Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La letteratura e la psicanalisi hanno preso coscienza nel corso del Novecento di muoversi sullo stesso terreno: la comprensione della natura umana e delle sue manifestazioni. Così come la letteratura e la critica letteraria hanno avvertito la necessità di ricorrere sempre più agli studi di Freud e di maestri quali Jung e Lacan – come nel caso del surrealismo e degli scrittori del flusso di coscienza – allo stesso modo la psicanalisi si è rivolta all’opera di narratori e poeti per trovare conferma alle proprie teorie, con la consapevolezza, già espressa da Freud all’inizio del secolo, che essi siano alleati preziosi nella descrizione della vita interiore dell’uomo.
Critica e psicanalisi
Italo Svevo
Prefazione e preambolo di La coscienza di Zeno
Prefazione
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.
Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arriccerranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul piú bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia.[...]
Preambolo
Vedere la mia infanzia? Piú di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.
Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.
Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finí nel sonno piú profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.
Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!
I. Svevo, Opera omnia, a cura di B. Maier, Milano, Dall’Oglio, 1969
Arthur Schnitzler
Doppio sogno
“Che dobbiamo fare, Albertine?” Lei sorrise, e dopo una breve esitazione rispose: “Ringraziare il destino, credo, di essere usciti incolumi da tutte le nostre avventure... da quelle vere e da quelle sognate”. “Ne sei proprio sicura?” chiese Fridolin. “Tanto sicura da presentire che la realtà di una notte, e anzi neppure quella di un’intera vita umana, non significano, al tempo stesso, anche la loro più profonda verità”. “E nessun sogno” disse egli con un leggero sospiro “è interamente sogno”.
A. Schnitzler, Doppio sogno, Milano, Adelphi, 1998
Da quando, alla fine del 1899, Sigmund Freud , pubblica il volume intitolato L’interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung), considerato il testo fondativo della psicanalisi, questa “nuova scienza” ha instaurato e mantenuto stretti rapporti con l’arte e la letteratura lungo tutto il Novecento. È lo stesso Freud ad addentrarsi nell’esplorazione di questi rapporti attraverso studi specifici, raccolti nel 1924 con il titolo Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio (Psychoanalytische Studien an Werken der Dichtung und Kunst). Il volume include tra gli altri il famoso studio psicanalitico sul romanzo Gradiva. Una fantasia pompeiana di Wilhelm Jensen, le contestate annotazione psicobiografiche su Leonardo da Vinci e le importanti note relative a Il perturbante, mentre il capitale saggio intitolato Dostoevskij e il parricidio vedrà la luce solo nel 1927, quando Freud sta ormai rielaborando le proprie teorie. A confermare il suo interesse per la letteratura e gli scrittori, già in Delirio e sogni nella Gradiva di Wilhelm Jensen (1906), Freud afferma che i poeti sono “alleati preziosi” nella “descrizione della vita interiore dell’uomo”. Se a lui va il merito di aver trovato un nome nuovo per questa vita segreta, l’inconscio, agli scrittori va riconosciuto di aver mostrato da sempre la capacità di metterla in scena, tanto che è proprio a figure della tragedia greca come Edipo, o all’Amleto del teatro shakespeariano, che Freud attinge per la formulazione delle proprie teorie. All’uscita della Gradiva, parecchi sostengono che Freud rivela non solo eccezionali doti di critico ma anche di scrittore invidiabile, anticipando in certo qual modo le due principali direzioni di influenza del pensiero psicanalitico in ambito letterario. Da un lato troviamo infatti un tipo di critica che, sul modello degli scritti freudiani, si fa carico di descrivere la fenomenologia delle forme e dei contenuti di un’opera in relazione alla psicologia profonda del suo autore: si pensi agli studi relativi alla creatività artistica di Wilhelm Steken e alle riflessioni sul tema del doppio di Otto Rank, che di fatto inaugurano il metodo della critica psicanalitica.
Tra i rappresentanti più celebri della psicanalisi applicata si ricordano Ernest Jones, Marie Bonaparte, autrice di una voluminosa monografia su Edgar Allan Poe, ma anche Karl Abraham, Oskar Pfister e, soprattutto, Carl Gustav Jung , che dopo il distacco da Freud crea una propria scuola, in cui si dà particolare importanza al simbolismo dei sistemi mitologici, religiosi e filosofici. Jung nega che la psicanalisi possa rendere conto dell’essenza dell’opera d’arte, pur riconoscendo che in essa fosse possibile rinvenire la psicologia dell’artista, radicata, però, in quello che egli chiama “inconscio collettivo”. In esso si può individuare l’immagine simbolica, o archetipica, generata dalle esperienze passate dell’umanità. Alla costante ricerca freudiana improntata sulla soggettività dell’io, Jung oppone lo studio degli archetipi sovrapersonali che darebbero ragione anche del significato dell’arte. Per una ricapitolazione dei contributi sui rapporti tra arte e inconscio all’inizio del Novecento si può tuttoggi fare riferimento al noto saggio del 1928 di Charles Baudouin, Psicoanalisi dell’arte (Psychanalyse de l’art), ma numerosissimi sono i contributi e le sollecitazioni che hanno caratterizzato la seconda parte del secolo: dalla “psicocritica” di Charles Mauron, alle riflessioni di studiosi di diverse discipline come i filosofi Karl Kerényi, Michel Foucault, Herbert Marcuse, Paul Ricoeur, o l’antropologo Claude Lévi-Strauss. Particolarmente interessante è la ricerca sui grandi simboli poetici condotta da Gaston Bachelard attraverso l’insegnamento di Jung, da cui ha in seguito tratto ispirazione la cosiddetta critica tematica, praticata da molti esponenti della Nouvelle critique, come Maurice Blanchot e Jean Starobinski.
Hanno avuto un’importante eco in Europa anche gli studi di critica psicanalitica e simbolica degli americani Lionel Trilling e Harold Bloom, nati in opposizione alle teorie del New Criticism, ma è forse il canadese Northrop Frye, con la sua ricerca di ispirazione junghiana degli “archetipi” dei generi e dei temi nell’opera letteraria, ad aver incontrato in Europa il maggior apprezzamento. In ambito italiano, nonostante il ritardo causato dai pregiudizi della critica idealistica crociana, hanno fatto riferimento alle teorie freudiane Giacomo Debenedetti, Mario Lavagetto, Francesco Orlando, Michel David ed Elio Gioanola. A completare gli studi di natura critica, nel Novecento si incontrano le esplorazioni dell’inconscio condotte direttamente nel campo della letteratura da poeti e narratori come Thomas Stearns Eliot, Stefan Zweig, Thomas Mann, André Gide, David Herbert Lawrence, Hjalmar Bergman, Georg Groddeck ma anche dagli scrittori del flusso di coscienza o del monologo interiore come James Joyce e Virginia Woolf.
Monologo interiore e “flusso di coscienza”
A utilizzare per primo l’espressione “flusso di coscienza” è però lo studioso statunitense William James nel suo saggio del 1890 Principles of Psychology, a dimostrare che le intuizioni di Freud affondano le proprie radici nella cultura positivista dell’epoca.
Nonostante entrambi i procedimenti fungano da espediente per mettere il lettore a contatto con la coscienza del personaggio da un punto di vista interno alla narrazione, esiste in realtà una differenza fondamentale tra monologo interiore e flusso di coscienza o stream of consciousness. Il primo, concepito essenzialmente come autoanalisi del personaggio, si basa sull’associazione più o meno consapevole delle idee, il secondo vede invece la coscienza come un aggregato articolato e contraddittorio, reso retoricamente attraverso un inconsapevole e incontrollato emergere degli strati più profondi della psiche, con la continua associazione di parole, immagini e pensieri. Esempio capitale di questa tecnica è il romanzo Ulisse (Ulysses) di Joyce. Pubblicato a Parigi nel 1922, la poderosa corporatura del romanzo ha in realtà un’ossatura esilissima: il racconto di una giornata dell’ebreo dublinese Leopold Bloom tradito dalla moglie. La rivoluzione narrativa dell’opera consiste proprio nell’utilizzo di diversi flussi di coscienza corrispondenti alla vita interiore dei vari personaggi, Leopold Bloom, Stephen, il giovane intellettuale, e Molly Bloom, la moglie infedele, il cui libero fluire del pensiero prima di addormentarsi, scevro di segni interpuntivi, costituisce lo straordinario finale del libro, che pone il lettore di fronte a una materia verbale magmatica e incandescente. Joyce intravede nella psicanalisi una modalità narrativa, una felice possibilità di costruzione formale, tanto che, interrogato sui suoi rapporti con Freud, si racconta rispondesse: “Joyce in tedesco è Freud”, giocando sulla similarità semantica dei due nomi che significano, appunto, felicità. Ulisse presenta una struttura estremamente complessa, al cui interno la coscienza dei tre protagonisti, che riproducono lo schema mitico di Telemaco, Ulisse e Penelope e al contempo quello della triangolazione edipica, sfonda verticalmente l’orizzontalità del tempo narrativo classico. Il tempo diventa psicologico, contemporaneità assoluta di passato, presente e futuro. È però il postumo La veglia di Finnegans (Finnegans Wake, 1938), totalmente frammentato e onirizzato – i quattro personaggi sono addormentati dall’inizio alla fine – e ispirato all’idea junghiana di inconscio collettivo e alle teorie di Giambattista Vico sul ruolo del mito nell’esistenza umana, a portare alle estreme conseguenze le riflessioni sulla vita inconscia dell’uomo. La narrazione appare infatti totalmente psicotizzata, e si scontra con la possibilità di costruire con il linguaggio qualcosa che non sia solo dispersione. Negli anni della sua composizione, Joyce vive il dramma personale della figlia malata di schizofrenia, nelle cui manifestazioni riscontra forti analogie con la propria scrittura, con la differenza che mentre a lui non succede nulla – come gli spiega in una lettera Jung – lei sembra annegare.
Ad annegarsi realmente dopo una lunga malattia mentale, è anche l’altra grande scrittrice di monologhi interiori, Virginia Woolf. Il suo romanzo La signora Dalloway (Mrs Dalloway, 1925), risente profondamente dell’influsso joyciano nella trattazione del tempo, ridotto a una sola giornata, e mostra una straordinaria capacità di passare dal punto di vista dei vari personaggi attraverso transizioni impercettibili e calcolatissime che danno l’impressione di un fluire ininterrotto, scandito solo dal passare delle ore (The Hours, era infatti il titolo pensato inizialmente dall’autrice, magnificamente ripreso dallo scrittore statunitense Michael Cunningham, nel romanzo del 1999, che utilizza il libro della Woolf come collante per il racconto parallelo delle nevrosi, dei traumi e della malattia mentale dei vari personaggi). È però nel capolavoro del 1931, Le onde (The Waves), che l’assenza dell’intreccio viene compiutamente compensata dalla totale interiorizzazione della realtà da parte dei personaggi. La narrazione procede per flussi di coscienza che sono veri e propri flutti psichici, mareggiate oniriche che contribuiscono a creare una dimensione liquida che rimanda a un perenne ritorno all’origine del pensiero. Una fortunata teoria su tale origine si deve allo psicanalista inglese Wilfred Ruprecht Bion, celebre anche per aver avuto tra i suoi pazienti una delle menti più brillanti della letteratura del Novecento: Samuel Beckett. È Bion a incoraggiare lo scrittore a partecipare a una serie di seminari tenuti a Londra da Jung, che in tale occasione espone il caso di una ragazza afflitta da continue premonizioni di morte perché – secondo l’analista – mai completamente nata. L’idea di un io incompiuto influenza profondamente la fantasia di Beckett, tanto da trovare riscontro in numerose delle sue opere, in cui la progressione narrativa – memore della dialettica di affermazione e negazione teorizzata da Bion – si compie tramite processi di sottrazione, negazione e disgregazione, come nel caso del primo vero capolavoro narrativo dello scrittore e drammaturgo irlandese, Murphy (1938).
Nevrosi e scrittura
Anche l’austriaco Arthur Schnitzler, medico psichiatra e scrittore, sperimenta nei suoi romanzi una zona a suo parere trascurata dalla psicanalisi: quella del medioconscio o semiconscio, faglia intermedia tra l’Io e l’Es che costituisce il tema centrale dei suoi romanzi, in particolare La signorina Else (Fraülein Else, 1929). Schnitzler è considerato dallo stesso Freud una sorta di doppio da temere – come confessa in una lettera del 1922 indirizzata allo scrittore per il suo sessantesimo compleanno – nonostante questi abbia sempre mantenuto una notevole distanza critica dalle teorie del proprio connazionale. Di particolare interesse per la tematica onirico-surreale risulta anche il romanzo breve Doppio sogno (Traumnovelle, 1926), da cui il regista Stanley Kubrick ha tratto il suo discusso Eyes Wide Shut (1999), ripercorrendo la vicenda di una coppia che tenta di fare i conti con pulsioni e conflitti, in una dimensione incerta tra realtà e sogno. Sicuramente influenzato dalle teorie freudiane – pur mantenendo verso di esse un costante atteggiamento di ambivalenza – è invece Italo Svevo, autore di uno dei romanzi più importanti del Novecento italiano, La coscienza di Zeno (1923). Già dal titolo è facile comprendere come lo scrittore triestino – che ha conosciuto Joyce durante il suo soggiorno in Italia – consideri al centro del proprio libro non il personaggio, Zeno Cosini, ma la sua coscienza e i suoi tentativi fallimentari di rappresentarsi in un’immagine stabile di sé. La psicanalisi funge, per la prima volta nella letteratura italiana, da ingranaggio narrativo, movente stesso della scrittura: la Prefazione del romanzo, scritta nella finzione letteraria dallo psicanalista di Zeno, il Dottor S., presenta la narrazione come un’autobiografia del paziente, una rievocazione del passato richiesta dal medico come “preludio della psicanalisi” e pubblicata per vendicarsi dell’interruzione improvvisa della terapia. Quello che si trova di fronte il lettore non è la vita del protagonista ma la storia di una malattia, un’autoanalisi, un caso clinico, che espone la parola romanzesca ai limiti dell’indecidibilità tra verità e menzogna, trasponendo così in un’opera letteraria, l’essenza stessa dell’insegnamento di Freud. Alla descrizione tipica del romanzo ottocentesco Svevo sostituisce un atteggiamento analitico e diagnostico, che affastella tentativi di spiegazione della propria “inconsistenza di volontà”, sempre più distanti dal reale. Il romanzo si configura dunque come l’“inganno intentato da un paziente bugiardo ai danni dello psicanalista”, secondo l’analisi di Mario Lavagetto, ma anche del lettore, chiamato ad assumere un atteggiamento critico, a interpretare a sua volta la parola del protagonista. Si delinea così una scrittura che incespica nei tic, nei lapsus, nelle nevrosi del soggetto, non prevedendo nessuna cura al di fuori della stessa writing cure allestita da Svevo, in un ribaltamento tragicomico che fa della malattia l’unica condizione della salute, intesa come certezza, assenza di dubbio sulla natura del soggetto e delle cose.
Un altro triestino, il poeta Umberto Saba, pone al centro della propria scrittura l’esperienza, questa volta diretta, della psicanalisi. La raccolta completa delle sue poesie, pubblicata nel 1961 dopo svariate edizioni parziali, si intitola Canzoniere ma nonostante il riferimento al modello lirico petrarchesco, a cui il poeta si rivolge via Foscolo e Leopardi per il problema della lingua, i nuclei cronologici e tematici costituiscono quasi la trama di un romanzo di natura prettamente psicanalitica. Saba entra in analisi nel 1929 sotto la guida di un allievo di Freud, il dottor Weiss, dedicatario di quella che è forse la raccolta più importante per i rapporti tra letteratura italiana e la nascente psicanalisi, Il piccolo Berto, opera in versi dal valore quasi terapeutico, in cui si ricompone il mondo esperienziale dell’Umberto Saba bambino. L’esperienza analitica riporta alla luce un soggetto infans, un sé maggiormente autentico su cui proiettare le ossessioni e le nevrosi dell’autore adulto. La scrittura di Saba si configura dunque come un’operazione riparativa – per utilizzare l’espressione coniata dalla psicanalista Melanie Klein – in quanto attraverso la cura materna del proprio sé recuperato, il poeta è in grado di ricostruire attraverso una memoria riattivata, tutte le dinamiche familiari ma soprattutto, di offrire al lettore una galleria di personaggi – la madre austera, la dolce nutrice, il padre peregrino come Ulisse – che permettono di rileggere e comprende nell’insieme della sua produzione letteraria, il tema dell’origine, della ferita, della vita istintiva e dell’eros.
Procedimenti e figure dell’inconscio
Sessualità e istintualità sono al centro anche della riflessione estetica e letteraria del surrealismo, l’unico movimento artistico del Novecento ad aver dimostrato un vero e proprio entusiasmo per l’insegnamento di Freud, sin dalla pubblicazione del proprio Manifesto, scritto nel 1923 da André Breton. Attraverso le loro opere, che spaziano dalla letteratura al cinema, e riviste come “La Révolution surréaliste” e “Surréalisme”, i seguaci di Breton celebrano l’inconscio come forza liberatoria, per sfuggire alla pressione del razionale mondo “civilizzato”. Poeti come Louis Aragon e Paul Éluard scrivono convinti che i sogni siano più reali della realtà e insieme a compagni di viaggio come Antonin Artaud ed Henri Michaux, utilizzano anche le droghe e l’ipnotismo per raggiungere una condizione sufficientemente vicina al sogno da scorgere la vera realtà dietro l’apparenza delle cose quotidiane. La dimensione onirica, infatti, priva com’è di convenzionalità e di soggettività, non pone restrizioni logiche o razionali alla vera creatività. Il metodo surrealista per eccellenza diviene dunque la scrittura automatica, il puro automatismo mentale, la scrittura come condizione passiva, che esclude restrizioni morali, logiche e religiose e si avvicina al metodo freudiano delle associazioni libere. Nonostante la visione surrealista dell’inconscio sia fortemente debitrice del contributo di Freud, mentre l’interesse di quest’ultimo è rivolto alla comprensione dei processi della psiche umana, i surrealisti si pongono obiettivi di liberazione e rivoluzione, coniugando per certi aspetti inconscio e marxismo.
A metà del Novecento, con altri intenti ma sempre ispirandosi al marxismo e agli insegnamenti di Jacques Lacan, ha parlato di Rivoluzione del linguaggio poetico la semiologa e psicanalista Julia Kristeva, soffermandosi sulle componenti strutturali del linguaggio: il semiotico e il simbolico. È forse proprio al problema del linguaggio che può essere ricondotto l’apporto più importante alla problematica riguardante letteratura e psicanalisi nel secondo Novecento. Da questo punto di vista il pensiero di Lacan ha svolto una funzione capitale, reinterpretando Freud attraverso la linguistica e lo strutturalismo. Il suo contributo più importante consiste nell’aver pensato l’inconscio strutturato come un linguaggio, permettendone lo studio nelle componenti di significante e significato. I significanti che costituiscono l’inconscio slittano però continuamente e velano un senso inafferrabile, che si destruttura e ricostruisce continuamente. Le idee di Lacan non hanno solo creato una propria scuola critica, tra cui spiccano nomi come Elisabeth Roudinesco, Catherine Millot e, in Italia, Stefano Agosti, ma hanno anche influenzato la letteratura della seconda metà del secolo. Il poeta Andrea Zanzotto costituisce forse uno degli esempi più rappresentativi della capacità di mettere in scena, quasi anticipandola, l’idea lacaniana dell’incommensurabilità tra significante e significato. Lo fa soprattutto a partire dal 1968, con la raccolta sperimentale La beltà, in cui si delinea un percorso poetico che procede tramite una progressiva emancipazione dal senso, una poesia determinata non più dalla relazione significante-significato, ma che si colloca a diretto contatto con il significante, orientata verso un uso della lingua in cui predomina lo scivolamento metonimico. Tale scivolamento, però, non produce, freudianamente, motto di spirito, ma un vero e proprio disgregamento della lingua che corrisponde al disgregarsi stesso della realtà. E con essa la consistenza dell’io, l’io lirico del poeta. All’insegnamento di Lacan, di cui era stato allievo, fa riferimento anche il poeta, narratore e drammaturgo belga Henry Bauchau, nei suoi romanzi che ridanno voce a figure della tragedia greca come Edipo e Antigone. Nel romanzo che gli ha dato notorietà internazionale, Edipo sulla strada (Oedipe sur la ruote, 1990), Bauchau ribalta la posizione di supposto sapere di chi risolve l’enigma della Sfinge. La risposta si trasforma in domanda sull’uomo, viaggio uterino all’interno dell’enigma dell’essere del soggetto, del suo senso. Proprio il dramma del soggetto è al centro delle riflessioni di quasi tutti gli autori che nel Novecento si sono confrontati con il problema della scrittura, a partire da Luigi Pirandello e Fernando Pessoa, che all’inizio del secolo in un certo senso anticipano le riflessioni freudiane sulla scissione interna dell’individuo. Esempio straordinario di scavo nei meandri del rapporto tra io e scrittura è il romanzo Malina (1971) dell’austriaca Ingeborg Bachmann. La prima parte del libro racconta la relazione tra la protagonista, definita semplicemente come “io” e il suo amante: l’io esiste in funzione dell’altro, in sua assenza, sparisce. Nella seconda parte del romanzo viene descritta una lunga serie di incubi in cui il soggetto è continuamente brutalizzato, torturato e annichilito da una figura maschile paterna, dietro cui si scorge lo spettro dell’incesto. È Malina, doppio dell’io e incarnazione fisica dell’azione razionale del maschile, ad ascoltare il racconto di questi incubi, in cui l’unico linguaggio autentico sembra essere quello che cerca di dire l’inesprimibile, il buio, l’inconscio. Per la Bachmann, infatti, solo la letteratura pare fornire la chiave d’accesso al contenuto di verità di ciò che nel linguaggio appare incomprensibile e falso: il soggetto. Anche nel caso di Malina, la letteratura sembra aver assunto una funzione terapeutica, di ricerca e disvelamento della verità nella menzogna; la psicanalisi ha cioè preso il posto di quell’Altro, che è, da molto prima della scoperta di Freud, il luogo originario della letteratura.