Lingua, letteratura e scienza da Dante a Calvino
Ai tempi di Dante Alighieri, una vera distinzione tra le «due culture» non si poneva perché la stessa parola scientia le inglobava entrambe, essendo intesa, etimologicamente, come tutto ciò che riguarda lo scibile, di pertinenza dell’«intellectus speculativus», distinto da quello «practicus». Non aveva quindi una competenza settoriale e specifica, come la intendiamo oggi. L’unica accezione che la scienza medievale aveva in comune con il suo significato odierno è il carattere universale e necessario. A integrare tutto il sapere, e quindi anche la scienza e la letteratura, è la consapevolezza che tutto si riconduce a Dio, e che la metafisica investe di sé ogni manifestazione. Questa comune origine fonda l’unità del sistema delle scienze umane e divine, rappresentato da un arbor scientiarum nel quale la teologia è il tronco da cui si dipartono i rami delle «arti» umanistiche del Trivio (grammatica dialettica retorica) e quelle scientifiche del Quadrivio (aritmetica musica geometria astrologia). E dopo che nell’alto Medioevo gli amanuensi, per salvare la civiltà greco-romana dal naufragio delle invasioni barbariche, ne avevano affastellato la cultura nei codici, il genere che più si diffuse fu quello enciclopedico. Non si contano, in questo periodo, le compilazioni di bestiari, erbari, lapidari dove ai dati delle scienze naturali si sommano le proprietà simboliche e morali di animali, piante e pietre, dal momento che il loro scopo primario era quello di comprendere i testi sacri e di lodare il Creatore attraverso le lodi del creato.
Come dimostra il Cantico delle creature di san Francesco, il genere letterario della lode viene impiegato per manifestare l’amore per la natura, che comunque è un primo passo che deve portare a Dio. Sviluppando in senso cristiano la fisica di Aristotele, che attribuiva il moto non già a una causa efficiente, come poi la scienza moderna, ma a una causa finale, ogni agente agisce mosso da una specie d’amore che lo trascina verso la sua meta naturale. «Omne agens, quodcumque sit», spiega Tommaso d’Aquino (Summa theologiae, Ia IIae, q. 28 a. 6), «agit quamcumque actionem ex aliquo amore», e Dante ne traduce il concetto in poesia sia al principio del Paradiso, in cui Dio è «colui che tutto move» (I, 1), sia alla fine, dove è «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (XXXIII, 145). L’investitura di un afflato religioso, con la conseguenza di porre la teologia al sommo delle scienze, fa sì che in Dante (e in molta parte della cultura medievale) trionfi la fiducia nell’assoluta conciliabilità di ogni forma di sapere, in cui anche la tematica speculativa e scientifica si riveste di lirismo e di drammaticità. «Come accade ai meridiani nelle vicinanze del polo», chioserebbe Pierre Teilhard de Chardin, «scienza, filosofia e religione convergono nelle vicinanze del Tutto» (Le phénomène humain, 1955; trad. it. 1968, p. 26).
A questo punto, non sorprende che Filippo Villani, un fiorentino che conosceva bene Dante per essere stato suo vicino di casa, lo ricordi come «grande letterato quasi in ogni scienza», oltre che, naturalmente, come «sommo poeta e filosafo, e rettorico perfetto» (Cronica, IX, 136, a cura di G. Aquilecchia, 1979, p. 117). D’altro canto egli stesso, già iscritto all’arte dei medici e degli speziali, riferisce nel Convivio dei suoi studi fondati, sia pure in misura non sistematica ed eclettica, sulle opere di Aristotele e sui suoi commentatori, mostrando di avere assimilato nei suoi lavori il metodo della scolastica. Ma le sue competenze scientifiche e filosofiche non si vedono solo nella Questio de aqua et terra, uno scritto di natura cosmologica, o nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, ma in ogni altro suo testo. Perfino nella Vita nova, un testo caratterizzato da parole e da sintassi esilissime, si trovano termini della fisica, della geometria, della matematica, sul tipo di «retta» (V, 1), «un grave» (XI, 3), «radice» (matematica; XXIX, 3). E nelle canzoni per la Donna Pietra i versi volutamente aspri e dissonanti diventano veicoli di aspetti meteorologici estremi, descriventi, con terminologia scientifica, i fenomeni di evaporazione e di condensazione, riscontrati nel fenomeno dell’acqua che si converte in ghiaccio, ovvero che «per algente freddo / l’acqua diventa cristallina pietra» (Rime CII, 25-26).
Ma la sede in cui Dante dispiega tutte le sue molte conoscenze scientifiche è la Commedia, che tratta di astronomia, astrologia, ottica, alchimia, matematica, geometria, logica, medicina nelle sue specializzazioni di fisiologia, anatomia ed embriologia. Non per nulla nell’Epistola a Cangrande in cui Dante – ammesso che ne sia il vero autore – illustra il suo poema, questo è considerato un «genus quoddam poetice narrationis» e al tempo stesso un «doctrinale opus» (Epistule, XIII 29 e 18), come se si trattasse di un’opera che espone in versi dei contenuti filosofici e scientifici. Non c’è dubbio che la definizione è riduttiva, ma è certo che lo studio dei fenomeni naturali ha un ruolo non secondario, per l’insegnamento etico impartito da una realtà che si dovrebbe imitare e da cui risaltano i comportamenti sbagliati dell’uomo. In astronomia spazia dal moto del Sole (Paradiso XI, 50-51) alla precessione degli equinozi (XXVII, 141-142) e agli epicicli (VIII, 3), per non dire delle comete (XXIV, 12), delle eclissi (XXVII, 35-36), delle stelle cadenti (XV, 13-18); in medicina si sofferma sulla lebbra e la scabbia (Inferno XXIX, 75-84), l’idropisia (XXX, 49-57), la febbre quartana (XVII, 85-87); in meteorologia descrive scientificamente il formarsi della rugiada (Purgatorio I, 121-123), l’origine del vento (IX, 67-72), la nascita di un terremoto (XX, 127-128), l’apparizione dell’arcobaleno (Paradiso XII, 10 21; XXVIII, 31-33); non mancano veri e propri esperimenti di ottica (II, 94-105), memori della teorie medievali della metafisica della luce risalenti a Roberto Grossatesta, riferimenti a strumenti tecnologici come la bussola (XII, 29-30), problemi geometrici come la quadratura del cerchio (XXXIII, 133-135).
Se questi aspetti scientifici occupano in genere pochi versi, due canti sono dedicati quasi interamente alla formazione dell’embrione umano (Purgatorio XXV, 31-108) e alla natura delle macchie solari (Paradiso II, 49-105). La loro trattazione è indicativa di come la scienza non possa in Dante disgiungersi dalla metafisica e miri a «riconoscere vincoli inscindibili tra umano e divino» (V. Russo, Tecniche e forme della poesia dottrinale di Dante, in Dante e la scienza, 1995, p. 179). Nella generazione dell’uomo l’anima razionale, direttamente infusa da Dio al momento del concepimento, assume in sé le funzioni vegetative e sensitive che regolano la vita corporale, giustificando la loro conservazione anche dopo la morte fisica, quando l’anima si porta nei regni ultraterreni, dove quindi soffre o gode anche sensibilmente. Quanto alle macchie lunari, esse non sono dovute a una causa fisica, quella della maggiore o minore densità della materia, secondo una tesi risalente ad Averroè accolta ancora nel Convivio, ma dipendono dal diverso modo in cui la virtù emanata da Dio si unisce alla materia della Luna, prefigurando l’imperfezione del mondo sublunare. Come ha rilevato Francesco De Sanctis, in Dante c’è «la Fede che è scienza» e «la Scienza che è fede» (Saggi critici, a cura di L. Russo, 1965, p. 166).
Rispetto al Convivio, nella Commedia non solo compare una tesi scientifica affatto diversa, ma si vede anche un’intensificazione del valore poetico assente nel trattato. Alla sintassi scolastica di quello, gravato di diffuse articolazioni enumerative, subentra una brevità epigrafica animata da metafore e similitudini che recano concretezza al dettato di per sé astratto: i sensi sono la «chiave» che apre la porta della verità, la ragione che non comprende è come se avesse le «ali» troppo «corte» per volare, l’esperienza è per le arti umane come la sorgente per i fiumi («esperïenza […] esser suol fonte ai rivi di vostr’arti», Paradiso II, 95-96). La materia dottrinale, ancorché esposta con un lessico tecnico («corpi rari e densi», «princìpi formali», «raggio […] refratto», «lume […] ripercosso»…), si adagia su un’armonia fatta di allitterazioni, consonanze, sonorità ritmiche e suggestioni evocative con cui il ritmo e la sintassi acquistano un’importanza uguale al significato. Perfino un suo nemico, Cecco d’Ascoli, ostile alla visione scientifica della Commedia, le riconosce di averne trattato con «acute lime» (L’Acerba, II XII 6). In effetti, mai forse, dopo Dante, la scienza ha intrecciato il suo destino con quello della poesia.
Non ebbe certo lo stesso atteggiamento Francesco Petrarca, che anzi alla scienza della natura contrappone in più occasioni lo studio «in interiore homine», secondo la lezione di sant’Agostino, rivendicando la superiorità del sapere delle «humanae litterae» e della filosofia morale. Nel De sui ipsius et multorum ignorantia egli pone l’accento sui limiti invalicabili delle capacità dell’uomo a comprendere le leggi della natura, sicuro per altro che quel poco che gli è accessibile è affatto inutile. Nella sua requisitoria il conoscere «un sacco di cose sulle belve, sugli uccelli, sui pesci» non reca alcun frutto, ora perché «tutte queste cose sono in gran parte false», ora perché «quelli che ce le raccontano non le hanno certo verificate», ma soprattutto perché, quand’anche «fossero vere, non avrebbero nulla a che fare con la nostra felicità». E dunque, a cosa serve, si domanda,
conoscere la natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti, e ignorare e trascurare la nostra natura di uomini, lo scopo per il quale siamo nati, e dove siamo diretti? (F. Petrarca, De ignorantia, a cura e trad. di E. Fenzi, 1999, p. 191).
La superiorità della saggezza etica e religiosa implica il rifiuto dalla ricerca scientifico-naturalistica, tutt’al più ammessa da Petrarca solo entro i limiti di una conoscenza tecnica e pratica, come quella dei chirurghi.
Resta aperto, nei suoi interpreti, il dibattito tra chi, come Paul Oskar Kristeller, ha sostenuto che la polemica rientra in un’umanistica «disputa delle arti», secondo una contrapposizione della poesia, dell’eloquenza, della storia e della filosofia morale contro la medicina e la filosofia naturale aristotelica, e chi, come Eugenio Garin, ritiene invece che anche un’opera quale le Invective contra medicum non debba suonare di condanna contro la scienza in generale, ma contro la particolare concezione che ne aveva avuto la più tarda scolastica, resa sterile da un empirismo meramente descrittivo, consistente in un’arida descrizione dei fenomeni che li allontana dai bisogni reali dell’uomo. I bersagli principali di Petrarca sarebbero stati i logici terministi di Oxford e di Parigi, seguaci della tradizione occamista, prigionieri di un mondo di segni e di termini avulsi dalle cose, e i fisici che adottavano i loro metodi, riducendo «ogni problema filosofico a problema logico-linguistico» (Garin 1969, p. 459). Ristretta a questa angusta circoscrizione, la scienza per Petrarca assume un aspetto superbo e presuntuoso, perfino arrogante quando pretende di conoscere i segreti della natura, che dovrebbero invece essere accettati con l’umiltà della fede. Oltretutto, quando i medici ricorrono alla consolazione e ai consigli di natura psicologica, invadono il campo della retorica e della filosofia morale, rinunciando alla loro professione e riconoscendo in questo modo la superiorità delle «humanae litterae».
Anche se la polemica di Petrarca muove da una difesa dei suoi studi dagli attacchi di chi lo aveva accusato di ignoranza, le sue critiche alla scienza non sono una semplice ritorsione, ma annunciano una nuova visione del mondo, la stessa che indusse Coluccio Salutati a rivendicare nel De nobilitate legum et medicinae la superiorità del diritto per essere fondato sul principio di equità e Giovanni Boccaccio a ritrarre con ironia i medici in talune novelle del Decameron. Ciò non toglie che questi uomini di lettere abbiano competenze anche scientifiche: basti ricordare, proprio di Boccaccio, le rappresentazioni naturalistiche del trattato De montibus, silvis, fontibus […] e soprattutto la perizia medica con cui nel proemio del Decameron descrive la peste, illustrata nei sintomi, nelle cause probabili, nei rimedi e nei farmaci adottati, con il vanto di scrivere non ciò che aveva udito «quantunque da fededegna persona», ma ciò di cui i suoi «occhi […] presero […] così fatta esperienza» (Proemio, §§ 16 e 18). L’esame autoptico, condiviso dai filologi e dagli anatomopatologi, è un primo indizio del superamento del principio di autorità, messo in crisi, tanto nella letteratura quanto nella scienza, dalla nuova età dell’Umanesimo e del Rinascimento.
È soltanto un luogo comune difficile da estirpare quello che considera l’età dell’Umanesimo quattrocentesco un ostacolo al progresso scientifico, quasi che la diffusione degli Studia humanitatis avesse costretto al silenzio le scienze, destinate solo nel Seicento alla rinascita che le avrebbe condotte alla modernità, allorché con Galileo Galilei si sarebbero ricongiunte alla tradizione dei fisici parigini del Medioevo. Le cause di questa deformante prospettiva storica risiedono in una valutazione riduttiva degli umanisti, ritenuti a torto dei miopi pedanti dediti a oziose minuzie grammaticali e alla venerazione della prosa ciceroniana. In realtà l’Umanesimo non produsse solo degli eruditi e degli antiquari, né le competenze di costoro riguardarono esclusivamente lo stile e le questioni formali, ma estesero il campo d’azione alla filosofia e all’epistemologia, affrontate con il rigore derivato dall’esercizio della filologia. Anziché rinchiudere la letteratura in un culto sterile della parola, furono proprio gli umanisti a criticare il nominalismo e l’astrazione della tarda Scolastica, raccomandando, invece di esaurirsi in questioni verbali, di volgersi all’esperienza reale.
Gli attacchi contro il principio di autorità da parte di Galilei e della scienza moderna derivano dalla «libertas philosophandi» invocata dall’Umanesimo, avverso al sapere dogmatico e all’inutile cumulo dossografico e libresco, aggravato da una terminologia gergale, astrusa e inelegante. La stessa insofferenza verso il procedere sillogistico e l’inameno latino medievale non deriva soltanto dalla volontà di ritornare al latino «aureo» della classicità, ma racchiude la denuncia dei limiti anche culturali di chi ha tanto impoverito il linguaggio. E per sostituire il monocratico verbo di Aristotele, premessa di una scienza precostituita fondata sull’ipse dixit, i letterati del Quattro e del Cinquecento garantirono il pluralismo e la fine del dominio dei peripatetici con un’azione filologica che non si limitò al recupero degli antichi retori e grammatici, ma anche consentì la pubblicazione di scienziati e filosofi alternativi al pensiero peripatetico e dimenticati durante il Medioevo. Gli Studia humanitatis furono una via d’accesso al pensiero moderno. Testi di astronomi, medici, matematici, naturalisti, geografi, ingegneri, architetti si affiancarono alle opere degli oratori, dei poeti, degli storici, favorendo un rinnovamento sostanziale della scienza con la riscoperta di conoscenze greche e latine sconosciute. Fu insomma l’azione dei filologi dell’Umanesimo a restituire alla civiltà europea il patrimonio scientifico e filosofico delle culture classiche.
Dietro la moderna medicina sperimentale e diagnostica c’è la riscoperta di Ippocrate e di Galeno; dietro la costruzione di macchine e strumenti scientifici, con la conseguente rivalutazione del lavoro manuale di artigiani e di ‘meccanici’, c’è la conoscenza di Archimede, poi tanto ammirato da Galilei; dietro gli sviluppi della geometria rinascimentale c’è la restituzione delle opere di Euclide, ancora mal note in epoca medievale; soprattutto, dietro Nicola Copernico ci sono le teorie eliocentriche di Aristarco da Samo, e non deve stupire se il suo De revolutionibus orbium coelestium (1543) esordisce citando gli antichi che avevano creduto al moto della Terra. L’inaugurazione nel 1397 del primo insegnamento della lingua greca nell’Università di Firenze, tenuto dall’umanista bizantino Manuele Crisolora, fu la chiave che in prospettiva garantì l’accesso a una cospicua biblioteca scientifica. Con Platone il numero e la matematica acquistarono una centralità mai raggiunta nel Medioevo, con Democrito si sviluppò l’atomismo, con la fisica di Epicuro e di Lucrezio, il cui De rerum natura fu ritrovato da Poggio Bracciolini, si creò un’alternativa ad Aristotele, con Strabone la geografia cambiò volto, con le opere botaniche di Teofrasto e di Dioscoride, con la Naturalis historia di Plinio il Vecchio, il cui manoscritto integrale fu procurato da Niccolò Niccoli e commentato da Ermolao Barbaro, si rinnovò lo studio delle piante e degli animali.
Gli umanisti furono tutt’altro che nemici delle scienze, avendo per obiettivo un sapere unitario, armonico ed equilibrato. Nel sistema educativo di Vittorino da Feltre un rilievo particolare era attribuito all’insegnamento della matematica, così come nel Panepistemon di Angelo Poliziano il disegno enciclopedico faceva spazio a tutte le discipline, nella convinzione che per fare poesia e per comprenderla occorresse conoscere anche la filosofia, il diritto, la medicina. Né queste erano pronunzie velleitarie, perché Poliziano, da una parte, studiò sui testi medici di Celso, Dioscoride, Ippocrate e Galeno e, dall’altra, ne fece tesoro nelle sue opere poetiche. Nel poemetto giovanile Sylva in scabiem (1475) le competenze di anatomopatologo sono messe in atto per descrivere gli effetti degenerativi dell’acaro sull’uomo, insistendo su una tonalità macabra e grottesca, senza che comunque venga mai meno l’eleganza del verso, la pertinenza dei verbi e le suggestioni degli aggettivi, accostati alla terminologia della medicina araba. E ancora alla scienza medica egli ricorre nell’epicedio In Albieram Albitiam […] morientem, dove l’agonia e la morte di una bellissima fanciulla si coniuga, nel rifarsi alle elegie della classicità, con digressioni mitologiche, come la favola della Febbre e della dea Invidia che distrugge tutto ciò che dà agli uomini la felicità. E intermedie tra la letteratura creativa e l’erudizione sono in Poliziano le postille alle Silvae di Stazio, in cui confluiscono nozioni di entomologia impiegate, con gusto alessandrino, per celebrare i prodigi della natura manifestati perfino negli esseri microscopici.
La fama conseguita dagli umanisti di Quattro e Cinquecento con le opere letterarie ha finito per mettere in ombra i loro interessi scientifici, che invece non devono essere dimenticati. Marsilio Ficino, l’apostolo del neoplatonismo, fu anche medico valente, conoscitore non superficiale di Galeno e di Avicenna, autore di consigli contro la peste, magari connessi, con un tipico sincretismo, a teorie provenienti dall’astrologia, una disciplina contro cui invece si batté con ardore Giovanni Pico della Mirandola, che colse nel suo determinismo e nella pretesa di divinare il futuro la negazione della libertà dell’uomo. Nella cerchia medicea anche Lorenzo il Magnifico si cimentò nei più diversi generi letterari fondandosi, soprattutto nelle poesie teologiche, su solide basi scientifiche. Non per nulla perfino chi, come Luigi Pulci, si ispirò al mondo giocoso e burlesco dei cantari, quanto mai remoto dal clima rarefatto del neoplatonismo mediceo, ne condivise gli ideali enciclopedici, riproposti quando nel Morgante Rinaldo visita un padiglione in cui sono raffigurati i quattro elementi, il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, di cui si passano in rassegna i regni, insieme con la caotica tassonomia degli animali che li popolano, scelti tra quelli dai nomi più astrusi per assaporare tutta la loro esotica stranezza.
La tradizione epica del catalogo si sposa in Pulci con il genere didascalico, che nel Cinquecento abbandona la vena burchiellesca della parodia per rifarsi al modello classico delle Georgiche virgiliane. Si va appunto dalla Coltivazione di Luigi Alamanni alle Api di Giovanni Rucellai, dal Vendemmiatore al Podere, entrambi di Luigi Tansillo. Se tutti costoro sono letterati che scelgono argomenti scientifici per le loro poesie, non mancano nel Cinquecento scienziati che si esprimono in versi, come il medico Girolamo Fracastoro, autore del poema eziologico Syphilis, sive De morbo gallico, dal nome del cui protagonista è derivata la designazione della malattia venerea. Le nuove acquisizioni della scienza coinvolgono, in un modo o nell’altro, anche i poeti maggiori del secolo, da Ludovico Ariosto a Torquato Tasso. L’Orlando Furioso, in nome degli ideali cavallereschi, rifiuta la nuova tecnologia bellica delle armi da fuoco; all’altro estremo del secolo le tassiane Sette giornate del mondo creato descrivono, nella tradizione dei poemi cosmologici, la creazione dell’universo, in contrapposizione al De rerum natura lucreziano, ma non diversamente si popolano di digressioni scientifiche, attinte, oltre che dalla Semaine, ou création du monde di Guillaume du Bartas, dalla Naturalis historia pliniana, fonte d’ispirazione per i fenomeni delle maree e degli altri movimenti delle acque e per la descrizione degli animali. L’opera di Tasso, con cui si chiude il 16° sec., è indicativa di un’età che vive senza traumatiche fratture il rapporto tra le due culture. A incrinarne l’unità è l’affermarsi della scienza moderna che, con la conseguente specializzazione, si predispone, nella prospettiva della longue durée, al suo allontanamento dalle «humanae litterae».
In verità, se si considera la biografia intellettuale di Galilei, ci si rende conto che egli ancora compendia in sé la figura dello scienziato e la figura dell’uomo di lettere. Fu capace di investigare con successo il mondo della natura e fu al tempo stesso competente di letteratura, intervenendo su Dante, su Petrarca, su Ariosto e su Tasso. Ebbe insomma una cultura tanto scientifica quanto umanistica. Nella sua libreria figuravano tanto Euclide e Archimede quanto Plauto, Terenzio, Giovenale, Marziale e molti altri poeti latini, tanto il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico quanto le opere di Boccaccio e il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra. Non da ultimo è stato anche un grande prosatore, al punto che Italo Calvino è arrivato a sostenere che Galilei è «il più grande scrittore della letteratura italiana d’ogni secolo» (Una pietra sopra, 1980, p. 183). È stato forse l’ultimo scienziato che ha avuto quasi pari competenze nei due universi del sapere, anche se proprio a seguito della sua opera e all’affermazione del suo metodo scientifico è stato anche quello con cui è cominciato, con la rivendicazione di un modo di procedere specializzato e di esclusiva pertinenza della scienza, il divorzio tra le cosiddette due culture.
In linea di principio, infatti, Galilei è un convinto sostenitore di una netta separazione tra scienza e letteratura, trattandosi per lui di due stili di pensiero antitetici. L’uno, il discorso scientifico, ricerca esclusivamente il vero, l’altro, quello della letteratura, dotato di una giurisdizione molto più estesa e meno specialistica perché si occupa del verisimile, sconta questa sua maggiore estensione con l’approssimazione, l’incertezza e l’opinabilità dei risultati. È dunque la riproposta della distinzione classica tra episteme e doxa. Passando però dal piano teorico degli enunciati generali a un piano concreto, la realtà è molto diversa, perché Galilei ha sempre mostrato durante tutta la vita di scienziato di essere molto sensibile al valore anche estetico della scrittura. A volgerlo verso la letteratura, anche quando faceva scienza, furono lo straordinario entusiasmo con cui voleva diffondere le nuove scoperte e il conseguente sforzo di fare sempre nuovi proseliti, soprattutto presso lettori colti e raffinati, alternativi al mondo accademico. Per ricorrere a una sua dichiarazione, molto moderna ed efficace, l’intento fu quello di «rifar i cervelli degli uomini» (Le opere, Ed. nazionale a cura di A. Favaro, 7° vol., 1897, p. 82), e per ottenere questa radicale rivoluzione mentale non era sufficiente la logica impersonale delle dimostrazioni scientifiche, ma si richiedevano strumenti più persuasivi. Ecco allora, oltre alla scelta dell’italiano al posto del latino, la decisione di affidare il suo discorso scientifico a un genere letterario, quello del dialogo, al posto del canonico trattato. Se sul piano gnoseologico il Dialogo sopra i due massimi sistemi [...] prese a modello i dialoghi socratici di Platone, sul piano strutturale e argomentativo assunse lo schema del De oratore di Cicerone, avendo in comune la presenza di tre personaggi di cui uno difende le tesi copernicane, un altro le tesi aristoteliche e un terzo funge da giudice, nettamente parziale a favore di ciò che sostiene l’autore. Anziché essere porto con disquisizioni filosofiche che rischiano di cadere nell’astrazione e nell’aridità espositiva, il moderno sistema eliocentrico viene esposto con lo strumento letterario di una civil conversazione tra gentiluomini.
Non a caso la ricezione dei Massimi sistemi fu analoga a quella di un’opera letteraria: qualche lettore confessò a Galilei di avere provato lo stesso piacere di quando leggeva l’Orlando Furioso, un altro definì l’opera una commedia filosofica. Qualcosa di simile si può dire dei lavori di Giordano Bruno, anche se i suoi discorsi non riguardano l’astronomia quanto la metafisica, presentata ora con l’irrisione della parodia e del grottesco, ora con il lirismo dell’entusiasmo, ora con l’enfasi del predicatore, tutte qualità più letterarie che scientifiche. Particolarmente predisposta in questo senso è la medicina, dove a contare non poco è il placebo esercitato dall’edonismo verbale della formula elegante, della battuta arguta, dell’aneddoto sapido: tutte doti letterarie che hanno fatto la fortuna dei Consulti medici di Francesco Redi, che fu anche un valente naturalista, cui si deve la risolutiva smentita della generazione spontanea. Paradossalmente la nuova scienza, proprio mentre invoca con Galilei un austero linguaggio denotativo, che rifugga dal servirsi «d’argomenti probabili, di conghietture, d’essempi, di verisimili ed anco di sofismi» e ricorra «alla severità di geometriche dimostrazioni» (Le opere, cit., 6° vol., 1897, p. 296), sente il bisogno di curare anche la forma letteraria come ulteriore sussidio con cui vincere la resistenza ostinata del vecchio paradigma aristotelico.
Si potrebbe pensare che se nel Seicento le scoperte e le invenzioni degli scienziati innovatori diventano subito argomenti affrontati dai poeti sia anche perché già alla fonte esse possedevano una veste letteraria. In realtà la ragione è un’altra. L’individuazione delle irregolarità della superficie lunare, dei satelliti di Giove, delle macchie solari, della vera natura della Via Lattea o, per passare dal macro al microcosmo, le rivelazioni dell’anatomia degli insetti e la presenza degli spermatozoi segnarono una rivoluzione epocale, infrangendo la vecchia concezione di un universo antropocentrico. Le conseguenze erano sconvolgenti perché di colpo il cannocchiale fece vedere che i cieli erano corruttibili, che non era vero che l’intero universo girasse intorno alla Terra, che la centralità dell’uomo era solo una presunzione, dal momento che le migliaia di stelle che si aggiungevano a quelle viste a occhio nudo implicavano l’infinità dell’universo, senza dire della possibilità che ci fossero altri mondi abitati. Per il loro traumatico impatto sull’immaginario collettivo le verità della scienza pubblicate con il Sidereus Nuncius, nel porre fine a millenarie certezze, uscirono dai recinti degli addetti ai lavori e furono subito accolte dalla gente comune e dagli scrittori barocchi con una doppia e ambivalente reazione emotiva. Se per un verso indussero al pessimismo perché cancellarono le tranquille certezze cosmologiche e segnarono la fine di un’epoca, per un altro verso annunciarono ottimisticamente tempi nuovi.
Vanificando le facili schematizzazioni, opposti stati d’animo convissero anzi dialetticamente, oscillando tra esaltazione e angoscia, eccitazione e smarrimento. Per un verso, la detronizzazione della Terra, la coscienza dello sfiorire di una natura che manifestava la sua imperfezione anche nei cieli e la decadenza di un mondo che quasi all’improvviso la nuova scienza svelava essere rancida preda della mutevolezza e della sproporzione, subentrate all’ordine e all’unità del passato, destarono sconcerto e perfino disperazione; per un altro verso, l’assenza di confini e la magnificenza dell’universo infinito suscitarono gratificazione ed esultanza. Nel revocare tutti al dubbio, la nuova scienza liberò l’uomo dall’angustia di un mondo finito, per cui quello che si perdeva in sicurezza e familiarità si guadagnava in grandezza. Impressionava favorevolmente, nell’impresa di Galilei, l’«audacia» dell’uomo, in un secolo in cui sono avvenuti consistenti progressi nella conoscenza della natura.
Il cannocchiale, lo strumento che li aveva consentiti, divenne non solo l’oggetto metonimico rappresentativo dello stesso Galilei, ma anche l’emblema dell’uomo barocco, sintesi della contraddizione e dell’ossimoro, in quanto la magnificenza delle conquiste umane era dovuta a una creatura dall’esistenza labile e precaria, identificata da Blaise Pascal in una canna pensante, la più fragile della natura, ma una canna che pensa. Con arguzia epigrafica ne compendia bene la natura Giovan Battista Marino, il quale, dopo averlo fatto consistere in «un picciol cannone e duo cristalli» (L’Adone, a cura di G. Pozzi, t. 1, 1976, X, 42, 8), con un’apostrofe augurava al cannocchiale che «dele tue lunette il vetro frale / tra gli eterni zaffir resti immortale» (X, 46, 7-8). Per un poeta che perseguiva una poetica della meraviglia, le nuove scoperte scientifiche risultavano quanto mai confacenti a essere cantate in versi, e l’Adone, un poema mitologico, attraverso l’espediente della profezia si impossessò con tempestività di ciò che Galilei aveva fatto conoscere con il Sidereus Nuncius. Nell’immaginare un viaggio del protagonista nel Giardino dei cinque sensi in compagnia di Mercurio, il racconto giunge a descrivere le risorse dell’occhio e della vista, creando il pretesto per esaltare l’opera di Galilei (X, 42-46). La meraviglia per un lettore è duplice, dovuta non solo alla versificazione delle scoperte astronomiche, che rovesciavano credenze radicate, ma anche all’immissione nel codice verbale della poesia di un lessico che fino allora le era stato estraneo, colorandola di un inedito pimento. Il linguaggio che gli scienziati impiegavano con valore denotativo, in Marino acquista un valore connotativo, per l’effetto straniante destato dall’immissione della terminologia specialistica della scienza nel contesto di un poema epico. Ciò vale, nella descrizione dell’anatomia e della fisiologia degli organi di senso, per la lingua della medicina.
Scienza e letteratura attingono il loro lessico dalla lingua comune, convertendolo in termini specialistici. Nell’anatomia dell’occhio l’elemento metaforico intervenne dapprima a livello aggettivale, in modo che la parte che assomiglia a una lente, svolgendone la funzione, si designò come costituita di «umor cristallinus», la rete spugnosa del bulbo oculare divenne la «tunica uvea» per assomigliare a un grappolo d’uva, la membrana dura e trasparente si designò «tunica cornea». In un secondo tempo, con un processo di abbreviazione rispondente al principio scientifico della massima economicità, si sostantivò l’aggettivo e si parlò per sempre di cristallino, di uvea, di cornea. Marino, a sua volta, ritorna alla metafora originaria, per restituire alle parole la concretezza originaria (G.B. Marino, L’Adone, cit., t. 2, 1976, pp. 58-59):
di tuniche e d’umori in vari modi
havvi contesto un lucido volume
ed uva e corno e con più reti e nodi
vetro insieme congiunge, acqua ed albume;
che son tutti però servi e custodi
del cristallo, onde sol procede il lume
(VI, 33, 1-6).
Si capisce perché, essendo il risultato di un’operazione sintetica, la metafora sia stata al centro della trattatistica barocca, e l’ingegno che ne è all’origine sia stato la facoltà mentale privilegiata, in quanto risorsa capace di trovare relazioni tra oggetti e concetti distanti. In un sistema che è andato in frantumi, tutti i vettori che stabiliscono connessioni per via analogica sono i più coltivati per scongiurare il minacciato divorzio tra le discipline. Un gesuita, Daniello Bartoli, che nell’esercitare una pedagogia umanistica condivise il ruolo non secondario che il suo ordine religioso attribuiva alla scienza, si servì delle osservazioni naturali con l’intento – per parafrasare il titolo di una sua opera – di ‘trasportarle al morale’, ovvero di convertire i segni astratti e formali della scienza in simboli, geroglifici di un mondo che secondo il suo temperamento religioso era anche una teofania. Mentre in Marino la scienza è un mezzo per stupire e divertire, in Bartoli il diletto e l’ammirazione del creato diventano anche monito e insegnamento morale. Una teatralità istintiva, un edonismo pittorico, un amore per la spettacolarità orientano i referti della scienza «ad maiorem gloriam Dei». Finita l’ideologia controriformistica, la vocazione didascalica della letteratura, desiderosa di appianare gli enunciati sempre più ispidi della scienza, rimarrà anche nel Settecento, privata però delle pronunzie parenetiche e delle risonanze patetiche che in età barocca la proiettavano sul divino.
Nella civiltà un poco frivola del Settecento, in cui ogni persona di mondo pretende di essere à la page, si intensifica la domanda di divulgatori che rendano accessibile anche ai profani il discorso sempre più arduo e iniziatico della scienza. Nell’opinione pubblica si propagano vere e proprie mode derivate da scoperte scientifiche capaci di colpire l’immaginario. Basti pensare ai primi studi sull’elettricità, che suscitano tanto interesse da indurre Eusebio Sguario a scrivere un’opera, intitolata appunto Dell’elettricismo (1746), che insegna anche alle dame il modo di percepire la scossa elettrica per mezzo dello strofinamento di una palla di vetro o le procedure con cui elettrizzare un gatto. Il modello per questo genere di libri è costituito dai brillanti Entretiens sur la pluralité des mondes di Bernard Le Bovier de Fontenelle, editi nel 1686. Nel loro corrispettivo italiano, il Newtonianismo per le dame, posteriore di mezzo secolo, Francesco Algarotti riconosce a Fontenelle di essere stato il primo a «richiamare la selvaggia filosofia da’ solitari gabinetti e dalle biblioteche de’ dotti per introdurla ne’ circoli e nelle tolette delle dame» (Opere, a cura di E. Bonora, 1969, p. 171). Nel secolo dell’Encyclopédie, consacrata insieme a «scienze, arti e mestieri», come recita il titolo più completo, l’ideale professato da tutti è il conseguimento di una formazione equilibrata tra scienza e letteratura.
Secondo Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, estensore nell’Encyclopédie della voce Géométrie, lo scienziato che esercita questa disciplina,
non restando sempre curvo sulle figure e sui calcoli, e interessandosi a questioni di letteratura, di gusto e di filosofia, conserverà contemporaneamente la sensibilità per le cose dilettevoli e il rigore necessario alle dimostrazioni: saprà risolvere un problema, e leggere un poema; calcolare i movimenti dei pianeti e divertirsi a teatro (Enciclopedia, a cura di P. Casini, 1968, p. 666).
Non solo, ma in nome della diffusione del sapere avviene che, da una parte, gli scienziati, in un’età che li elegge a benefattori dell’umanità, fanno di tutto per farsi capire anche fuori dalla loro consorteria imitando la prosa meno tecnica dei letterati e, dall’altra, i letterati cercano di acquisire informazioni dalla scienza per poterle mettere in versi. I poeti sono ancora più espliciti nel rivendicare a sé un ruolo attivo, in modo che gli alambicchi, i compassi, le squadre e gli altri strumenti scientifici, maneggiati con delicatezza e leggiadria dalle Muse, perdano la loro severa e implacabile rigidità geometrica e matematica, abdicando a quell’ostico specialismo che induce Lorenzo Mascheroni a definire «taciturna» l’algebra, appunto perché non ha comunicativa (L’invito. Versi sciolti di Dafni Orobiano a Lesbia Cidonia, 1793, a cura di I. Botta, 2000, p. 16).
L’insistenza con cui i trattatisti del Settecento, nell’intervenire sui rapporti tra letteratura e scienza – esemplare la Lettera sopra l’uso della fisica nella poesia (1765) di Giambattista Roberti –, pongono l’accento sulla «beltà» degli argomenti, sull’opportunità che siano «amabili» (un aggettivo di vasta occorrenza in un Settecento avvezzo a officiare i riti arcadici), e che l’«eleganza» dell’arte adorni con le sue bellezze i sentieri spinosi della scienza sembra un tentativo di tutelare, in anni che assistono agli straordinari successi della fisica prima e della biologia poi, le risorse della poesia, nonostante tutto ancora delegata a quel ruolo di civiltà e di cultura rivestito nelle origini dell’umanità, ma entrato in crisi nel Settecento di fronte al prepotere della ragione che ha quasi del tutto ottenebrato le risorse dell’immaginazione e della fantasia di cui si nutrono gli uomini di lettere. Fin dai primi anni del secolo Giambattista Vico aveva proclamato l’assoluta incompatibilità tra immaginazione e ragione. La prima, vivida all’eccesso nei primordi dell’umanità, aveva prodotto poeti sublimi della grandezza di Omero, ma quegli esempi sono oramai inarrivabili perché lo sviluppo del razionalismo, di cui il cartesianesimo è la dimostrazione estrema, ha atrofizzato gli slanci della fantasia.
Queste tesi sono fatte proprie dai letterati italiani che, nelle polemiche antifrancesi, rivendicano la migliore predisposizione alla poesia della loro lingua, più incline al parlare figurato, laddove la lingua dei transalpini, negata, con il suo esprit de géométrie e il culto delle idee chiare e distinte, alla poesia, tutt’al più può essere adatta, con la sua referenzialità, ai discorsi scientifici. In una stagione dominata dalla poetica oraziana, in Italia si crede ancora che l’«utile» possa convivere con il «dulce», rinnovando, insieme con il ritorno del classicismo, la fortuna del poemetto didascalico. Di fatto però gli ostacoli a questa sinergia sono tanti, nonostante l’alto numero di testi poetici che nel Settecento trattano di materie scientifiche. Per sua natura la poesia concentra il significato nel più ristretto significante, che conserva la sua ricchezza attraverso gli echi e le allusioni connotative. Ma ormai i contenuti della scienza, affidati a un veicolo denotativo, si sono tanto dilatati da apparire incomprimibili. Per un verso, l’uomo di lettere si arroga il potere di abbellire il messaggio scientifico, per un altro, si pone in una posizione subalterna, di mero epitomatore e divulgatore di conoscenze cui evidentemente si assegna un prestigio oramai necessario per la nobilitazione della stessa poesia. Si oscilla così tra un atteggiamento di collaborazione paritetica e un atteggiamento succubo, quasi di feticistica venerazione, più ostentato nelle opere poetiche che nella teoria, dove vige in linea di principio la legge dell’equilibrio.
In ogni caso, il prestigio goduto dalla scienza nel Settecento e il suo influsso sulla letteratura portano in questo campo delle modificazioni che lasciano il segno. A livello lessicale il linguaggio denotativo della scienza si allea al classicismo per combattere l’oscurità delle poetiche barocche, in modo che la letteratura assimila, anche con l’aiuto degli strumenti analitici offerti dal sensismo, le esigenze del linguaggio scientifico, fatto di efficacia, chiarezza, precisione, economia, traducibilità. Sono aspetti individuabili per esempio nella poesia di Giuseppe Parini. Nel Giorno egli ha buon gioco nel fare rivivere il mito di Prometeo che avrebbe infuso la vita nell’uomo con una scintilla rapita al Sole, rifacendosi alla teoria fisiologica del «fluido», reso popolare dalla fortuna degli studi di Luigi Galvani sull’elettricità animale.
Ancora più vistosi sono gli effetti sui contenuti del discorso letterario, che nel clima salottiero del tempo viene a occuparsi dei temi di moda dell’elettricismo, del magnetismo, dell’inoculazione del vaiolo e, a partire dall’impresa dei fratelli Joseph-Michel e Jacques-Étienne Montgolfier, del pallone aerostatico, celebrato tra i tanti sia da Vittorio Alfieri sia da Vincenzo Monti. Fisica, chimica, astronomia, scienze naturali, medicina diventano materie degne di essere esposte in versi. La spettrografia è quanto mai ampia: si può andare dai componimenti ancora saldamente tradizionali, con appena qualche giustapposizione di argomenti scientifici di moda, come nel caso della Vita rustica di Parini, dove la terminologia scientifica riveste una funzione meramente decorativa, a testi dal contenuto prevalentemente nuovo nonostante il suo innesto su un impianto tradizionale.
Muta anche la gerarchia dei generi: decade la lirica (specie quella amorosa di ascendenza petrarchista), si diffonde come si è detto il poemetto didascalico, si favoriscono i prosimetri che fanno convivere la concentrazione sintetica della poesia e un autocommento in prosa più disteso, con funzioni esplicative. In generale, la prosa, con il genere del saggio e dell’articolo per le gazzette, acquista sempre più spazio. Nasce il racconto filosofico e il racconto fantastico si nutre di enunciati scientifici. Tuttavia anche quando i temi sono scientifici, si devono rispettare le regole della convenienza, ovvero del verisimile. Per es., non è lecito disquisire di armi o dell’invenzione della polvere da sparo nell’empireo. E i temi scientifici, come non vanno affrontati in luoghi non adatti ai loro caratteri, così devono essere congrui ai tempi, ai personaggi, ai generi letterari opportuni, rinunciando anche a ricorrere a tecnicismi altrettanto stonati.
Anche la mitologia, che sarà uno dei temi della polemica dei romantici contro i classicisti, muta, almeno in teoria, il suo assetto. Per es. Urania, che era la musa dell’astronomia e del poemetto didascalico, diventa il simbolo dell’armonia universale, mentre Amore, figlio di Venere, capace di fare innamorare gli uomini, diventa la personificazione della forza di gravità che tiene unito il cosmo, «degli orbi informi ordinator sovrano» (A. Conti, Il globo di Venere, a cura di M. Farnetti, 1992, p. 65).
Eppure, nonostante tutti questi sforzi di adattamento, alla fine del secolo ci si rende conto che ormai, dopo tanti tentativi, la poesia non può più fare propri gli argomenti di una scienza che nel frattempo si è sempre più specializzata e allontanata dal linguaggio comune, e a maggior ragione dal linguaggio poetico. Alle soglie del Romanticismo cade l’illusione che la poesia possa adeguatamente celebrare la scienza. Viene a prevalere la nostalgia, il desiderio inappagato, la neoclassica Sehnsucht di un’antichità in cui il sapere letterario e il sapere scientifico erano pienamente integrati. Come si duole Ugo Foscolo nelle Grazie, «era più lieta / Urania un dì quando le Grazie a lei / il gran peplo fregiavano» (Le Grazie, a cura di M. Scotti, in U. Foscolo, Poesie e carmi, 1985, p. 686). I verbi irrimediabilmente al passato («era», «fregiavano»), l’evocazione del tempo remoto («un dì») in cui del tutto spontaneamente la poesia offriva il fregio delle sue bellezze sono la prova che ormai la speranza di potere riunificare scienza e letteratura è svanita. Sta per comparire un Leopardi che di lì a poco sancirà con dolore la loro reciproca incompatibilità. Dopo tante dichiarazioni che nel Settecento si erano espresse a favore del connubio di scienza e letteratura, nell’Ottocento ci si arrende alla loro separazione.
Se il Settecento era dominato dall’entusiasmo per i progressi della scienza, nel secolo successivo prevalgono il disinganno e la diffidenza. Lo stesso Foscolo, nella fase disincantata in cui si firmava Didimo Chierico, ebbe a rammaricarsi che
la geometria, non applicabile alle arti, era una galleria di scarne definizioni; e che, malgrado l’algebra, resterà scienza imperfetta e per lo più inutile finché non sia conosciuto il sistema incomprensibile dell’Universo (Scritti didimei, a cura di G. Luti, 1974, p. 214).
Lo scetticismo foscoliano si converte in critica feroce nei filosofi reazionari che, da Joseph de Maistre a François-René de Chateaubriand, accusano la scienza di materialismo e di apportare la decadenza di una civiltà. I primi romantici, a cominciare da William Wordsworth, aggiungono un ulteriore capo di imputazione, quello di soffocare l’immaginazione, e quindi di minacciare l’esistenza stessa della poesia. Vero è che, con la fortuna della teoria dell’elettricità animale di Galvani e con la diffusione del mesmerismo, più che bandire la scienza tout court si rifiuta la sua impostazione meccanicistica, mentre se ne apprezza una visione organicistica della natura per una forma di vitalismo che sottintende un’attività creatrice. Sicché in definitiva, più che temere la morte dell’arte preconizzata da Georg Wilhelm Friedrich Hegel, la scienza sembra preannunciarne nuovi esiti.
È ciò che auspicò in Italia il gruppo che fece capo al «Conciliatore», tra cui chi si incaricò con più determinazione di assegnare i nuovi compiti che, per impulso dei progressi della scienza, attendevano la letteratura del Romanticismo, fu Ludovico Di Breme. Il quale invitò i letterati a prendere atto che la scienza e la tecnica avevano impresso modificazioni così profonde sulla vita intellettuale degli uomini, che anche la letteratura ne doveva tenere conto e rivedere il vecchio arsenale del linguaggio poetico e dell’antica mitologia di cui si denunziava tutta l’obsolescenza. Anche Karl Marx, qualche anno dopo, si sarebbe chiesto se avesse ancora senso parlare di Giove dopo l’invenzione del parafulmine, o di Vulcano dopo i progressi dell’industria metallurgica.
Le pronunzie di Di Breme furono confutate dal giovane Giacomo Leopardi, che elevò la sua disperata protesta contro la folle presunzione di credere che «la vicendevole fratellanza delle scienze e delle arti, i miracoli dell’industria, l’esperienze le scoperte gli effetti dell’incivilimento daranno lena […] alla fantasia», quando invece il vero della scienza distrugge le illusioni e annienta proprio quella libertà di immaginare su cui si fonda la poesia. E con sarcasmo irrise la moderna «scienza dell’animo umano», che per poco «non s’espone con angoli e cerchi, e non si tratta per computi e formole numerali» (Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, a cura di O. Besomi, 1988, p. 22). Dopo avere pagato, a quindici anni, il suo tributo alla scienza, con una Storia dell’astronomia culminante con la celebrazione di Isaac Newton, e avere denunciato con puntiglio illuministico gli errori popolari degli antichi, Leopardi si rese conto che l’incedere analitico della scienza, mentre vorrebbe conoscere la natura, se ne allontana perché da una parte la decompone artificiosamente, e dall’altra, sotto l’azione della ragione che elabora concetti universali e astratti, la rende uniforme, riducendo la varietà dei fenomeni ai rapporti numerici delle leggi matematiche.
Ne deriva un impoverimento anche lessicale, dal momento che la nomenclatura della scienza è, per il suo carattere denotativo, non solo universale ma anche preciso, tutto all’opposto del linguaggio poetico, che è vago e polisemico. Nel distinguere i «termini» della scienza dalle «parole» della letteratura, Leopardi fissa un’antitesi tra la precisione dell’una e l’eleganza dell’altra. La sua sensibilità estetica però lo risparmia dall’essere conseguente fino in fondo dinanzi all’esempio della prosa «splendida» di Galilei, che nella Crestomazia italiana, nata in implicita contrapposizione ad analoga silloge francese, è lo scrittore più rappresentato. La perentorietà di certe affermazioni apodittiche dello Zibaldone («[…] la letteratura e poesia vanno a ritroso delle scienze», 20 luglio 1821) si mitiga quando Leopardi vuole rivendicare la superiorità della lingua italiana su quella d’oltralpe. Se infatti avesse continuato a sostenere l’inconciliabilità ontologica, assoluta e universale dei linguaggi filosofico-scientifici e poetici, non avrebbe più potuto rivendicare l’eleganza della prosa italiana sulla secca aridità del francese. In questo confronto patriottico risulta che in Italia, a differenza dei Paesi oltramontani, la prosa anche moderna e filosofica si è mantenuta nobile e letteraria per la compresenza di ragione e natura, precisione ed eleganza, logica e immaginazione.
In verità, la posizione di Leopardi su questo punto non è sempre coerente, e sembra più tattica che frutto di una convinzione. Di là dalle oscillazioni di enunciati che a volte si contraddicono anche a distanza di pochi mesi, l’asserto di cui è più convinto è quello della canzone Ad Angelo Mai: «[…] A noi ti vieta / Il vero appena è giunto, / O caro immaginar […]» (vv. 100-102). E se il vero preclude l’attività dell’immaginazione, non consegue solo un impoverimento spirituale ma anche un danno pratico, visibile nel campo della medicina, del quale Leopardi aveva acquisito una conoscenza pari almeno a quella dell’astronomia. La sua tesi è che il progresso attuale nella cura delle malattie non tiene il passo del parallelo decadimento fisico prodotto dalla civiltà moderna, cui si deve un indebolimento del corpo umano che la medicina non riesce a curare, anche perché, invece di assecondare la natura, se ne è allontanata.
Nel corso dell’Ottocento, tuttavia, la scienza medica, così poco stimata da Leopardi, è destinata ad acquistare sempre maggior prestigio, al punto che sono davvero tanti i romanzi e le novelle fin-de-siècle che hanno per protagonista la figura del medico, allorché la fisiologia fu promossa a scienza ausiliaria della psicologia e della sociologia. Ciò si deve alla fortuna del positivismo, che assunse il metodo empiristico peculiare della medicina quale antidoto alla metafisica e la sua concreta diagnostica per contrastare l’idealismo. In Italia, a farsi paladino di una prospettiva culturale in cui fossero messe al bando le «quisquilie tipografiche» di una letteratura inutile e «ciarliera» e si sostituissero con le «rivelazioni» della scienza fu Carlo Cattaneo, che si fece portavoce di queste istanze nel «Politecnico», uscito nella sua prima stagione dal 1839 al 1844. Il periodico ritorno di analoghe richieste (qualcosa di simile si erano augurati nel Settecento Ludovico Antonio Muratori e Giuseppe Baretti) è la spia di quanto fosse difficile in Italia l’avvento di una letteratura che non si proponesse come fine primario il culto della forma. A porlo in secondo piano a favore di una rappresentazione più diretta della realtà, e quindi sotto l’influenza del metodo scientifico, fu il verismo, che s’impose con una quarantina d’anni di ritardo rispetto alle speranze di Cattaneo, che per altro pensava più alla saggistica che alla narrativa.
Negli anni in cui la rivoluzione industriale si affacciava anche in Italia, De Sanctis constatava che la scienza «è incoronata, è la regina de’ popoli, sulla sua bandiera è scritto: ‘In hoc signo vinces’» (Saggi critici, cit., p. 162). In effetti la fiducia nei suoi confronti era così tanta che si cercava di estendere alle scienze morali i metodi delle scienze naturali. Il medico Paolo Mantegazza propose di applicare al romanzo le procedure mediche della fisiologia; la critica letteraria, con la Scuola storica, volle conferire scientificità alle sue analisi attraverso il rigore della filologia. In verità, gli scrittori furono un po’ meno convinti. Giovanni Verga, nella prefazione all’Amante di Gramigna, edito nel 1880, invocava sì uno «scrupolo scientifico» nello sviluppare un racconto (Tutte le novelle, 1° vol., 19717, p. 200), ma poi, venuto a conoscenza delle tesi del Roman expérimental, uscito nello stesso anno, in cui Émile Zola pretendeva che gli scrittori si conformassero sempre alle verità della scienza ripudiando le loro ipotesi di partenza quando queste non fossero allineate, manifestò la propria riluttanza ad accogliere fino in fondo ciò che si predicava in Francia.
Perfino Luigi Capuana, che a differenza di Verga intervenne più diffusamente a esporre e a difendere la poetica verista, pur richiamandosi alle tesi di Claude Bernard, per il quale la fisiologia umana era il mezzo per conoscere pure le passioni, non arrivò mai a pensare che anche i sentimenti si potessero spiegare con l’azione dei nervi e del sangue, quantunque le sue opere siano piene di figure di medici. In realtà la sua formazione fu molto ibridata, con il materialismo che si intrecciava con l’idealismo, sicché non è poi strano che alla fine Capuana abbia finito per abbracciare lo spiritualismo, nel momento in cui la crisi del positivismo spinse Ferdinand Brunetière, a metà degli anni Novanta, a sancire la bancarotta della scienza. Al termine di quel decennio, anche Giovanni Pascoli, nell’interrogarsi su cosa avrebbe recato L’èra nuova del secolo che stava per cominciare, rilevava l’apporto contraddittorio e bivalente della scienza, che per un verso aveva recato «benèfici ritrovati», ma per un altro verso aveva potenziato enormemente le capacità distruttive. In questo modo essa aveva fatto vedere la vera natura, l’«essenza» dell’uomo, che ha tuttora «nelle dita i vecchi artigli e nelle mandibole le vecchie zanne e nel cuore la vecchia ferocia di cannibali» (Prose I, a cura di A. Vicinelli, 1956, pp. 109-10). Non è chi non scorga in questo asserto un’eco di una nota tesi di Charles Darwin, secondo cui «l’uomo conserva ancora, nella sua struttura somatica, il segno indelebile della sua origine da una forma inferiore» (L’origine dell’uomo, a cura di F. Paparo, 1966, p. 243).
In questo senso la scienza, pur fallendo i suoi fini ultimi, per non essere riuscita a vincere la morte, nemmeno con il suo titanismo, e anzi rendendola ancora più dolorosa perché ha migliorato le condizioni di vita con un maggiore benessere materiale, ha avuto per Pascoli conseguenze positive in quanto ha messo in risalto i limiti dell’uomo, la sua insignificanza, il suo essere – si legge nella lirica La pecorella smarrita – «scheggia, grano, favilla, atomo, nulla». Più manchevole è stata semmai la letteratura, che non ha saputo trasformare le verità scoperte dalla scienza in una diversa concezione della vita capace di penetrare nelle coscienze degli uomini. Con la consapevolezza della loro connaturata debolezza e del loro destino tragico, non hanno più senso la sete di potere e le guerre fratricide. Nel fare emergere il suo socialismo irenico e umanitario, Pascoli affida ai poeti il compito di pacificatori, sublimando nell’uomo il bruto ancestrale dei primordi. Con le sue verità la scienza è dunque portatrice di angoscia che la letteratura, foriera di nuovi valori, deve convertire in fratellanza.
Il darwinismo di fondo è in Pascoli declinato in senso nichilistico, anche se convertibile dalla poesia a un significato edificante. Ma a fine Ottocento le teorie evoluzionistiche si prestano a molteplici visioni, anche divaricate, come si può vedere in quella più ottimistica di Antonio Fogazzaro che nel 1899, lo stesso anno dell’Èra nuova pascoliana, faceva uscire i suoi scritti darwiniani raccogliendoli sotto il titolo di Ascensioni umane. Pur riconoscendo la grandezza di Darwin, questo libro ne respinge le conclusioni materialistiche contrapponendogli un evoluzionismo in sintonia con il principio creazionista cristiano. L’evoluzione degli esseri non è dovuta al caso, ma a una «forza occulta» creata da Dio in vista della comparsa dell’uomo. Viene così ripristinato quel teleologismo che The origin of species voleva negare. Nell’interpretazione di Fogazzaro la teoria che sanciva la fine dell’antropocentrismo segna l’avvento di un disegno provvidenzialistico molto più ampio. Nel porre la scienza sotto l’egida della fede i progressi materiali non generano più una decadenza morale, ma anzi insegnano a scorgere nella natura un disegno divino che quindi la investe anche di valori.
Non si deve perciò pensare che la crisi del positivismo significhi automaticamente la crisi della scienza, almeno tra i letterati che, secondo una loro costante, si dividono in ‘apocalittici’ e ‘integrati’. Nonostante gli impressionanti sviluppi della scienza, a fine Ottocento non si dispera in una sua conciliazione con la letteratura. Tra i più convinti è Gabriele D’Annunzio che in un’intervista rilasciata nel 1895 a Ugo Ojetti respinge ogni «profezia funebre» contro l’arte. Dichiarando «falso» il «principio dell’inconciliabilità dell’arte con la scienza», all’artista si assegna il compito di armonizzare, unificare, sintetizzare il pluralismo delle specializzazioni scientifiche. In realtà, di là dai proclami, il letterato non si occupa della scienza per darle armonia, ma ne isola gli aspetti abnormi e patologici. Seguendo la moda del tempo D’Annunzio sollecita lo studio della malattia, in particolare «dei degenerati, degli idioti, dei pazzi», una tematica che prova come la scienza renda «all’arte l’antico elemento che pareva dovesse per sempre mancarle: il Meraviglioso» (U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati, a cura di P. Pancrazi, 1946, p. 363). Questa posizione arretrata trova conferma in Maia, il poema del 1903 in cui il catalogo dei moderni ritrovati della tecnica, dalla corazzata alle stazioni radiotrasmittenti e radioriceventi, dalle presse dell’industria pesante alle macchine dell’industria alimentare, dal telegrafo alle scardassatrici, è trasfigurato in mito ellenico, con lo stesso lessico di Omero e la presenza degli dèi dell’Olimpo. Siamo ancora sulla linea anacronistica del poemetto didascalico, per altro perseguito ancora in età positivistica da Giacomo Zanella e dai suoi epigoni. Questo D’Annunzio stupefatto dai prodigi della scienza e della tecnica, più che aprirsi al 20° sec., chiude quello precedente.
Preannunziato dall’Èra nuova di Pascoli, il Novecento si apre con un generalizzato rifiuto della scienza da parte degli umanisti. Lo spiritualismo, l’intuizionismo, l’idealismo dei filosofi si alleano con il simbolismo e il neoromanticismo dei letterati per criticare un sapere che genera smarrimento e terrore. Se ne fa interprete Luigi Pirandello che, ponendosi sulla linea di Leopardi, già implicita anche in Pascoli, imputa agli scienziati la responsabilità di avere fatto crollare il vecchio mondo antropocentrico senza averlo sostituito con uno nuovo, privando l’uomo delle illusioni donategli dalla natura che con l’inganno dei sensi gli aveva fatto credere di vivere immobile al centro dell’universo. L’invettiva scagliata nel Fu Mattia Pascal (1904) contro l’astronomo che sostenne il moto della Terra («Maledetto sia Copernico!») deriva dall’avere reso l’uomo consapevole di vivere su un’«invisibile trottolina», su un «granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino» (Il fu Mattia Pascal, 1976, p. 30). E come si perde l’identità del cosmo, privo di centro e di confini, così si perde l’identità dell’uomo e la sua persistenza ontologica. Da una parte l’uomo acquista la coscienza di avere una personalità perennemente cangiante, dall’altra si trova prigioniero di un mondo sempre più dominato dalla macchina, in un’epoca in cui, avrebbe commentato Walter Benjamin, perfino l’opera d’arte è contrassegnata dalla riproducibilità tecnica che la paralizza per sempre. Viene di qui l’ispirazione per un romanzo quale i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in cui si descrivono gli effetti di alienazione del cinema, che degrada l’uomo a semplice «mano che gira la manovella» della cinepresa.
Con quest’opera, uscita nel 1915 con il titolo di Si gira…, Pirandello prende le distanze dagli entusiasmi dei futuristi, che tuttavia, più che la scienza, prendono a feticcio la tecnica, non senza parecchie contraddizioni. Dei suoi prodotti Filippo Tommaso Marinetti e la sua troupe amano, con un processo estetizzante, l’ordine, la precisione, la funzionalità, l’efficienza, ma poi esaltano l’eccezionalità, la mostruosità, l’estremismo, l’esasperazione. Parallelamente lodano il linguaggio nudo e referenziale della scienza, con la sua «sensibilità numerica» e gli «anonimi segni» della matematica, ma poi si tuffano nel gorgo vorticoso delle analogie, nella giustapposizione di immagini tra loro incompatibili, nell’irrazionalismo di un «maximum di disordine» (F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, 1968, pp. 91, 66, 44). Ci volle la tragedia della Prima guerra mondiale, in cui la scienza si mise al servizio dei massacri di massa, per indurre la letteratura a una misura più sorvegliata, predisponendola alle «meditazioni» epistemologiche di Carlo Emilio Gadda.
A prima vista anche nelle opere letterarie dell’ingegnere delle nostre lettere la formazione scientifica, garante della massima precisione e del rigore terminologico, si contamina facilmente per l’intervento della deformazione espressionistica, del registro aulico e del lessico dialettale, inglobati per giunta in una sintassi arcaica. Non si tratta però di un’esibizione di bravura, ornamentale e fine a se stessa, ma di una scelta che si fonda su ragioni epistemologiche, il cui valore euristico presuppone che conoscere significhi sempre intervenire sul reale, modificandolo. Pur essendosi nutrito di una solida cultura positivistica, Gadda, facendola interagire con altre filosofie (in primis la teoria di Leibniz sui compossibili), non può più accettare la purezza denotativa della lingua, inadeguata a rappresentare i sistemi complessi e il pluralismo delle concause destinate a tessere continue trame relazionali. All’immagine deterministica della «catena crudamente obbiettivante» egli contrappone «quella di una maglia o rete: ma non di una maglia a due dimensioni […] o a tre dimensioni […], sì di una maglia o rete a dimensioni infinite. Ogni anello o grumo o groviglio di relazioni è legato da infiniti filamenti a grumi o grovigli infiniti» (Meditazione milanese, a cura di G.C. Roscioni, 1974, p. 79). Discendono da queste premesse i principi più saldi della poetica gaddiana: la tensione enciclopedica del «pasticcio», espressione di una realtà caotica, ovvero della «baroccaggine» del mondo, e l’ostinata avversione alla tesi dell’unicità dell’io, «il più lurido dei pronomi», ancora in vita nonostante che la scienza abbia chiarito che «il cosiddetto ‘uomo normale’ è un groppo, o gomitolo o groviglio o garbuglio, di indecifrate (da lui medesimo) nevrosi» (I viaggi la morte, 1958, 1977, p. 21).
Nell’altro ingegnere della letteratura novecentesca, Leonardo Sinisgalli, l’interazione di scienza e letteratura avviene soltanto in un secondo momento, dopo che le premesse teoretiche ne avevano sancito l’autonomia. Nella sua ricostruzione retrospettiva gli anni della giovinezza furono contrassegnati da un’immagine della scienza di tipo platonico, metafisico, come si addice a un universo incontaminato e puro, a un iperuranio che non conosce i limiti della materia. Erano i giorni in cui, studente di una facoltà scientifica, traeva dalla matematica un incanto che lo acquietava proiettandolo nella dimensione di un ascetismo pitagorico appagato da un’armonia celeste, costituita dalla semplicità geometrica della circonferenza, levigata e senza appigli, e dalla perfetta astrazione dei numeri. Gli bastavano la loro impassibilità, la precisione, l’atarassia. Non per caso nel Quaderno di geometria, della metà degli anni Trenta, lo sfondo è costituito da un paesaggio invernale che riflette l’algida natura della scienza, con la sua «aria tersa», la «rigida vigilanza» e il «tranquillo letargo dei sensi» indotto dal contesto «incorruttibile e casto» (Furor mathematicus, 1950, p. 10). Fu insomma una decisa opzione che, come avrebbe detto più tardi Sinisgalli, lo indusse a inerpicarsi sulla «sponda impervia» delle scienze, rinunciando per il momento alla «riva fiorita» della letteratura.
A un certo punto però, stando all’autobiografia mitico-allegorica di Sinisgalli, sopraggiunse la «crisi della matematica», dovuta alla sua immersione nei misteri del sesso e della vita attraverso il simbolo carnale della «donna grassa e rossa» incontrata al postribolo che significherebbe, con l’iniziazione «ad un mistero diverso da quello di Cartesio, di Leibniz, di Gauss», l’esito finale di un conflitto antinomico risoltosi, nella clausola lapidaria del suo Furor mathematicus, con una «vocazione perduta per sempre» (pp. 51-52). Ad accentuare il senso di un abbandono definitivo dello «studio dei neutroni lenti e della radioattività artificiale» al quale l’allievo di Tullio Levi-Civita, Francesco Severi, Guido Castelnuovo e Luigi Fantappiè sarebbe stato condotto sotto la guida del nuovo magistero di Enrico Fermi, è l’insistenza sui caratteri animaleschi di quell’esperienza postribolare, situata a distanza irriducibile dalla rarefazione di quella «cittadella del sublime» rappresentata dall’Università con le sue lezioni sulle «proprietà degli aggregati numerici» (pp. 50-51).
Se ci si accontentasse di queste drastiche pronunzie, si dovrebbe ritenere che nella speculazione di Sinisgalli si sia instaurato un dualismo tra la scienza e la letteratura vissuto secondo un rapporto di esclusione reciproca, come se la sua autobiografia culturale fosse attraversata dalla faglia di una palinodia simile a una conversione con la quale l’ideale giovanile della matematica pura si sarebbe conservato soltanto in contumacia, nel rimpianto di una vocazione perduta, conseguente al ripudio di un sapere abbandonato a favore della poesia. Invece, anziché escludere a vicenda le ragioni della scienza e della letteratura, la poetica di Sinisgalli si fonda in realtà su una loro feconda dialettica che si esprime con la logica inclusiva dell’ossimoro. La prova più evidente è contenuta, fin dal titolo, in Furor mathematicus, nato dalla tensione semantica che s’instaura tra la passione di un «furor» sensuale, derivato da emozioni ancestrali, e la neutra logica dei numeri. Si verifica addirittura una sorta di processo elettrolitico, in cui, contro il pregiudizio che imputa alla scienza la freddezza e l’asetticità di una mente razionale, Sinisgalli le riconosce viceversa la capacità di suscitare quel pathos che più facilmente si attribuisce alla lirica. Le pagine in cui Luigi Fantappiè, il grande scienziato che fu suo maestro, ha enumerato in un libro le sue scoperte sono per Sinisgalli «le più emozionanti, emozionanti per tutti gli uomini che non sono dei torsi di cavolo ma appunto degli uomini» (pp. 43-44). Evidentemente anche lo scienziato vive la sua ricerca con una partecipazione passionale capace di contagiare i lettori.
Per completare quello che si è definito un processo elettrolitico, non basta che gli attributi convenzionalmente assegnati alla letteratura (la partecipazione emotiva, la funzione lirica, il ruolo della fantasia, l’approssimazione, il margine di vaghezza, l’imprevedibilità, la perdita di assolutezza, la tensione utopica e profetica e così via) siano fatti migrare al polo della scienza: in Sinisgalli si verifica nel contempo il processo opposto e complementare. La sua solida formazione di matematico e di ingegnere ha fatto sì che molte delle sue competenze originarie siano riscontrabili anche nell’‘altra’ cultura. Non è senza significato che nel trattare di letteratura egli faccia ricorso al lessico della fisica, descrivendola nei termini di coesione, energia, entropia, forza, gradiente, pressione, temperatura, vettore e così via. Ma soprattutto insiste con pronunzie antiromantiche che pretendono per la poesia il sostegno di leggi sicure, non potendo lasciarla all’improvvisazione. Essa si fonda sul calcolo, sulla misura, sul controllo che i sensi e la ragione fanno sulle dimensioni delle cose. Tutto ciò comporta una teoresi razionale, con un’idea di letteratura nutrita di un’allure riflessiva e magari anche epistemologica.
Assumere i tratti di un altro paradigma consente un effetto straniante di cui si è giovato anche un altro scienziato-scrittore, il chimico Primo Levi, che ebbe una volta a confessare il suo divertimento nel
guardare il mondo sotto luci inconsuete, invertendo per così dire la strumentazione, a rivisitare le cose della tecnica con l’occhio del letterato, e le lettere con l’occhio del tecnico (Opere, a cura di M. Belpoliti, 2° vol., 1997, p. 631).
Gli capitava allora di scoprire che l’assetto della tavola periodica di Dmitrij I. Mendeleev era suscettibile di un’emozione di tipo non solo razionale, ma anche estetica e poetica, determinata dalla constatazione che con l’ordinamento degli elementi chimici il caos dà luogo all’ordine, l’indistinto al comprensibile. Nell’idea di letteratura di Levi non c’è molta differenza tra la costruzione di un esperimento in laboratorio e la costruzione di un racconto, che richiede altrettanta funzionalità, essenzialità, equilibrio. Nel corso di un’intervista arrivò a sostenere con qualche ironia che lo scrittore non doveva imitare Petrarca o Goethe ma i rapportini che si stendono nei laboratori. Per questo Levi si è riconosciuto nella natura duplice del centauro, che non è solo una bella immagine, ma un simbolo euristico di una personalità anfibia, per metà chimico e tecnico e per metà scrittore, ravvisabile in quelle creature mitologiche buone «alla caccia ed al canto, alla guerra ed alla osservazione degli astri» (Opere, cit., 1° vol., 1997, p. 507).
Poiché il mestiere del chimico, che lega catene di molecole, non è poi tanto diverso dal mestiere dello scrittore, che lega insieme parole e idee, anche quest’ultimo deve «diffidare del quasi-uguale […], del praticamente identico, del pressappoco, dell’oppure, di tutti i surrogati e di tutti i rappezzi», perché «le differenze possono essere piccole, ma portare a conseguenze radicalmente diverse» (p. 791). Il nemico da esorcizzare nell’uno come nell’altro campo è il caos, la hyle, la materia riottosa. L’auspicio è l’avvento di un
poeta-scienziato capace di estrarre armonia da questo oscuro groviglio, di renderlo compatibile, confrontabile, assimilabile alla nostra cultura tradizionale ed all’esperienza dei nostri poveri cinque sensi fatti per guidarci entro gli orizzonti terrestri (pp. 788-89).
L’ordine, la perfezione sono mete del chimico e insieme dello scrittore, anche se restano irraggiungibili, ponendosi quali asintoti. Per questo Levi adotta il genere ibrido della fantascienza, dividendosi tra utopia e distopia. Nei racconti che formano il dittico delle Storie naturali e di Vizio di forma per un verso emerge l’ethos di chi nell’interrogare la natura non lesina sforzi per conoscerne i comportamenti e vincerne l’entropia, per un altro verso si biasima la hybris di quanti le vogliono fare violenza, ignorando i limiti ontologici dell’uomo.
Ha dunque visto bene Calvino quando ha notato che in Levi «la stessa disposizione di spirito anima […] l’abito mentale scientifico, la misura dello scrittore e del moralista» (Saggi, a cura di M. Barenghi, 1° vol., 1995, p. 1141). Non potrebbe giudicare diversamente chi come Calvino ha lanciato una «sfida al labirinto» in cui però la lotta all’entropia non ha la pretesa di azzerarla. In uno scritto di grande preveggenza del 1967, intitolato Cibernetica e fantasmi, in cui descriveva il proprio modus operandi richiamandosi alla struttura binaria del computer, Calvino confessava che, di fronte al disordine caotico del reale, soffriva di una particolare nevrosi da lui denominata agorafobia intellettuale. L’esistere, dominato dal disordine, è per lui il regno dell’«informe», del «continuo» e dell’«inclassificabile». Tutto ciò gli crea una specie di panico, di paura per gli spazi aperti e disordinati della vita. E per vincere questa «vertigine» cerca una rassicurazione «dal finito, dal sistematizzato, dal discreto» (p. 217). I giochi combinatori diventano un «esorcismo» che serve a tenere lontano la minaccia della confusione.
Educato alle nitide classificazioni di Linneo in una famiglia di agronomi e botanici, Calvino sembra vivere la nevrosi dell’agorafobia rispecchiando il modo di procedere tipico dello scienziato, un tipo di intellettuale che cerca costantemente di portare l’ignoto al noto, convertendo il caos alla sistemazione rasserenante e ordinatrice di una legge universale. L’entropia, nel momento in cui viene interpretata, diventa segno, razionalità, rapporto costante tra poche unità discrete. Non per caso un paio di Lezioni americane hanno per oggetto l’«esattezza» e la «visibilità», due condizioni essenziali all’abito razionale e scientifico. Calvino però non è uno scienziato, ma uno scrittore, e difatti, subito dopo essere stato colpito dalla sindrome agorafobica e avere reagito riducendo la realtà a poche unità elementari governate da rigorose regole combinatorie, viene preso dalla nevrosi opposta, quella di un’oppressione claustrofobica derivatagli dai limiti e dalle geometrie da lui stesso creati a difesa della propria tranquillità. Evidentemente l’ordine diventa sinonimo di schiavitù e il disordine promessa di libertà.
Se, come abbiamo detto, la nevrosi dell’agorafobia sembra risentire del modo di procedere dello scienziato, che cerca di riportare l’ignoto al noto, la sensazione contraria di claustrofobia sembra più tipica del modo di procedere dell’artista, che con un processo di straniamento cerca di vedere in ciò che è familiare e normale l’ignoto. Le storie di Calvino vorrebbero ridurre la complessità e la caoticità del mondo in un prevedibile sistema binario che porta armonia e ordine, ma poi quando ogni elemento sta per diventare scontato il discorso si interrompe e tutto ritorna problematico, come se si sentisse la necessità di includere nel sistema anche l’imperfezione, espressa con smagliature intenzionali o con mancate corrispondenze. In questo doppio cammino di ‘andata e ritorno’ parrebbe agire il paradosso della letteratura, che codifica le prigioni della norma per potere poi evaderla con lo scarto. Esemplare in questo senso il finale del Castello dei destini incrociati, un libro scritto ricorrendo ai tarocchi utilizzati «come una macchina narrativa combinatoria» derivata dallo sforzo tormentoso di «disporre le carte in un ordine che contenesse e comandasse la pluralità dei racconti» fatti entrare in uno schema unitario (Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, 2° vol., 1992, pp. 1276-77). Sennonché poi al termine dell’opera, dopo che la voce narrante ha ribadito «l’ostinazione maniaca a completare, a chiudere, a far tornare i conti» (p. 543), si immagina che, appena completati tutti gli incastri in un ordine perfetto, intervengano le mani che «sparpagliano le carte, mescolano il mazzo, ricominciano da capo» (p. 546), quasi fossero atterrite dalla perfezione del mosaico composto. L’ambizione di disegnare un mondo chiuso e protettivo finisce per rovesciarsi nel ritorno a un universo indefinito e inquietante.
Alla fine del secondo millennio, che ha scritto il necrologio di ogni determinismo anche in campo scientifico, si assiste all’esito di una struttura narrativa in cui l’ordine è generatore di disordine, dal momento che
tra le forme letterarie che caratterizzano la nostra epoca c’è anche l’opera chiusa e calcolata in cui chiusura e calcolo sono scommesse paradossali che non fanno che indicare la verità opposta a quella rassicurante (di completezza e di tenuta) che la propria forma sembra significare, cioè comunicano il senso d’un mondo precario, in bilico, in frantumi (p. 1389).
Calvino sa bene dalle sue letture di epistemologia che volere scomporre e classificare, costruire modelli e formulare previsioni, si scontra con una realtà fluida e priva di strutture, che si sottrae alla rigidità che l’intelletto vorrebbe imporle. Per quanto il modello elaborato tanto dalla scienza quanto dalla letteratura sia raffinato e complesso, la complessità del reale è sempre di un ordine di grandezza superiore e inafferrabile.
Aspetti generali:
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