CORINZÎ, Lettere ai
Le due lettere di S. Paolo, dirette alla comunità di Corinto, sono fra le più importanti del suo epistolario e utilissime a farci conoscere la vita di quei primì raggruppamenti di cristiani. Corinto non aveva ricevuto alcun predicatore della nuova fede quando Paolo vi pervenne circa il 50, dopo il breve e infruttuoso ministero in Atene. Da Atti, XVIII, 1-19 sappiamo come si svolse l'evangelizzazione della città: Paolo dapprima, secondo il suo costume, si rivolse ai giudei, ma trovandoli in generale restii, si diede ad annunciare il Vangelo ai pagani, e per più d'un anno e mezzo perseverò in quest'opera, di modo che la parola di Dio si diffuse in quasi tutta l'Acaia, e a Corinto poté fondarsi una grande chiesa, costituita quasi esclusivamente di gentili convertiti, provenienti in genere dalle classi più umili della società (I Cor., II, 26-29). Data l'indole dei Corinzî, curiosi, amanti della scienza e di apparire sapienti, incapaci d'una disciplina seria e costante, e viventi in una città famosa per i vizî della carne (κορινϑιάζεσται significò darsi a dissolutezze), si può immaginare come la vita di quella comunità non dovesse essere troppo tranquilla e ordinata. Ma altre cause di perturbamento si aggiunsero: dopo che Paolo ebbe lasciato Corinto, Apollos (v.), versatissimo nelle Scritture, essendo stato ben istruito nella fede da Priscilla e Aquila, si recò da quei fedeli. Egli annunciava senza dubbio la sana dottrina del Vangelo (I Cor., XVI, 12), ma in maniera più affascinante e dotta, e così i Corinzî furono presi dalla sua elevata parola. Venne così a delinearsi una fazione di credenti distinti da altri che restavano affezionati a Paolo. Dal canto loro i pochi giudei convertiti rimanevano tenacemente attaccati alla legge mosaica e preferivano, a quel che sembra, richiamarsi all'autorità specialmente di Cefa (I Cor., I, 12; III, 4-5, 22). Paolo conobbe lo stato della chiesa di Corinto mentre si trovava a Efeso nella sua terza grande missione (circa l'anno 55-56): alcuni cristiani della casa di una tal Chloe, e forse anche altri, lo avevano informato (I Cor., I, 11). Scrisse egli subito una lettera, andata perduta, in cui raccomandava istantemente di fuggire la corruzione dei pagani (I Cor., V, 9-11). Poco dopo visitarono l'apostolo tre nuovi messi e ministri della comunità di Corinto, Stefanas, Fortunato e Acaico, recando altre informazioni e uno scritto dei fedeli a Paolo, nel quale si domandavano schiarimenti e istruzioni su molti dubbî dottrinali o cose riguardanti la vita cristiana (I Cor., VII, 1). L'apostolo dettò allora la nostra prima lettera, nella quale oltre a riprensioni e avvertimenti, dilucidava i dubbî e dava soddisfazione ai giusti desiderî dei Corinzî.
Contenuto della I Lettera. - Lo spirito fazioso. - Dopo aver rivolto alla chiesa di Corinto il saluto cristiano a nome suo e di Sostene, passa l'apostolo a riprendere lo spirito fazioso, entrato tra i fedeli. Donde proviene esso. Dal non aver capito bene che cosa è il Vangelo: il quale non è una sapienza umana (σοϕία) come i greci erano portati a concepirlo, ma un'economia di salute; anzi, siccome gli uomini non vollero andare a Dio attraverso alla sapienza, piacque a Dio per la stoltezza della croce salvare il mondo. Ne è una prova la loro stessa chiesa: in essa pochi sono i sapienti, i grandi del mondo; per lo più invece gl'ignoranti, i plebei, i miseri scelse il signore, affinché solo a Dio sia gloria. E io stesso - aggiunge - non venni a voi con sublimi discorsi, né mi gloriai di sapere alcunché se non Gesù Cristo crocefisso, affinché la vostra fede riposi non sul sapere umano, ma sulla virtù di Dio. V'è una più profonda sapienza, ma questa può insegnarsi solo agli uomini spirituali, perfetti; e i Corinzî, come appare dal loro spirito fazioso, sono lungi dalla perfezione. Altro motivo di contese è il concetto non giusto del ministero cristiano: Paolo, Apollos, ecc. non sono capi o fondatori di scuole, ma ministri di Dio, dispensatori dei suoi beni, e ognuno di loro lavora secondo la grazia ricevuta dall'alto; nel giorno del giudizio poi apparirà quanto ciascuno avrà fatto e con qual fine. Frattanto Paolo ha inviato ai Corinzî Timoteo, per stimolarli al bene, ma presto andrà egli stesso a visitarli, e domanderà a loro non vane parole, ma opere buone (I,1-IV, 21).
L'incestuoso. - Costui ha osato di togliersi per donna la sposa di suo padre (probabilmente la propria matrigna). Ebbene un tal uomo va segregato dalla comunità. Paolo giudica che costui deve essere, quanto al corpo, consegnato in potere di Satana, affinché l'anima sia salva nel giorno del Signore (V).
Le liti dinnanzi ai tribunali pagani e l'impudicizia. - I Corinzî portano le loro liti innanzi ai tribunali pagani; l'apostolo vuole che i cristiani abbiano dei tribunali interni per le loro liti e dissidî (VI, 1-11). Vivendo in una città così corrotta, non era facile guarire dal vizio dell'impudicizia; d'altra parte sembra che alcuni fedeli, presi dal pensiero che lo spirito e la sua vita sono le cose che importano, pensassero essere indifferente e lecito quanto riguarda il corpo. Paolo risponde che il corpo è destinato non alla fornicazione, ma al Signore, il quale lo risusciterà. Si rifletta che noi siamo membra di Cristo; ne faremo dunque membra di meretrice? (VI, 12-20). - Quindi l'apostolo scioglie i dubbî propostigli.
Sul Matrimonio e la verginità. - Il matrimonio e il suo uso sono buoni, quantunque la continenza sia migliore, ma non tutti hanno, come Paolo, questo dono da Dio. Fra i cristiani poi il matrimonio, secondo il precetto del Signore, è indissolubile: quello invece contratto fra cristiani e pagani può essere sciolto, se la parte infedele non lascia la debita libertà e onestà alla parte credente (privilegio paolino). Quanto allo stato di verginità, Paolo non ha precetti, ma un consiglio: tale stato è migliore, perché, liberi dalle cure del secolo, tutti si possono dare a Dio; e d'altra parte, aggiunge l'apostolo, il tempo è breve (ὁ καιρὸς συνεσταλμένος), e chi ha donna presto sarà come se non l'avesse. Parla poi del caso riguardante colui che abbia una vergine, come in custodia, e se egli, "avendo piena padronanza della sua volontà giudica che il matrimonio debba compiersi, si compia pure, non vi è colpa" (VII). - Queste ultime parole hanno dato nei nostri tempi occasione a due diverse interpretazioni: alcuni hanno pensato che si tratta di una vergine, la quale viva in matrimonio col proposito scambievole di conservare la verginità, e l'apostolo direbbe che se per giuste ragioni il matrimonio vien consumato, non si pecca (così H. Achelis, J. Rohr, A. Schäfer, ecc.); altri intendono che si parli di una vergine libera in custodia del padre o del tutore, e che potrà essere data in matrimonio se si crede opportuno (R. Cornely, l. Knabenbauer, M. Sales, ecc.).
Su cibi già offerti agli dei ("idolothyta"). - È lecito, o no, ai cristiani nutrirsene? Vien data anzitutto una soluzione dottrinale, astratta: siccome quelli che si dicono dei, non sono veri dei, così il mangiare tali cibi non sarebbe alcun male: tuttavia può esservi lo scandalo, e da questo conviene guardarsi. E qui l'apostolo apre una larga parentesi: osservino, dice, quanto ha cura egli stesso di evitare la cattiva edificazione; aveva diritto ad esser sostentato dai Corinzî e non volle farlo, lavorò con le proprie mani per vivere, si adattò a tutti (VIII-IX). Né basta il ben cominciare: anche gl'Israeliti cominciarono bene nella loro uscita dall'Egitto, ma poi peccarono e furono reietti da Dio; quanto loro accadde è una figura riguardante i cristiani (X, 1-12). Chiusa la parentesi, torna all'argomento: in pratica converrà astenersi dalle cene sacrificali; non è possibile partecipare ad un tempo alla mensa del Signore e a quella dei demonî. Fuori di tali cene, si mangino i cibi apprestati e non si domandi se furono offerti agl'idoli o no; se poi alcuno avverte che sono cibi sacrificali, si rifiutino, avendo sempre in mira di edificare e non scandalizzare (X, 13-33).
Delle riunioni sacre (agape, Eucaristia). - Nelle adunanze dei fedeli l'uomo preghi, o profetizzi, a capo scoperto, la donna con la testa velata. Quanto alle agapi egli ha saputo di abusi infiltratisi. Non solo infatti sogliono i fedeli, così riuniti, altercare, ma accade che i più facoltosi si cibano subito di quanto hanno portato e lasciano i poveri nella fame, mentre essi si rimpinzano e sono ebbri, disonorando così la chiesa di Dio e profanando la cena del signore. E qui l'apostolo ricorda l'istituzione dell'Eucaristia. Quando adunque si riuniscono per mangiare, si aspettino l'un l'altro. Il resto lo stabilirà Paolo alla sua venuta (XI).
I carismi. - Passa quindi l'apostolo a parlare dei carismi, forse perché celebrata l'Eucaristia, si verificavano le maggiori manifestazioni di questi doni dello Spirito. Dice che i veri carismi si riconoscono dalla tendenza a glorificare Gesù Cristo; ed essi sono di svariate specie (v. carisma). Tale varietà ben si addice alla Chiesa, la quale è il corpo mistico di Cristo, e come nel corpo vi son tante membra diverse e tuttavia vivono in perfetta armonia, così deve essere dei fedeli aventi diversi doni carismatici (XII). Del resto se ambiscono qualche carisma speciale si volgano alla carità. E qui (XIII) l'apostolo innalza ad essa uno splendido inno (la cui autenticità, malgrado recenti attacchi, è fuori dubbio), esaltandola sopra alla stessa fede e speranza. Fra gli altri carismi, la profezia è da preferirsi alla glossolalia, perché la prima è utile anche agli altri. Alle donne poi non si permetta di parlare in pubblico (si noti tuttavia che in XI, 5, l'apostolo concede che a volte anche le donne possano profetare e orare nel pubblico consesso dei fedeli). - Molte discussioni si agitano sul numero e natura di questi carismi; specialmente la glossolalia è stata oggetto di ricerche accurate e profonde, ritenendola alcuni un dono miracoloso di parlare lingue sconosciute al carismatico, altri un fatto naturale di emettere suoni inarticolati mentre l'anima è presa da forte eccitazione ed entusiasmo religioso; l'esame però di tutto il contesto di questo cap. XIV non sembra favorire quest'ultima opinione.
Della resurrezione. - Contro i dubbî su di essa, che cominciavano a impadronirsi dell'anima dei Corinzî, Paolo afferma innanzi tutto che Cristo è veramente risorto e apparve a Cefa, agli altri apostoli, a più di 500 fratelli insieme, dei quali molti, aggiunge, sono ancora in vita, a Giacomo (il minore), e finalmente a lui. Abbiamo qui, come si vede, una tradizione delle apparizioni antichissima, indipendente dai Vangeli, e il cui altissimo valore storico non ha bisogno di commenti. - Se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo - argomenta l'apostolo - perché al capo glorioso devono corrispondere membra gloriose. Quindi come per un uomo (Adamo) venne la morte, così avremo la risurrezione per un uomo, Cristo, a cui secondo i vaticinî tutte le cose devono essere soggette, compresa la morte. Come potrà darsi però un corpo glorioso? Stolto! - dice l'apostolo - non vedi che anche nei vegetali bisogna che il seme si corrompa perché sorga la pianticella? Perché dunque non potrà aversi un corpo incorruttibile, glorioso, agile, splendente? Del resto poiché la carne corruttibile non può ereditare la vita incorruttibile, è di necessità che avvenga questa trasformazione; e così i morti risorgeranno, e i viventi, nel gran giorno, saranno trasformati. Siano dunque fermi i Corinzî nella fede loro predicata (XV). Chiude la sua lettera l'apostolo (XVI) ricordando la grande colletta che allora faceva per i fedeli poveri di Gerusalemme, ed esorta ad essere generosi. Egli vorrebbe restare a Efeso fino alla Pentecoste, poi andare da loro; frattanto accolgano bene Timoteo; Apollos, pregato da Paolo a visitarli, finora ne è stato impedito (e così appare che l'apostolo non ha alcun rancore per lui). Li salutano Priscilla e Aquila, presso i quali è ospite; li saluta egli stesso, scrivendo di sua mano: Se alcuno non ama Gesù Cristo sia anatema. Maran atha - parole aramaiche che possono significare: "Il Signore è venuto" (ebraico), oppure: "Venga il Signore" (ebraico): cfr. Dalman, Grammatik des jüdisch-palästinischen Aramaisch, Lipsia (1905; par. 41, 1; 74, 3); e tal formula, in quest'ultimo senso, doveva essere familiare ai primitivi cristiani (cfr. Apocalisse, XXII, 50; Διδαχή, 10, 6; Cost. Apost., 7, 26).
II Lettera ai Corinzî. - I motivi e l'epoca di questa 2ª lettera, come le altre questioni ad essa connesse, si vedranno meglio dopo aver brevemente esposto quanto in essa si trova.
Contenuto. L'apostolo si difende. - Paolo con Timoteo saluta le chiese di Corinto e Acaia; passa poi a difendere il suo modo di agire (I, 1-8). Innanzi tutto egli non fu incostante o leggiero, proponendo di venir presto a visitarli, mentre non lo ha fatto e ha stabilito altro itinerario. Se non venne così presto, lo fece per evitare ogni tristezza alla sua venuta, per causa di colui che aveva offeso insieme lui e loro ed era tollerato; ora però è tempo di perdonare, come egli già perdona, avendo il prevaricatore sofferto abbastanza (I, 12-II, 11). Neppure può essere accusato di superbia o doppiezza. Fidenti in Dio - egli dice - noi ci sentiamo liberi di manifestare a faccia aperta la verità, fuggendo le doppiezze; il nostro Vangelo può avere doppî sensi solo per chi ha l'intelligenza accecata dal dio di questo secolo (II, 12-III, 6). Questo tesoro del ministero apostolico lo portiamo però in un corpo debole, circondato da infermità, persecuzioni, ecc., affinché apparisca che ogni forza ci viene da Dio, di cui noi siamo ambasciatori e cooperatori (III, 7-VI, 11). Vi esortiamo a non aggiogarvi con gl'infedeli: quale società vi può essere fra Cristo e Belial? Accoglieteci nel vostro amore, non avendo noi fatto male ad alcuno, anzi portandovi nel nostro cuore per la vita e la morte. Arrivati infatti in Macedonia non avemmo pace, pensando a voi; ma Quegli che consola gli umili, ci ha consolato con la venuta di Tito, il quale ci ha raccontato il vostro amore, le vostre lacrime per noi. E così se vi ho contristato con la lettera scrittavi, ora, vedendone i frutti, godo quasi di avervi afflitto (VI, 12-VII).
La grande colletta per la chiesa di Gerusalemme. - L'apostolo esalta le chiese di Macedonia per la loro generosità nel dare, e spera che anche i Corinzî, come sono egregi in tante virtù, così appariscano eccellenti nella liberalità. Frattanto invierà Tito per compiere quest'opera e con esso due altre fratelli: uno lodato in tutte le Chiese per la sua opera nel Vangelo, anzi da esse eletto (Luca? Sila?), e un altro carissimo a Paolo; per tal modo nessuno avrà occasione di malignare o accusare l'apostolo. Facciano le loro offerte con animo pronto e generoso, affinché quando egli verrà con i fratelli di Macedonia, non abbia ad arrossire di loro; diano anche con letizia, ché Dio ama chi con letizia offre (VIII-IX).
Parte polemica. - L'apostolo spera di non dover usare verso i Corinzî quell'autorità che si propone manifestare contro chi lo accusa. Se qualcuno si vanta d'essere dl Cristo, Paolo lo è di più; né farà come taluni che si gloriano invadendo il campo altrui e sfruttandone le fatiche; se egli si gloria dell'autorità avuta da Dio e delle opere compiute, è nella verità; tuttavia da Dio deve venirci la lode, non da noi stessi (X). Ad ogni modo sopportate un po' la mia follia - aggiunge - voglio gloriarmi anch'io, affinché conosciate che in nulla sono inferiore a quelli che sono i grandi apostoli (ὑπερλίαν ἀπόστολοι). Certo questo vi è di speciale in me, che nulla ho voluto mai prendere da voi per mia sostentazione, ed anche in seguito voglio conservarmi questa gloria; mi si accusa di ciò, ma per vedermi simile a quelli che vi spogliano: falsi apostoli, ministri di Satana. Di che cosa si osa trar vanto, di cui non lo possa anch'io? Sono ebrei? anch'io sono tale; figli di Abramo? anch'io; ministri di Cristo? ebbene, parlo da stolto, sono tale più di loro, per gl'innumerevoli travagli sofferti: flagellazioni, imprigionamenti, naufragi, ecc. E veniamo alle visioni: io so di uno (Paolo stesso) che or fa 14 anni fu rapito al terzo cielo, e vide cose che è impossibile raccontare. Affinché però non mi esaltassi troppo - aggiunge subito - mi è stata data come una spina nella carne (σκόλοψ τῇ σαρκί) e Satana mi schiaffeggia; così piuttosto delle mie infermità, della mia debolezza, delle persecuzioni, degli obbrobrî, mi voglio gloriare, affinché la potenza di Cristo non mi abbandoni. Ho parlato da stolto, ma voi mi ci avete costretto, onde mostrarvi che in nulla sono inferiore ai grandi apostoli, quantunque io sia niente (XI-XII). Ecco che per la terza volta, sto per venire da voi; voglia il cielo che vi trovi quale io vorrei, e non sia costretto a piangere sopra molti che non hanno fatto penitenza delle loro impurità, fornicazioni, e altri delitti; appunto per ciò vi scrivo, a affinché non abbia ad usare la severità venendo in persona. Seguono i saluti e le esortazioni finali (XIII).
Questioni critiche. - Questa II lettera apre il campo a questioni importanti agitate fra i critici del Nuovo Testamento.
Chi erano questi perturbatori della chiesa di Corinto, da Paolo così fortemente attaccati? Un'opinione, oggi molto in voga, ritiene che fossero dei giudaizzanti, emissarî della chiesa di Gerusalemme. Sembra difficile che ciò corrisponda a verità, giacché Paolo in tutta la lettera non ha una parola contro le dottrine, ben note e da lui accanitamente combattute, dei giudaizzanti (v. galati, lettera ai); egli accusa i suoi avversarî solo d'invadere il campo e gloriarsi delle fatiche altrui, e più che altro di avarizia. Come poi avrebbe potuto chiamare tali persone "ministri di Satana" se fossero state autentici legati della chiesa di Gerusalemme? Ben è vero che, pur con mille cautele, Paolo ha in mira di non mostrarsi in nulla inferiore ai grandi apostoli (τοῖς ὑπερλίαυ ἀποστόλοις): ma ciò si spiega agevolmente, ammettendo che siffatti perturbatori cercassero di diminuire l'autorità e prestigio di Paolo, spargendo che era molto inferiore ai dodici, eletti immediatamente da Cristo. E così non si può affermare che la II Corinzî ci mostri Paolo in lotta con gli altri apostoli giudaizzanti. Tutto piuttosto induce a pensare tali perturbatori non essere stati se non persone, di propria iniziativa introdottesi nella comunità di Corinto, le quali cercavano per avarizia e ambizione di diminuire il grande prestigio che l'apostolo vi godeva, spargendo voci calunniose contro di lui (che era incostante, superbo, finto, ecc.) e dichiarandolo inferiore ai grandi apostoli, eletti immediatamente da Cristo. Secondo altri ancora, che in sostanza s'accostano a questa seconda opinione, le parole τοῖς ἱπερλίαν ἀποστόλοις avrebbero, in bocca di Paolo un senso ironico e sarebbero rivolte contro questi perturbatori.
Altra questione: che cosa era accaduto nel tempo decorso fra la prima e la seconda lettera? Anche su ciò vi sono discussioni: alcuni critici pensano che Paolo, scritta la prima, si recò poco dopo a visitare i Corinzî, ma li trovò così mal disposti, che da uno fu anche personalmente ingiuriato; dolente l'apostolo si ritrasse ad Efeso, dove fra le lacrime, scrisse una lettera gravissima a quei fedeli. Essa si troverebbe negli ultimi tre capitoli della nostra (precisamente X, i XIII, 10) come apparirebbe da una differenza di tono tra la prima e la seconda parte e da alcuni passi (X, 6; XIII, 2; XIII, 10) in cui si parla d'una visita futura, mentre in II, 9; I, 23; II, 3 (che si contrappongono rispettivamente ai tre primi), si parla d'una visita già avvenuta. Invece secondo altri questa "lettera intermedia" o lettera "triste" (ἐν λύπῃ, II, 4) sarebbe perduta. Tito, incaricato, di portarla, riuscì a calmare i Corinzî, e al suo ritorno Paolo, informato, scrisse la nostra, preparandosi a visitare quella chiesa per la terza volta. Altri, per contrario, ritengono che queste supposizioni non sono affatto necessarie. Paolo, dicono, non fece alcuna visita ai Corinzî nel tempo trascorso fra la I e la II lettera (circa 55-56), quantunque prima di scrivere la I li avesse già visitati una seconda volta, cosicché nella II poté parlare di una terza visita, e le due serie di passi non parlano necessariamente della stessa; l'offensore di Paolo, come se ne parla in questa lettera (II, 5-7; VII, 12) può ben essere identificato con l'incestuoso della prima (V, 1 seg.); né, aggiungono, vi è bisogno di supporre una lettera intermedia, ché anche la I Cor. contiene riprensioni e minacce severe, per cui poteva esser detta gravissima (v. I Cor., IV, 18-21; V, 1-2; VI, 8-11, 17-22, ecc.). Questa seconda sentenza lascia meno campo all'arbitrario, e, fra l'altro, evita la difficoltà non lieve d'un recente viaggio di Paolo a Corinto: mentre nella nostra lettera vediamo che l'apostolo si scusa di aver tanto differito il visitarli, non mantenendo le promesse fatte (II Cor., I, 15 segg.).
Finalmente il contenuto della lettera ci ha mostrato come essa sia divisa in tre parti ben distinte; da ciò alcuni presero occasione per ritenere che noi avessimo nella II Cor. una collezione di due o tre lettere mutilate, pur sempre d'origine paolina. La ragione non sembra decisiva: anche in altre lettere dell'apostolo (ad es. Colossesi, Efesini) la parte morale è ben distinta da quella dottrinale, e in Romani non solo la parte morale, ma anche la questione della riprovazione dei Giudei (cc. IX-XI) costituiscono sezioni quasi indipendenti fra loro. D'altra parte l'esame, anche superficiale, delle varie parti della II Cor., ce ne discopre subito l'unità di lingua e di stile, e specialmente vi appariscono gli stessi affetti e le allusioni alle stesse circostanze storiche.
Accenniamo appena ai tentativi di sezionare la prima lettera ben organata intorno alle risposte ai varî punti su cui i Corinzî avevano interrogato l'apostolo (περὶ δέ: VII, 1; VII, 25; VIII, 1; XII, 1; XVI, 1; XVI, 12) in varie porzioni, tutte ugualmente paoline, e ai tentativi di ritrovare in essa (come pure in un breve tratto della seconda, VI, 14 VII, 1) un frammento della "lettera precedente", cui allude la nostra prima.
Autenticità; testimonianze; date. - Ambedue le lettere appartengono alle maggiori dell'apostolo, ritenute, possiamo dire, all'unanimità per autentiche dai dotti di qualunque scuola, compresa quella di Tubinga. Vi furono, è vero, alcuni critici, specialmente olandesi (Naber, Pierson, Laman, van Manen), i quali giunsero a negare all'apostolo tutte le lettere, e con ciò anche le nostre, ma le loro posizioni non trovarono né trovano fautori. Nelle nostre lettere infatti rifulgono tutti i caratteri dello stile e del pensiero di Paolo.
Tra le più antiche testimonianze, menzioniamo Clemente Rom. (I Cor., 47, 1-3), che ricorda la nostra prima, scritta da Paolo; Marcione, che le aveva ricevute ambedue nel suo canone (Tertull., Adv. Marc., 5, 5), Ireneo (Adv. Haeres., 3, 7, 1; 3, 11, 9; ecc.) e il Frammento Muratoriano (lin. 39-54), che le ascrivono ambedue a Paolo.
Quanto al tempo e luogo di composizione delle nostre lettere, non è difficile, almeno approssimativamente, determinarli. La prima fu scritta mentre Paolo era in Efeso durante la sua terza grande missione, e verso la fine della sua dimora in quella città, cioè circa l'anno 55-56 e prima della Pentecoste (I Cor., XVI, 5-9); la seconda dovette essere scritta poco prima che l'apostolo si accingesse a visitare per la terza volta i Corinzî (II Cor., XIII, 1), cioè quando, troncata per le persecuzioni la sua missione in Efeso, stava per mettersi in viaggio, o vi si era già messo, e si trovava in Macedonia - come più comunemente si ritiene - cioè circa la fine dell'anno 56.
Bibl.: Oltre le opere generali su S. Paolo: G. Godet, Commentaire sur la I et II Épître aux Corinthiens, Parigi 1887-1914; R. Cornely, Comment. in I et II Epist. ad Corinthios, 2ª ed., Parigi 1909; J. Weiss, Der erste Brief an die Korinther, in Meyer's Komment, 9ª ed., Gottinga 1910; H. Windisch, Die zweite Brief an die Korinther, ibid., 9ª ed., ivi 1924; H. Lietzmann, An die Korinther I, und II, in Handbuch des N. T., III, 2ª ed., Tubinga 1923; J. E. Belser, Der erste u. zweite Brief an die Korinther, Friburgo in B. 1910; C. Toussaint, Épîtres de Saint Paul aux Corinthiens, Parigi 1910; A. Robertson e A. Plummer, A critical and exegetical Comment, on the I. Epist. to the Corinthians, Edimburgo 1911; A. Plummer, A critical and exeget. Comment. on the II. Epist. to the Corintians, Edimburgo 1919; J. Sickemberger, Die beiden Briefe an die Korinther, Bonn 1919; E. Golla, Zwischenreise und Zwischenbrief an die Korinther, Friburgo in B. 1922; G. Re, Le lettere di S. Paolo, traduzione e breve commento, Torino 1925.