Israeliana, letteratura
La l. i. è da considerarsi una letteratura nazionale, strettamente legata alla realtà dello Stato d'Israele, nato nel 1948. Ma prima di avviare una rassegna, inevitabilmente sommaria, dei modi in cui essa concretamente si manifesta, è necessaria una premessa, storica e terminologica a un tempo. La l. i. in quanto letteratura nazionale, infatti, accoglie ma non esaurisce l'eredità della letteratura ebraica, così come la rinascita nazionale del popolo ebraico non chiude i destini della Diaspora, non si sovrappone a essa. In sostanza, anche dopo la creazione dello Stato ebraico, la l. i. non viene a sostituire in toto la letteratura cosiddetta ebraica, che continua invece a essere testimoniata anche al di fuori dei confini d'Israele. Per altro verso, la l. i. esce dai confini della letteratura ebraica se si considerano le opere di scrittori arabi israeliani, i quali usano l'ebraico dentro un contesto culturale che non è quello ebraico, ma più propriamente israeliano. Israele è insomma un crogiolo di esperienze e tradizioni culturali; e in questo senso la l. i. si configura più propriamente come letteratura in ebraico, al di là dei confini dell'identità etnica e religiosa.
È dunque a partire dalla particolare storia che questa lingua ha vissuto e continua a vivere che si può iniziare un percorso all'interno della l. i. e delle molte voci che la compongono, ebraica ma anche araba o di radice più direttamente europea. E l'immagine che meglio illustra il tratto fondamentale dell'ebraico è la stessa usata dal fondatore del sionismo, Th. Herzl, nel titolo del suo romanzo-manifesto, pubblicato in tedesco nel 1902, Altneuland, ossia 'la vecchia-nuova terra': lo stesso si può dire di una lingua che, a partire dalla Bibbia, è caratterizzata da una sorprendente continuità storica, mai esaurita nei millenni di vita del popolo ebraico. La l. i. è a buon diritto l'erede diretta di questa lunga e ininterrotta tradizione di scrittura che attraverso l'antichità e il Medioevo giunge all'età moderna e contemporanea. È infatti a partire dalla Haskalah - il cosiddetto illuminismo ebraico, che segue di qualche decennio quello europeo - che l'ebraico esce dai canoni della letteratura tradizionale e dottrinaria per avviarsi verso le belle lettere: dalla poesia sacra a quella profana, alla narrativa vera e propria. Per fondare a sua volta un canone, la letteratura ebraica moderna non manca di validi riferimenti. Se suo primo modello, in quanto primaria voce del popolo ebraico, è la letteratura yiddish della Mitteleuropa, che a partire dall'Ottocento annovera autori come Mendele Mokher Seforim (pseud. di Shalom Jakob Abramovič, 1835-1917), I.L. Peretz (1852-1915) e Sh. Aleichem (pseud. di Shalom Rabinovič, 1859-1916), un ruolo non meno importante come punto di partenza spetta anche alla grande narrativa europea: molti dei maggiori autori della letteratura ebraica contemporanea non esitano a dichiarare d'essersi formati nel solco del romanzo russo e francese dell'Ottocento. Prodotto dell'incontro fra lingua ebraica e modernità, la l. i. è, fin dall'inizio, un ambito complesso e metodologicamente problematico, così come si riflette nelle sue voci multiformi: non c'è infatti autore contemporaneo che non si ponga in un rapporto dialettico, a volte conflittuale, con le proprie radici culturali e linguistiche. Basti pensare ad autori come A. Shammas (n. 1950) e S. Kashua (n. 1975), due scrittori arabi che hanno scelto, in tempi e con modalità stilistiche e narrative ben diverse fra loro, di usare l'ebraico come lingua d'espressione e prima ancora di appartenenza. Di questa vivace dialettica fra lingua, storia e geografia si ha testimonianza fin dagli esordi. Padre della letteratura ebraica contemporanea e israeliana è concordemente considerato il poeta H.N. Bialik (1873-1934), nato in Volinia ed emigrato in terra d'Israele - all'epoca Palestina ex ottomana, passata sotto il mandato britannico alla fine della Prima guerra mondiale - nel 1924. Formatosi negli studi tradizionali, Bialik fu il poeta che seppe trasportare l'ebraico dal mondo sacro a quello profano. O meglio, ai travagli della storia: la sua è anche una poesia di denuncia sdegnata della sottomissione alla violenza. Insieme a Bialik i padri della l. i. sono Y.H. Brenner (1891-1921) e Sh.Y. Agnon (v.). Brenner, originario dell'Ucraina e anch'egli emigrato in Palestina, è in un certo senso il trait d'union fra la letteratura ebraica della Diaspora e quella del nascente Stato d'Israele: egli celebra la rinascita nazionale e guarda con una memoria non priva di disprezzo al passato della Diaspora. Agnon invece amalgama le due esperienze del popolo ebraico dentro una narrazione mesta, arricchita tanto di sarcasmo quanto di nostalgia. Nel 1966 Agnon ricevette, insieme con la poetessa N. Sachs, il premio Nobel per la letteratura; la sua scrittura rappresenta il definitivo consolidamento dell'ebraico sul terreno della narrativa, e la sua capacità di imprimere alla parola una vasta gamma di sfumature semantiche e sentimentali costituisce un ineludibile modello di riferimento per tutta la l. i. successiva.
Il periodo di formazione della l. i. - quello in cui essa non dà più soltanto voce a sporadici autori ma a vere e proprie correnti - sta a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta del 20° sec.: una fase storica cruciale per i destini del popolo ebraico, in Israele e nella Diaspora. La cosiddetta generazione della guerra d'Indipendenza accomuna alcuni scrittori di accesa militanza: nei loro romanzi c'è ancora poco spazio per l'individuo. Sono invece l'idea di risorgimento, le nuove energie del popolo ebraico e la lotta - materiale e ideologica - che esso intraprende per un affrancamento dai valori della Diaspora le vere protagoniste di questa fase. Nella scrittura di M. Shamir (1921-2004), A. Megged (n. 1920), B. Tammuz (1919-1989) prevale, almeno in questo primo periodo della loro esperienza letteraria, la tendenza al 'realismo sociale'. A poco a poco, però, si fa strada l'urgenza di affrontare il conflitto fra i valori dell'individuo e quelli di una collettività sotto pressione come quella del nuovo Stato d'Israele. S. Yizhar (pseud. di Yizhar Smilansky, 1916-2006), di origini russe, è forse lo scrittore che più, in questa fase iniziale, avverte il bisogno di riflettere la propria scrittura oltre lo specchio della militanza nazionale, quello cioè di una letteratura al servizio di una società in lotta per la sopravvivenza; si pensi al suo racconto Khirbat Khiza (1949; trad. it. La rabbia del vento, 2005), ambientato nell'omonimo villaggio arabo che una pattuglia israeliana è incaricata di conquistare e sgomberare facendo violenza anche sui civili. È però fin dai primi anni Sessanta del 20° sec. che la l. i. si volge verso una prospettiva più intima, dove a poco a poco emerge l'individuo con le sue incertezze. Y. Shabtai (1934-1981) è il grande modello, con Zikhron devarim (1977; trad. it. Inventario, 1994) nonché con Sof Davar (1984; trad. it. In fine, 1998), di questa scrittura profondamente innovativa. Il flusso di coscienza che accomuna le sue memorabili prove narrative (che la morte prematura ha fermato a due romanzi e una raccolta di racconti, oltre a qualche testo teatrale e molti testi di celebri canzoni) è non tanto un flusso psicologico ma il tessuto narrativo che descrive, con ironia spietata e partecipazione dolente, una società intera. La sua mappa sentimentale di Tel Aviv costituisce infatti l'orientamento di tutto quel filone della l. i. che predilige la metropoli - sia essa la città nuova, appena fondata sulla sabbia, o la città eterna con la sua immutabile roccia, ossia Gerusalemme. Fra le voci più significative di questo paradigma urbano d'Israele c'è sicuramente anche Y. Kenaz (n. 1937; Machzir ahavot qodmot, 1997, trad. it. Ripristinando antichi amori, 1999). Gli anni Sessanta sono un periodo cruciale anche in Israele perché qui emergono alcuni fra gli scrittori destinati a percorrere, insieme alla loro opera, la vita intera della nazione. Fra di essi A.B. Yehoshua (n. 1936), A. Oz (n. 1939), Y. Kaniuk (n. 1930), del quale si ricordino almeno Adam ben Kelev (1968; trad. it. Adamo risorto, 1995) e Aravi tov (1983; trad. it. Confessioni di un arabo buono, 1997). Combattuti fra un ritorno seppure soltanto letterario alla Diaspora (Kaniuk è colui che più avverte, e drammaticamente, questo dilemma dopo la Shoah) e un focalizzarsi dello sguardo verso la realtà d'Israele ancora in formazione, questi autori hanno dimostrato, con il passare degli anni, la propria capacità di maturare stile e prospettive, di seguire la travagliata storia del Paese e a volte persino dettarne forme e sviluppi, anticipando i tempi. Israele è forse l'unico Paese al mondo in cui il primo ministro, a prescindere dallo schieramento politico di appartenenza, convoca di tanto in tanto i maggiori scrittori nazionali, per consultarsi con loro in merito al presente e al futuro. In questo senso, pur se viventi e attivi, gli scrittori appartenenti a questa generazione si possono a buon diritto definire classici, in quanto oggetto di imitazione e dinamico canone. Yehoshua è lo scrittore che più offre ai propri lettori un'anamnesi precisa e dettagliata dello stato del Paese, dei suoi difetti e dei valori che meglio rappresenta: da ha-Meahev (1977; trad. it. L'amante, 1990) e Gerushim meuharim (1982; trad. it. Un divorzio tardivo, 1996) a Mar Mani (1990; trad. it. Il signor Mani, 1994), Hakalà hameshahreret (2001; trad. it. La sposa liberata, 2002) e Shlichutò shel hamemuné al mashabei enosh (2004; trad. it. Il responsabile delle risorse umane, 2004). In Oz, invece, i destini collettivi si intrecciano e spesso si incagliano contro le esperienze personali e la memoria. I suoi protagonisti sono il più delle volte combattuti fra l'assimilazione a una sorte comune e l'eco del proprio vissuto personale e familiare: Mikhael sheli (1968; trad. it. Michael mio, 1975); Ladaat isha (1989; trad. it. Conoscere una donna, 1992); Hamatzav ha-shelishi (1991; trad. it. Fima, 1997); Sipur al ahavah ve-hoshekh (2002; trad. it. Una storia di amore e di tenebra, 2005). Il cimento con il passato è anche una costante della sofferta narrativa di A. Appelfeld (n. 1932), ambientata per lo più nella Romania della Seconda guerra mondiale, luogo d'origine dello scrittore e teatro del suo dramma durante la Shoah: Badenheim 'ir nofesh (1975; trad. it. Badenheim 1939, 1981); Seppur chayyim (1999; trad. it. Storia di una vita, 2001). Anche per D. Grossman (n. 1954) l'incomprensibilità dello sterminio è ciò che innesca l'urgenza di scrivere. Dopo le prime esperienze in cui si distingue per intensità d'espressione in questo arduo contesto ('Ayyen 'erekh: ahavah, 1986; trad. it. Vedi alla voce: amore, 1988), lo scrittore ha allargato i propri orizzonti all'Israele contemporaneo e ai suoi dilemmi umani: Sefer ha-dikduk ha-pnimi (1991; trad. it. Il libro della grammatica interiore, 1992); She-tehi li ha-sakin (1988; trad. it. Che tu sia per me il coltello, 1999); Ba-guf ani mevina (2002; trad. it. Col corpo capisco, 2003). Ma non c'è soltanto una letteratura urbana, che registra questa contemporaneità. Vi è anche un'altra l. i., attenta a quel mondo rurale che nasce come esperienza di pionierismo, di ritorno alla terra in nome della rinascita nazionale del popolo ebraico e poi, perpetuando questi valori, trova una sua originalità storica. M. Shalev (n. 1948) è l'interprete più efficace e lirico di questo mondo: Roman russi (1988; trad. it. La montagna blu, 2002); Esaw (1991; trad. it. Il pane di Sarah, 2000); Fontanelle (2002; trad. it. Fontanella, 2004). Usando una costante vena di simpatetica ironia, egli mette quasi sempre in scena nei suoi romanzi villaggi e fattorie collettive sparpagliati per le campagne d'Israele, dove tenaci ideali convivono con le fatiche del lavoro e l'orgoglio del ritorno (materiale e spirituale) alla terra madre.
Con il passare degli anni la l. i. ha accolto un numero di autori via via maggiore: quella che fino agli anni Ottanta si poteva rappresentare come un progressivo emergere di poche personalità, ognuna con la sua voce, è ormai un fenomeno massiccio, in cui si manifesta un proliferare di tendenze. Ecco la spy story e il giallo nei libri di S. Lapid (n. 1934) e R. Oren (n. 1936). Vi è inoltre un'intera generazione di autori che possono essere definiti postmoderni, dallo stile graffiante e a volte spiazzante, come nel caso di E. Keret (n. 1967), il maggior esponente della scrittura 'cannibale' israeliana, che però egli affronta con una levità e un umorismo tutti particolari. Anche O. Castel Bloom (n. 1959) appartiene allo stesso ambito, ed è forse stata la prima a porre in termini letterari il dramma del terrorismo kamikaze e il suo impatto nella quotidianità israeliana (Chalakim enoshyyim, 2002; trad. it. Parti umane, 2003). Castel Bloom è l'esponente di un surrealismo che attraversa molta scrittura in ebraico, ma che nei suoi libri si fa costante filo conduttore. Merita inoltre attenzione una l. i. al femminile che non può certo dirsi militante ma che presenta inconfondibili tratti di genere, una letteratura ai cui albori non è difficile riconoscere la poetessa L. Goldberg (1911-1970), nata a Königsberg ed emigrata in Palestina nel 1935: anche traduttrice e autrice per bambini, ha dettato uno stile femminile con il quale, per accostamento o contrapposizione, si misurano le scrittrici successive. Tra queste meritano menzione A. Kahana Carmon (n. 1930), con la sua prosa elaborata e intimista, R. Almog (n. 1936), particolarmente attenta ai temi sociali, G. Avigur Rotem (n. 1946), che ha saputo tramutare la poesia in narrazione romanzata; e poi S. Liebrecht (n. 1948), Y. Katzir (n. 1961), T. Shalev (n. 1959), per citare solo alcune fra le tante voci di questa letteratura. All'interno della quale, J. Rotem (n. 1944) rappresenta con la sua scrittura, e in particolare con Keri'ah (1996; trad. it. Lo strappo, 2000), non solo un certo universo femminile, ma anche un nodo problematico di più ampia portata. Nata infatti in un ambiente rigidamente ortodosso, dal quale si è successivamente affrancata, nei suoi romanzi affronta spesso il conflitto fra mondo laico e mondo religioso: una questione cruciale per il presente e il futuro dello Stato d'Israele. Alcuni autori a cavallo fra questi due mondi - esemplare fra tutti Y. Bar Yosef (1912-1992) - permettono al lettore uno sguardo, sofferto e ravvicinato, sulle tante contraddizioni della società ebraica ultraortodossa. Una rassegna della l. i. non può infine trascurare la poesia, che gode nel Paese di una popolarità quasi sorprendente, soprattutto a paragone con altre realtà culturali. In Israele i supplementi del fine settimana dei maggiori quotidiani pubblicano regolarmente poesie di autori affermati ed emergenti, che anche fra gli scaffali delle librerie godono di una buona attenzione da parte del pubblico. Fra i grandi poeti d'Israele c'è innanzitutto Y. Amichai (1924-2000), la cui opera non è solo lo specchio lirico del Paese, ma anche la cronaca precisa della sua stessa storia (si veda, in trad. it., la raccolta di liriche, con introduzione di T. Hughes, Poesie, 1993). Anche N. Zach (n. 1930) è da considerarsi un poeta nazionale, non tanto in virtù del fatto d'essere portavoce di valori collettivi condivisi da tutti, quanto per la sua vocazione maieutica, che alla collettività pone domande attraverso la provocazione e il racconto dell'esperienza personale (si veda, in trad. it., la silloge Sfavorevole agli addii, 1996). Quella israeliana è dunque una letteratura giovane, perché il Paese cui appartiene è storicamente di recente formazione, eppure tanto complessa quanto intricata nelle sue secolari radici sparse ai quattro angoli del mondo, là dove la Diaspora ebraica è arrivata nel corso delle sue forzate peregrinazioni.
bibliografia
L.I. Yudkin, Jewish writing and identity in the twentieth century, London 1982.
L'altro visto dall'altro. Letteratura araba ed ebraica a confronto, a cura di R. Dorigo Ceccato, T. Parfitt, E. Trevisan Semi, Milano 1992.
Leggere Yehoshua, a cura di E. Trevisan Semi, Torino 2006.