quello figurativo, polisemico, in grado di 'significare' sul piano del ritmo sintattico, delle scelte lessicali, del fitto intreccio di connotazioni. La costruzione verbale sui valori visivi del testo letto non è mai di sostituzione e di rimozione della specificità linguistica dell'immagine, ma piuttosto di trasposizione di dinamiche dallo spazio pittorico a quello linguistico; una sorta di messa in scena di figure che si compie grazie a un linguaggio che evidenzia le sue contingenti condizioni strutturali, piuttosto che significati e referenti allotri: un linguaggio che insomma parla del suo farsi progressivo, del suo articolarsi lì, in quel momento, in una contingenza in cui si rivelano stratificazioni culturali oltre che emotive. Scrive Villa di Burri (1970, p. 44): "Nostra dimessa cosmogonia, elegiaca esterrefatta composita, epos per istantanee, tragedie quotidiane, miniatura rapsodica delle grandi formazioni del tempo, avvenute senza traccia o eventuali, il grande sangue [...] Burri Alberto coltiva come in vitro, anzi come in lino, queste contrattili anatomie di organismi inespressi [...]".
Se si considerano le date e, per alcuni versi, anche le tecniche, Villa è un trait-d'union tra le avanguardie storiche e le neoavanguardie. Ben rappresenta, in ciò che recupera dal futurismo e dal surrealismo, la ricerca della 'traduzione' verbale di quella che l'ermeneutica definirà la condizione "senza-nome, senza-linguaggio, a-fona e silenziosa" (Boehm 1986, p. 110) dell'immagine, l'indistinguibilità tra essere e apparire che la caratterizza. È questo in fondo il problema centrale della sperimentazione futurista e del connubio da essa praticato e promosso tra le due arti.
La poetica 'antipassatista', antipositivista e antirealista, delineata dal futurismo, tesa ad accogliere i nuovi linguaggi capaci di esprimere e rappresentare l'inedita visione del mondo propria della nascente società industriale e tecnologica, rappresenta l'orizzonte su cui si incontrano le tavole parolibere di F.T. Marinetti, i simultaneismi e dinamismi di U. Boccioni e le tensioni deformanti di C. Carrà. L'opera di A. Soffici - il fondatore di Lacerba - propone in modo esemplare gli scambi tra i due linguaggi. Il suo lavoro sulla scomposizione e sulla simultaneità - temi tipici della teoria futurista - è alla base sia di opere pittoriche sia di un testo letterario, del 1915, che reca un riferimento proprio alla tecnica visiva: BÏF§ZF+18. Simultaneità. Chimismi lirici. E quando, nel 1920, la sua pittura si rivolgerà a modi compositivi più solidi e realistici (teorizzati nel manifesto Richiamo all'ordine), quasi una legittimazione di questa svolta sarà fornita da Soffici anche in testi letterari ispirati a un ritorno classicista. Ecco come nell'Arlecchino, del 1914, aveva proposto il tema del suo modo di frequentare i due linguaggi: "Oggi capisco che anche l'essere e il non essere si risolvono nel divenire. Sì, tutte queste forme, questi colori, questi suoni, questi odori, non son cose diverse in sé stesse, ma vivono tutte in una divina fluenza infinita!".
Non dissimilmente la ricerca di una percezione 'autentica' dietro la realtà fenomenica si riproponeva nell'universo onirico del surrealismo che si tradusse in Italia, negli anni Venti e Trenta, sia nelle mitologie di G. De Chirico sia nelle storie in cui divinità pagane si mescolano agli uomini, narrate da A. Savinio; e ancora, in quest'ultimo, trova espressione tanto nell'opera pittorica (i ritratti di genitori trasformati in poltrone e in divani) quanto nella narrazione della 'tragedia' di un'infanzia vittima del mondo degli adulti.
Su un versante culturale completamente diverso - quello formatosi nella temperie della prosa d'arte fiorentina e della tradizione espressionista - si colloca lo scrittore d'arte forse più importante del nostro Novecento, R. Longhi, fondatore della rivista Paragone nel 1950, maestro di scorci storiografici, di deduzioni attributive e di analisi suggestive tra gli anni Venti e Quaranta. La critica longhiana si svolge al confluire di diverse riflessioni sull'arte: quella della storiografia artistica rinsaldata dalla filologia e dall'attribuzionismo sette-ottocentesco, quella dell'indagine sulle tecniche del laboratorio artistico, quella di una letteratura che racconta i soggetti della pittura, ne drammatizza le scene e i personaggi. In tale intreccio di prospettive si realizza l'orditura della prosa longhiana, dove lo spessore del linguaggio testimonia proprio la stratificazione delle tradizioni diverse e da queste riceve una peculiare dinamicità. Il linguaggio di Longhi è frutto di una raffinata tecnica letteraria. Lo caratterizzano le serie dei deverbali, aggettivi verbali, sostantivi con alterazioni suffissali, sequenze nominali, l'uso dell'astratto come "possibilità di enucleare dall'interno medesimo della mimesi descrittiva, nel dettaglio via via messo a fuoco, le categorie generali di una caratterizzazione stilistica" (Mengaldo 1975, p. 275). Insomma una strategia di scrittura che G. Contini così descrive: "il reale sarà addotto per metafora dei valori formali e le apparenti 'trascrizioni' o 'traduzioni' [...] saranno un adempimento storico dell'esperienza figurativa pura, una sorta [...] di correlativo oggettivo" (1972, p. 115). D'altronde lo stesso Longhi ebbe a scrivere, inaugurando Paragone, che "la buona critica si nasconde piuttosto entro la vicenda semantica dei vocaboli che in altro".
A conti fatti, la scrittura 'letteraria' di Longhi si pone come strumento indispensabile della 'scienza' critica, e mette a disposizione della lingua le più ampie risorse dell'ermeneutica dell'immagine. O. Calabrese ha così illustrato la peculiare situazione dei testi letterari che nascono a ridosso di un testo pittorico: "sarà l'insieme delle relazioni istituite nel quadro che consentirà un avvicinamento più o meno preciso al racconto stesso. In qualche caso il potenziale narrativo resterà volutamente vago, come quando si vuol dare proprio la sola idea di una possibilità di narrare [...]. In altri casi, le relazioni fra oggetti sono talmente esclusive che per successiva interferenza è possibile invece stabilire un intero arco narrativo, magari passando per un insieme di tensioni prodotte nel quadro" (1985, p. 41).
Il problema non è certo nuovo nella tradizione della nostra cultura. Solo per rimanere nell'ambito della modernità, ne è una dimostrazione interessante l'approccio al testo pittorico di un letterato duttile e bizzarro come V. Imbriani, testimone attento delle ricerche espressive dei macchiaioli. In Critica d'arte e prose narrative (del 1868) elabora una "teoria della macchia" ("è il ritratto di una prima impressione lontana di un oggetto [...] il terminare un quadro non è altro che un ravvicinarsi sempre più all'oggetto") che, da un lato, riprende le suggestioni coloristiche e impressionistiche di certa letteratura scapigliata, da un altro anticipa quasi un approccio intuizionistico ("è tutta la scena, nel suo indefinito, che ci comunica la gran forza del sentimento"), per cui Croce notava come, nel rapporto tra racconto e macchia, fosse riproposto il rapporto tra idea e forma. La macchia - scriveva infatti - è nient'altro che l'essenza del fatto estetico, l'intuizione: in tal modo riconduceva la particolare prospettiva alla propria teoria estetica, identificando nel minimo dato visivo (appunto 'la macchia') una 'figura' dell'intuizione lirica, fondamento dell'arte. Questo procedimento è caratteristico del pensiero crociano. In esso il rapporto tra le arti si riformula all'interno del valore del bello poetico-lirico; ciò che attinge a tale valore va annoverato nella poesia, mentre la distinzione 'tecnica' tra letteratura e pittura è un momento successivo, in qualche modo sussidiario dell'altro, e cioè della fase che concerne la storia dell'arte e dei suoi modi espressivi.
La celebrazione della bellezza come forma pura, se sul versante artistico si articolava nel dibattito attorno alle tesi della 'pura visibilità' (cioè il passaggio "dall'osservazione delle forme all'osservazione della forma", come scriveva B. Berenson), sul versante letterario approdava al dannunzianesimo coniugato in tutte le forme del culto del Bello. A. Conti è il personaggio chiave di questo modo di intrecciare una 'visività' alta e allusiva con una letterarietà dalle stesse caratteristiche. In un saggio del 1910 sull'Adorazione dei magi di Leonardo procede a una resa letteraria del dato pittorico che, se non consente l'esplicazione convincente della tecnica in atto (per es., nulla dice sul chiaroscuro leonardesco come elemento di radicale novità nella tradizione del tema), delinea una superficie dove si colgono evocazioni di momenti dinamici e suggestioni psicologiche. In D'Annunzio, nelle sue pagine affollate di cose e d'immagini, l'oggetto ha sempre due facce, quella del lavoro umano che lo ha forgiato - ma un lavoro sottratto alla quotidianità e assunto a un valore estetico senza tempo - e quella dell'aura di indefinibilità, di retorica dell'indistinto che gioca a un effetto di inconoscibile, sanzione di un mistero che la letteratura celebra ed enfatizza.
Ma gli intrecci tra le arti, nella direzione della ricerca decadente di un sublime rinvenuto in un estetismo ammantato dal mito, erano già stati tipici dell'esperienza romana de Il Convito. Attorno alla rivista diretta da A. De Bosis, che aveva iniziato le pubblicazioni nel 1895, si riunì un circolo di letterati e critici d'arte (G. D'Annunzio, E. Scarfoglio, A. De Carolis, A. Venturi) tesi a promuovere un estetismo antipositivista e antiborghese; analogamente lavorava un gruppo di artisti che annoverava, tra gli altri, F.P. Michetti e G.A. Sartorio. A questo ambito appartengono alcune esperienze che consentono di seguire quasi in parallelo i due itinerari creativi: è così, per esempio, che nelle decarolisiane Meditazioni d'arte (1901) l'ambientazione veneziana del romanzo Il fuoco (1900) di D'Annunzio si riflette in un elogio della città lagunare, dove "l'anima più tenacemente perfida trova il suo spettacolo di sangue; quella più terribilmente voluttuosa le più belle carni da inebriarsi".
Nella seconda metà del secolo, sono esemplari di un atteggiamento analitico rivolto a una peculiare scomposizione di un testo pittorico i saggi del romanziere francese M. Butor. Egli, nei suoi Saggi sulla pittura - editi in Francia nel 1968 - analizza minuziosamente un quadro o una serie (da P. Picasso a P. Mondrian, da C. Monet a M. Rothko) per portare alla luce il senso profondo delle scelte espressive di ogni autore, con una particolare attenzione alle dinamiche storiche che caratterizzano i temi e i personaggi delle opere. Il suo commento a L'embarquement de la reine de Saba di C. Lorrain mette in atto una sorta di smembramento della superficie omogenea del quadro, riducendola a un puzzle di sequenze animate e simulando un intreccio di voci che prendono la parola alternativamente per riferire dal vivo ciò che accade nel quadro (Bolzan 1994); un procedimento che ridisegna i tempi e i movimenti all'interno dello spazio pittorico ed enfatizza la peculiare architettura del testo visivo, sostanzialmente irriducibile alla linearità del piano narrativo. È stato scritto che, in un simile procedimento, si trova definita l'inesistenza di una linearità del discorso: l'esuberanza del sistema pittorico determina un tipo di testo che procede per stratificazione, per spessori, dunque rifiutando una vera e propria catena sintagmatica (Schefer 1969).
L'analisi semiotica del sistema di segni costituito da un dipinto, se da un lato talvolta permette di stabilire equivalenze con sistemi verbali e possibilità dell'uso delle medesime categorie analitiche per i due diversi linguaggi (si veda, per es., la riflessione condotta da F. Menna a partire dalla tesi, barthesiana, della centralità del sistema verbale quale modello di razionalizzazione degli altri sistemi semiotici), dall'altro rivela però incompatibilità e differenze radicali. Il modello del codice figurativo non può naturalmente essere né la parola né la frase. È stato sottolineato come la superficie, in tutto o in parte, sia un sistema di costrizione formale e possa essere rappresentata dalle relazioni di dipendenza interna, gerarchizzata, degli elementi che la compongono. Su questa inconciliabilità tra i due linguaggi ha lavorato, in tempi recenti, l'ermeneutica, che ha descritto le condizioni di specifica significatività e rappresentatività dell'immagine. Ha osservato G. Boehm (1986) che il concetto di segno delle scienze del linguaggio si attiene alla considerazione della lingua come respiro fonetico, di fronte al quale la scrittura come l'immagine nel migliore dei casi assumono la funzione di servire a una codificazione. In una simile prospettiva, non è soltanto la subordinazione dell'immagine che si mostra gravida di conseguenze; è ancora più dannoso il fatto che il procedimento caratteristico del linguaggio - che è quello di svincolare il senso dal modo del suo apparire sensibile - viene trasferito all'immagine, mentre ciò che in linea di principio caratterizza l'immagine è proprio un'incompatibilità nei confronti della separazione dei segni astratti dal senso trascendente a essi.
L'attenzione a rilevare la natura particolare del segno pittorico, al di là delle possibili descrizioni e analisi linguistiche, trova nella cultura francese un attento interprete nel filosofo M. Merleau-Ponty e nelle sue riflessioni sui modi della percezione "in situazione". In questa prospettiva si colloca, per esempio, la sua lettura di Cézanne (del 1964), che intende coglierne il rapporto destrutturante nei confronti di una realtà scomposta perché sia possibile poi metterne a nudo l'anima. Sulla medesima linea si pone l'approccio alla pittura del poeta Y. Bonnefoy, che si è sempre accostato ad artisti e a opere guardando al problema fondamentale, quello della "salvaguardia della Presenza: finitudine terrestre e memoria della morte". Se l'immagine ha la prerogativa di conservare la traccia di una condizione aurorale dell'essere - scrive Bonnefoy - al di qua di qualsiasi trascendenza, ma al di là di qualsiasi banalizzazione referenziale, compito del poeta è quello di puntare a un linguaggio capace di restituire questa presenza nella sua più radicale semplicità: "l'emploi simple des signes". Vi è dunque la sospensione di tutti quegli elementi che connotano in termini fortemente differenti le dimensioni dell'immagine e della parola e la ricerca di una realtà semplice: ne consegue il ridimensionamento dei privilegi della parola, che viene rimessa nel circuito delle cose, ed è conforme semmai allo statuto dell'immagine: "voici le monde sensible. Il faut que la parole [...] se porte à sa rencontre et en déchiffre les signes" (Bonnefoy 1977, p. 210).
In Italia artisti e scrittori, negli ultimi vent'anni del secolo, sembrano per lo più aver smarrito le motivazioni profonde per una collaborazione sia creativa sia critica, tanto che sarebbe difficile concepire testi come quelli che l'editore Einaudi pubblicava nei primi anni Settanta, dove l'opera di un artista veniva presentata e prefata da I. Calvino. Del 1971 è il volume dedicato alle opere di F. Melotti, magistralmente fotografate da U. Mulas. Ciò che sembra maggiormente colpire Calvino è il movimento ascendente dei segni visivi e plastici allestiti da Melotti: "I segni vanno tenuti alti - scrive Calvino -, senza nessuna prosopopea, con la leggerezza, l'attenzione, l'industriosa ostinazione dei palafitticoli". Ancor più evidente è il coinvolgimento della propria poetica nel lavoro dell'artista, nella prefazione al volume dedicato a G. Paolini (del 1975). Tutto lo scritto calviniano è giocato sul confronto tra il pittore e lo scrittore: li divide la possibilità che il pittore ha di esibire il farsi del proprio lavoro creativo. A differenza dello scrittore, costretto nelle dimensioni della parola, la pittura - e la sperimentazione sui supporti materiali della pittura condotta da Paolini - è totalità cui nulla si può aggiungere e potenzialità che implica tutto il dipingibile.
A partire dagli anni Ottanta questo intreccio di stili e di pratiche, in cui gli artisti e gli scrittori potevano riconoscersi e rinnovarsi, pare difficilmente praticabile. Se nelle arti figurative la successione dei movimenti - dalla transavanguardia all'anacronismo, alla pittura della memoria - ha guardato al superamento dei progetti e delle sperimentazioni per il recupero ludico di stilemi dell'arte del passato, in letteratura il ritorno dei generi, dei romanzi dalla trama 'forte', della poesia dal lirismo accattivante ha disegnato uno scenario dove era difficile istituire la convergenza progettuale e sperimentale di scrittori e artisti visivi. D'altronde proprio la prospettiva del postmoderno - con la ricerca di "giochi linguistici" in sostituzione dei disegni salvifici promossi dalle ideologie in crisi - promuovendo il recupero acritico, appunto giocoso e smemorato, dei linguaggi del passato, ha incoraggiato il recupero delle dimensioni tradizionali di forme pittoriche e linguistiche: e cioè, come si è detto, i generi, le forme istituzionali, i confini delle discipline, degli stili, le soglie non valicabili che sanciscono identità storiche e culturali e che vanno recuperate nella prospettiva del montaggio, del bricolage, del consumo spregiudicato. Negli anni Novanta è forse l'universo telematico - la vera, radicale rivoluzione tecnologica della fine del 20° secolo - a riproporre la necessità di ripensare i rapporti tra le arti, tra la scrittura e la pittura, tra la parola e l'immagine. La ricerca di nuovi spazi creativi in questo senso è cominciata già da tempo; ne è un esempio l'attività di uno scrittore come G. Toti, che ha attraversato la contestazione neoavanguardistica del linguaggio consumistico per lavorare su forme di una nuova espressività, fino ad approdare a una scrittura 'telematica', che rivolge in funzione estetica la categoria informatica di ipertesto, o testo plurimo, aperto, ramificato. In questo intreccio cibernetico di scrittura e immagini, di suoni e grafismi, è forse da ravvisare la frontiera più avanzata - immediatamente valicabile, anzi già valicata - in cui si ripropone oggi il confronto tra le 'arti sorelle'.
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