Italiana, letteratura
La produzione poetica
È facile constatare che i primi anni del 21° sec. non hanno mutato né soggettivamente, né tematicamente, né tecnicamente il quadro che si era venuto a creare nel ventennio precedente, certamente dopo il Sessantotto e il velleitario tentativo di promuovere una poesia rivoluzionaria: difficile andare oltre quel che hanno fatto in questa direzione E. Sanguineti e A. Zanzotto, partendo l'uno dall'acquisizione (tardiva in Italia) di E. Pound, l'altro sviluppandosi ben presto da G. Ungaretti e tentando tanto l'alto teologico quanto il basso del dialetto e del puerile. Entrambi attivi, Zanzotto (n. 1921), dopo il 'meridiano' comprendente Le poesie e prose scelte (1999), ha raccolto in plaquettes versi per giovani creature (Papaveri e topinambur: per Francesca, 1999; Filastrocca sul micio Uttino, 2005); in un volume con corredo fotografico stanno i Colloqui con Nino (2005), "un uomo dei campi molto vecchio, molto indipendente, in un angolo della provincia veneta, […] di anno in anno […] sempre più deturpata".
Di lì nascono pure le Sovrimpressioni (2001), ancora sulla scia bucolica di Il galateo in bosco (1978). Di Sanguineti (n. 1930) si ha da rileggere la raccolta della più recente produzione (1982-2001) dal titolo, ancora una volta, medievaleggiante (Il gatto lupesco, 2002). Fedele a sé stesso, mai distraendosi eticamente e civilmente, è stato M. Luzi (1914-2005), nominato senatore a vita a 90 anni, e morto poco dopo. La nomina, accolta non unanimemente, ha suggellato una storia artistica sempre più orientata verso i valori alti del cristianesimo. In versi teatrali, sotto il titolo di Parlate (2003), Luzi ha restituito pure voce ad Antigone e Amleto. Le Poesie ritrovate (2003) appartengono a un manoscritto autografo prossimo alla prima raccolta, La barca (1935). Ma, tornando all'ispirazione religiosa, nel Novecento italiano non si sono verificate le condizioni primarie per sortire in esiti europei come quelli di R.M. Rilke o di G.M. Hopkins o di W.H. Auden. Nel secondo dopoguerra operava M. Guidacci (1921-1992), la prima seria traduttrice di E. Dickinson. Prima, nell'ambito non travolgente del nostro modernismo, e in specie di Rinnovamento (1907-1909), si era comunque data a Milano (e Genova) la solipsistica esperienza di G. Boine, lettore di San Giovanni della croce e autore dei Frantumi (pubblicati su Riviera ligure, 1915), il quale sentì vicini, forse perché ostentatamente anti-razionalisti, i Frammenti lirici (1913) di C. Rebora. Si è avanzato con meraviglia il nome di Rebora toccando alcuni versi del servita D.M. Turoldo (1916-1992), radunati in un volume solo (O sensi miei..., 1990), che è stato riproposto nel 2002, accompagnato da un racconto autobiografico (La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza, a cura di M. Nicolai Paynter, 2002). Persino Ungaretti è schiacciato, fra le letture formatrici, dal Qōhelet e da G. Leopardi. Sempre Rebora, per un caso quasi all'opposto, nell'ottica tradizionale della chiesa degli eletti e dei peccatori, si mette davanti, discorrendo dell'enorme e non sempre encomiabile produzione poetica di A. Merini (n. 1931), finalmente antologizzata in Fiore di poesia. 1951-1997 (1998). Inoltre la vicenda della sofferta reclusione dell'autrice in un manicomio, per disturbi psichici, ha favorito un'altra menzione eccessiva e palesemente incongrua, quella di D. Campana e dei Canti orfici (1914). Il rigore delle avanguardie, che ha caratterizzato il secolo appena trascorso, ha certamente sterilizzato l'espressione poetica. Qualcosa del genere deve formularsi per le ultime due raccolte di C. Viviani (n. 1947): Una comunità degli animi (1997) e Passanti (2002). Un tempo scambiato per 'dadaista' (L'ostrabismo cara, 1973), in ultimo dichiara la personale disperazione di non potersi reperire in una dimensione totalmente trascendente.
Non mancano altre indicazioni, come quella che dovrebbe provenire dalla nuova edizione del 2005, accresciuta con "altre poesie edite e inedite", di La grotta d'Elia (1980) di A. Jacomuzzi (1929-1995), uno dei più apprezzati lettori di E. Montale; e di qui bisogna partire, per intendere quanto sia divenuto problematico, e soprattutto mai facilmente poetizzabile, il rapporto poesia-teologia. Più ancora lo rappresentano la persona e l'opera di M. Ranchetti (n. 1925), storico della Chiesa e del modernismo. Ha esordito nel 1988 con La mente musicale, e ottenuto quel rispetto che si deve a un poeta non inscrivibile in gruppi, mode o tendenze. Verbale del 2001 potrebbe suggerire subito il nome di Rebora, e qualche eco c'è, ma depurata da ogni sottolineatura espressionistica. Ranchetti non si ribella in ragione della propria prorompente idealità e moralità, e tanto meno lascia intravedere paradisi lontani. Il lessico, filtrato e selezionato al massimo (lessico dell'anima, ma non per questo fuori del corpo) rivela, a tratti, l'unicità della grande tradizione (Ranchetti è traduttore di P. Celan).
Potrà sembrare strano, a questo punto, un ritorno all'indietro ancora più marcato, accennando alla raccolta in un solo volume (1997, postuma) delle Poesie del novarese S. Sinigaglia (1921-1990). Vittima del plurilinguismo di G. Contini, di cui in qualche modo fu sodale, non poteva condividerne la strenua professione di filologo, dovendo per molti anni dedicarsi all'industria di famiglia. Il suo poetare, ipercolto e osceno a un tempo, mantiene viva la mescidanza, sostanzialmente macaronica, della tradizione latina.
Le raccolte Qualche notizia del tempo (2001) e Il sandalo di Empedocle (2005) hanno confermato il valore di una felice esperienza, tanto appartata quanto feconda e linguisticamente inventiva, come quella di L. Mariani (n. 1936). Gioca con la rima l'ironico F. Marcoaldi (n. 1955), di cui si vedano soprattutto Amore non amore (1997, 20032) e Animali in versi (2006). Diversamente sceglie la strada della prosaicità E. Krumm (1942-2005), poeta e critico d'arte, a partire da Felicità (1998), cui hanno fatto seguito cinque anni dopo Animali e uomini, dove si sciolgono metafore complesse ed esistenziali, tipiche, per eccedere, di Montale, qui abbassato d'intensità e di esemplarità, e infine Respiro (2005). Qualcosa di analogo è successo, in ultimo, a T. Rossi (n. 1935), quello di Pare che il Paradiso (1998) e di Gente di corsa (2000); è venuto meno certo realismo minore, a strappi eloquente. Non corre rischi siffatti E. De Signoribus (n. 1947), rivelatosi appieno solo dopo le due ultime raccolte, Istmi e chiuse (1996) e Principio del giorno (2002), dove si accoglie un lessico addirittura dantesco per dare forza a una più ampia comunità di parlanti. Passi ulteriori, in questa direzione, si colgono in Ronda dei conversi (2005), con qualche rischio di parenesi e di solennità.
La non raggiunta identificazione di una poesia italiana di fine Novecento e di aurorale Duemila rende spontaneo il passaggio ai praticanti di altri linguaggi non omologabili al parlato medio, nazionale e ufficiale. È fenomeno tutto italiano, o quasi, la sopravvivenza non solo, ma anche il mantenimento, e l'arricchimento, della poesia regionale e dialettale (v. dialettale, letteratura). Se ne era fatto carico mezzo secolo fa P.P. Pasolini, avvertendo subito che un S. Di Giacomo, un D. Tessa, tanto per prendere due estremi, non potevano essere consi-derati alla stregua di voci minori. Per essere chiaro: se l'ermetismo trionfante fra le due guerre, e oltre, ha rischiato, al riguardo, un eccesso di intransigenza, dopo più di settant'anni, si diceva, anche un autore come Zanzotto si scopre interessato a gradi di linguaggio domestico non compiuti (il petel degli infanti veneti).
In parallelo si sono liberate altre voci, di altre comunità espressive. Ci si può muovere partendo dall'epilogo del romagnolo R. Baldini (1924-2004), tra Ciacri (in La nàiva. Furistìr. Ciacri, 2000) e Intercity (2003); con lui il gruppo storico di Santarcagelo di Romagna (T. Guerra, N. Pedretti e altri ancora) sembra avere concluso la sua lunga (e sempre bene accolta da filologi e linguisti) parabola lirica. Un dialetto si è trasformato in una lingua aristocratica di poesia, quasi di antico stampo romanzo. Con il passare del tempo sembra diversamente innovatore l'anconetano F. Scataglini (1930-1994), traduttore nien-temeno che del Roman de la rose (La rosa, 1992), autore, prima e dopo, del Rimario agontano (1987), antologia della prima maniera, e di El Sol (1995), forte poema autobiografico. "La mia - ha sostenuto, e mantenuto - è una poesia della figuralità allegorica, non dell'analogia", e meno che mai della "metafora". Molto vigile è sempre stato F. Loi, milanese (nato a Genova nel 1930), presente ancora con Isman (2002) e Aquabella (2004), ma anche, e soprattutto, autore di un'antologia molto opportuna di questa zona feconda dell'espressione poetica regionale e comunale (Nuovi poeti italiani. 5, 2004). Ci si limita qui a estrarne i nomi della torinese B. Dorato (n. 1933) e della potentina A. Finiguerra (n. 1946), entrambe molto attive a fine e inizio secolo. La condizione femminile, non necessariamente patetica o protestataria, mantiene nei loro desueti strumenti espressivi forza e concentrazione. Sintomatico, pure, è il caso di E. Rentocchini (n. 1949), che scrive nel dialetto di Sassuolo (Modena). Nei suoi libri (per es., gli ultimi Ottave, 2001; Giorni in prova, 2005) è da rammentarsi l'impiego non infrequente dell'ottava tradizionale, in un confronto fra dialetto e lingua nazionale che non vuole mettere in silenzio 'il passato contadino'.
Pur senza mutazioni linguistiche di pari portata, è da segnalare la prosecuzione del poetare in forme già riconosciute di B.M. Frabotta (n. 1946: La pianta del pane, 2003) e di P. Valduga (n. 1953: Quartine seconda centuria, 2001; Lezione d'amore, 2004). Hanno ottenuto finalmente attenzione e credito due traduttrici di valore: J. Insana (n. 1937), che si è cimentata su Saffo, Plauto, i Carmina priapea, A. Cappellano; e A. Anedda (n. 1958), concentratasi su Ph. Jaccottet, ma in qualche modo emula di voci dalla Russia, da M.I. Cvetaeva a O.E. Mandel´štam (non manca Celan). Insana, attraverso esperimenti che si sono voluti definire come macaronici, e di certo tardoermetici non erano, arriva in L'occhio dormiente. 1987-1994 (1997), e più ancora in La stortura (2002) e in La tagliola del disamore (2005), a mantenere fede all'impegno di parlare della storia e delle sue 'macerazioni' (abusata è la rima facile). Anedda, fin da Residenze invernali (1992), e poi in Notti di pace occidentale (1999), non teme contenuti di effetto più che altro sentimentale. In Il catalogo della gioia (2003), attua un recupero, anche in prosa, della storia privata. Conclusivo di un'esperienza sovente coraggiosa è risultato Poesie. 1972-2002 (2002) di V. Lamarque (n. 1946).
La produzione in prosa
La situazione della prosa narrativa, nell'arco di tempo già indicato discorrendo della poesia, appare assai meno vivace e, soprattutto, più fortemente condizionata dalle richieste di mercato. Senza volere attribuire soltanto ai mediatori e venditori di romanzi e di racconti la responsabilità del calo d'invenzione e dell'impoverimento di lingua che si sono registrati in molti esercizi narrativi, anche se sostenuti da opportune campagne di stampa e di televisione, di certo però le condizioni della promozione libraria, nel caso della prosa, riescono alla fin fine fortemente vincolanti, come l'analisi linguistica immediata percepisce subito. Per altro verso, i contenuti, sempre più stretti fra sesso e terrore, rischiano davvero, in entrambi i casi, di scendere al livello basso della pornografia e del giallo di consumo. Gli ascendenti sono piuttosto da ricercare in romanzi stranieri, particolarmente inglesi e americani, letti il più delle volte in traduzione e largamente diffusi. Quasi per ovviare a inconvenienti così palesi, nemmeno bisognosi di un evidenziatore critico, si è voluto, nel caso del giallo, impiantare una coltivazione nostrana, recuperando innanzitutto primogeniture di scarso peso (sul versante rosa, di livello ancora più basso, si è tornati a scrivere di Liala con qualche sussiego narratologico).
Il successo relativo degli ultimi 'giallisti' ha gratificato a sufficienza autori e consulenti editoriali, tanto più che la copiosa e trionfale serie dei libri di A. Camilleri e del suo 'Sherlock Holmes' siciliano, il commissario Montalbano, ha dato conforto ai suoi, non epigoni e nemmeno imitatori, ma giovani emuli. Se si vuole distinguere qualcuno, si può partire, per esempio, dal più anziano S. Mannuzzu (n. 1930), ancora sulla ribalta con Le fate dell'inverno (2004), un racconto che non trascura i meccanismi della memoria. Di una generazione successiva sono M. Fois (n. 1960), di cui si salvi almeno Picta (1995; 20032), e M. Carlotto (n. 1956), accusato di assassinio, condannato e poi graziato, operoso sin dalla metà degli anni Novanta. È quasi ovvio che parzialmente autobiografico riesca La verità dell'alligatore (1995), ma poi c'è disponibilità a impossessarsi di vicende altrui. Qualche ambizione in più (per dirla sommariamente, con un occhio al paesaggio e l'altro alla storia) dimostra A. Perissinotto (n. 1964), già in L'anno che uccisero Rosetta (1997), e poi in La canzone di Colombano (2000); l'ultimo della serie, Treno 8017 (2003), risulta il meglio organizzato e condotto, pur non sfuggendo al lieto fine tradizionale del genere (smascheramento del vero assassino, in questo caso).
All'esplosione delle fortune del 'giallo' ha fatto quasi da contrappeso il tentativo di alcuni giovani scrittori di mantenere fiducia alle forme e ai personaggi del cosiddetto romanzo di formazione, adattato ovviamente ai tempi e ai modi correnti nel rapporto fra padri e figli. Si è indirizzato in questa direzione N. Ammaniti (n. 1966), a partire dal romanzo Ti prendo e ti porto via (1999) fino a Io non ho paura (2001), oggetto della rielaborazione cinematografica (2003) di G. Salvatores; di minore impatto altre opere. Nel primo entrano in scena, e la domi-nano, due dodicenni, Pietro e Gloria. Gli adulti sono guardati con un cannocchiale rovesciato, com'è facile capire. È fin troppo spontaneo rifarsi, per lo sviluppo dell'amore fra adolescenti, al classico romanzo di F. Tozzi Con gli occhi chiusi (1919), il cui protagonista si chiamava già Pietro. Il romanzo successivo di Ammaniti ha ancora per protagonisti due bambini, Michele e la sorellina, coinvolti per un susseguirsi di circostanze plausibili, ma neppure troppo, nella vicenda di un ragazzo sequestrato a scopo di estorsione e tenuto prigioniero in una grotta. Lo sforzo è quello di guardare la realtà con occhi vergini di malintesa virilità, e quindi, alla buon'ora, non complici nella violenza.
"Adolescente disperato" è definito il narratore-attore di nome Daniel del romanzo autobiografico Con le peggiori intenzioni (2005) di A. Piperno (n. 1972). 'Romanzo', appunto, e non tout court 'autobiografia'. La distinzione è utile, perché scarica il libro di Piperno da quello che più sembra dover patire: il confronto con la 'verità' nei riguardi dei correligionari dell'autore, gli ebrei ricchi del dopoguerra, sporcatisi nella lussuria e nel denaro. La novità del libro è di ordine prettamente formale, e riguarda lo spessore della sintassi più che la pur evidente pesantezza del lessico.
In qualche modo appartengono al paragrafo degli scrittori recenti quelli di età maggiore e di diversa esperienza culturale che coltivano la narrativa, se non occasionalmente, di sicuro episodicamente.
Degni di segnalazione, entrambi professori di materie umanistiche, sono L. Barile (n. 1942), acuta lettrice della poesia di Montale, e S. Givone (n. 1944), docente di estetica, autore della Storia del nulla (1996). Barile ha esordito con i racconti di Oportet (1997), cui hanno fatto seguito le non segrete, ma più motivate 'storie mediterranee' di Il resto manca (2003). La palese rivendicazione autobiografica non è tale da introdurre l'autrice nei paradisi, più o meno artificiali, della memoria. E se la tentazione può essere proprio quella, a smentirla sono altre prove, che richiamano alcuni nomi mitici della poesia e della storia d'Europa. La componente ebraica gioca la sua parte ma non lascia tracce rivelatrici dell'iscrizione a un genere riportabile a quello declinato nella diaspora yiddish. Givone ha esordito nella Favola delle cose ultime (1998), una rievocazione familiare all'insegna opposta di quella di Piperno (trattasi, in special modo, del mondo vercellese, tardoottocentesco, delle risaie e dei suoi personaggi topici). Ma la capacità di rappresentare al vivo personaggi fisicamente e moralmente forti si è altrimenti incanalata in Nel nome di un dio barbaro (2002), ambientato in data non ancora forzatamente fascista (anno 1921), e tuttavia già dominata dalla violenza. Nella serie dei libri appena individuati si colloca pure Un vento sottile (1988), arrivato in seconda edizione nel 2001, dell'italianista S. Jacomuzzi (1924-1996). Vi si espone la vicenda di un pugile nero, amico del grande J. Cocteau, nella Parigi degli anni Trenta.
Continua l'attività narrativa di professionisti capaci di sperimentare soluzioni, se non nuove, certamente convinte della loro necessità. Si tratta di nomi di largo successo, a partire da U. Eco (n. 1932), autore di un divertito e divertente montaggio fumettistico, La misteriosa fiamma della regina Loana (2004). Il non meno noto e acclamato A. Baricco (n. 1958), esplorato Omero, è tornato al romanzo di una vita con Questa storia (2005). Quanto ad A. Tabucchi (n. 1943), da sempre favorito dalla critica e dal consenso dei lettori, mescola sempre di più le carte di un gioco narrativo prolifico e inquieto, fino a trasformare il suo profilo di scrittore, in cerca di un continuo superamento, in quello di una sorta di maître à penser, peraltro insoddisfatto. Tra i suoi titoli ultimi di qualche spessore: Si sta facendo sempre più tardi (2001), romanzo epistolare a una voce sola, e Tristano muore: una vita (2004), romanzo in qualche misura postumo. Autobiografie altrui (2003), riflessione sulle sue opere precedenti, può essere invece utile in quanto, trattando di "poetiche a posteriori", dà la possibilità di ricavare notizie e idee affioranti nell'opera prosastica.
Fedeli ai temi dominanti della sua pittura esistenziale e ai movimenti mai perturbati della sua sintassi rimangono gli ultimi libri di F. Biamonti (1933-2001), Le parole la notte (1998) e, soprattutto, Il silenzio (2003, postumo), che fanno di lui il narratore più misurato dell'ultimo Novecento, davvero insensibile tanto alle avanguardie quanto al successo facile. Più largo continua a dimostrarsi lo sforzo creativo di S. Vassalli (n. 1941), che ha scelto di fare ricorso alla storia passata e recente, per intendere qualcosa di più sul carattere nazionale degli italiani. Meglio lo si capisce da Dux: Casanova in Boemia (2002), ricamato sulla tela minima di un gruppetto di lettere dell'ormai vecchio avventuriero veneziano approdato nel castello boemo che dà il titolo al libro, ma senza neanche sfiorare il livello del grande film casanoviano di F. Fellini del 1976. Un'altra vicenda di sconforto storico aveva offerto la ben più ampia e coinvolgente memoria del Sessantotto (Archeologia del presente, 2001), affidata a due giovani, divenuti, con il trascorrere degli anni, due reperti 'archeologici' di tutta una serie di speranze d'impronta rivoluzionaria. Stella avvelenata (2003) confida nella credenza utopica dell'Atlantide, affidata a un poco probabile chierico del Quattrocento, imbarcatosi su una grande nave con un equipaggio che annovera, tra gli altri, un reverendo e una praticante del libero amore. Omero, Virgilio, Leopardi, A. Rimbaud sono fatti propri nelle pagine biografiche, un po' troppo svelte, di Amore lontano. Il romanzo della parola attraverso i secoli (2005).
Non vuole uscire dal clima storico novecentesco C. Magris (n. 1939), esponente di una tradizione 'mitteleuropea' da lui stesso ricostruita in saggi critici memorabili, e della quale può ben dirsi, dopo E. Canetti, l'unico e ultimo esponente. Sulla scia della memoria dolorosa della Carnia in tempo di guerra, quale era apparsa nel romanzo Illazioni su una sciabola (1984), Magris nel suo libro Alla cieca (2005) ha tentato il poema narrativo della rivoluzione e della clandestinità, in dimensioni che vanno al di là di una pratica politica estremista, perché portano a conseguenze violente e usurpatrici. L'ingorgo di esistenze, che così si genera, esaspera la prosa di questo racconto complesso e multiforme. Diversamente risulta governato da Magris il protagonista di quella sorta speciale di soliloquio teatrale pubblicato nel 2001, La mostra, un testo eccezionale che fa venire alla mente il L. Pirandello di L'uomo dal fiore in bocca, pur godendo a polmoni ancor più pieni della libertà di parola che, in letteratura, quasi per convenzione si riconosce al pazzo. Addirittura si è parlato di un linguaggio 'babelico', e non più 'mitteleuropeo' (come abitualmente per Magris), ma la variazione non lascia, comunque, intravedere una qualche forma di escatologia.
Entro il racconto, ma in un certo senso rinunciando alla sua ben nota abilità ed efficacia nel costruire e sorvegliare trame raffinate e sorprendenti, G. Pontiggia ha cercato, in Nati due volte (2000), di narrare sotto forma di romanzo un'esperienza autobiografica di grande difficoltà e intensità, l'educazione di un figlio disabile. Ritratti femminili di rara pacatezza ha aggiunto ai suoi attenti e delicati esercizi narrativi A. Debenedetti (n. 1937), con i racconti di E fu settembre (2005), sempre comunque fedeli alla tragedia del razzismo antiebraico. Un passato libero da gravami recenti è materia di L'ospite celeste (1999) di N. Orengo (n. 1944), dove i protagonisti, moderni e sconosciuti che siano, esistiti o inventati, si abbandonano a voli non necessariamente utopici. Precedeva, del resto, il divertissement intitolato Il salto dell'acciuga (1997); seguono La curva del Latte (2002), rappresentazione di un variegato microcosmo provinciale nell'Italia del 1957, e poi L'intagliatore di noccioli di pesca (2004), protagonista un intellettuale di provincia, che sempre meno capisce del mondo e degli altri in una Liguria che sta smarrendo la sua forza.
Diversi riescono gli orizzonti e le scritture di autori da tempo individuati e accettati come irregolari e provocatori. S. Benni (n. 1947) in Saltatempo (2001) ha voluto cimentarsi in uno schema picaresco (il ragazzo e il vecchio saggio a confronto); in Margherita Dolcevita (2005) ha scelto come protagonista una quattordicenne in lotta contro una famiglia maligna, foriera di tipici vizi della società del benessere, capaci d'intaccare non solo l'anima, ma anche il corpo. Anche qui è riproposto uno schema narrativo conosciuto, specie nella fiaba (volendo si può evocare Cappuccetto Rosso, ma anche qualche eroina da fumetto). Anche G. Celati (n. 1937) ha preso le distanze dagli orrori del mondo contemporaneo, sfruttando differentemente un altro schema letterario tradizionale, quello del viaggio gulliveriano presso società disumane, fisicamente e mentalmente stranite e stranianti. Fata Morgana (2005) è una felice variazione sugli schemi di J. Swift (e in parte di Montesquieu, che fa dei parigini i 'selvaggi'): tre sono i relatori dell'ignoto paese dei Gamuna, sì da far meglio risaltare la loro preoccupante attualità. Decisamente utopico, e quindi non meno critico nei riguardi della civiltà del benessere, in quanto produce guerra (il riferimento non occulto è alla Bosnia), riesce Il viaggiatore notturno (2005) di M. Maggiani (n. 1951), dove campeggiano le riflessioni di uno studioso delle rondini, e colloquiano animali ed esuli. L'invenzione assurda non mette in discussione il linguaggio dello scrittore, del tutto medio.
Tanta dovizia, e tanta alternanza sperimentale, quasi non toccano la produzione recente della non nutrita schiera delle narratrici. Un denso libro di prime memorie familiari, Ritorno in Lettonia, ha offerto nel 2003, a poco meno di ottant'anni, M. Jarre (nata Gersoni, 1925), autrice in precedenza di racconti e romanzi sobri e incisivi; ora prevale l'accuratezza e la pulizia di un narrare difficile, perché coinvolge i primi dieci anni della scrittrice, nata e vissuta a Riga, in Lettonia, e sfuggita inconsapevolmente (trasferendosi nel 1935 presso la famiglia valdese della madre a Torre Pellice) al tragico destino del padre ebreo, vittima nel 1941 della ferocia nazista.
Da Fiume (non meravigli il passaggio, e l'inserimento qui di una scrittrice morta prima del 2000) proveniva M. Madieri (1938-1996), che in Verde acqua (1987) ha raccontato l'esodo dalla sua città, in seguito all'annessione alla Iugoslavia. Dopo, nella "favola" floreale La radura (1992) e nella breve meditazione cosmica e spirituale di La conchiglia (1998), è riuscita a fare della propria vicenda personale non già, come avrebbe potuto, il diario di un male senza scampo. Ha scelto di guardare al fluire del vivere delle cose e delle forme. In quest'ambito, ma mutando condizione e in una situazione politico-ambientale radicalmente diversa, si hanno da leggere le rievocazioni patagoniche e argentine della più giovane L. Pariani (n. 1951). Il riferimento è allo spigliato libro che reca il titolo alquanto provocatorio di Quando Dio ballava il tango (2002): un libro tutto al femminile il quale ripercorre, in chiave personale e collettiva, un secolo di storia dell'emigrazione italiana (v. anche poesia).
bibliografia
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