lettere e epistolografia
La corrispondenza epistolare comincia a diffondersi nella prima metà del Duecento, in concomitanza con la diffusione degli usi scritti del volgare, in seguito a due mutamenti di carattere materiale: l’inizio della produzione in Italia della carta, supporto di gran lunga più economico della pergamena; lo sviluppo di una nuova grafia, la mercantesca (➔ grafia; ➔ mercanti e lingua), caratterizzata da un ductus corsivo adatto a fluidificare l’operazione di scrittura, e insegnata principalmente nelle scuole d’abaco, dove avveniva la formazione dei mercanti (Miglio 1994; Petrucci 2008).
Nello stesso periodo maturò una maggiore attenzione alle esigenze di conservazione del testo epistolare, per sua natura facilmente deperibile: per motivi diversi sia le lettere prodotte da uffici pubblici sia quelle delle famiglie mercantili iniziarono a essere custodite in archivi pubblici e privati.
Affermatosi l’uso del volgare (ma la convivenza col latino durò ancora per secoli), le strade del genere lettera divergono: da un lato si consolida nell’apparato formale l’epistola colta, ispirata alla prosa d’arte, che eleva il volgare epistolare in ossequio a modelli mediolatini (cursus, ricco apparato di figure retoriche, rigorosa disposizione delle parti, ecc.); dall’altro si sviluppa una sempre più imponente tradizione di scrittura mercantile, opera di un ceto sociale che di norma non conosceva il latino o ne aveva solo una competenza passiva.
La cultura alta, di cui erano interpreti i maestri di retorica, mostrò immediatamente un atteggiamento di sussiegosa sufficienza nei confronti delle scritture dei mercanti. Lo sdegnoso disprezzo nei confronti della cultura mercantile espresso, per es., da Boncompagno da Signa (1170-1250) in un brano assai noto (Rockinger 1961: 173) emerge ancora due secoli più tardi, a metà del Quattrocento, quando l’umanista senese Enea Silvio Piccolomini (futuro papa Pio II), da Ratisbona, invia una piccata risposta a una lettera ricevuta dal mercante Ambrogio Spannocchi, suo concittadino, in cui sostiene di non aver capito nulla del contenuto della missiva e rimarca di essere stato istruito a comprendere «i caratteri latini e non gli uncini mercanteschi» (Petrucci 2008: 64).
Si deve a Melis (1972) una ricognizione ancor oggi valida sui temi e le strutture ricorrenti nelle lettere mercantili. Il dato più rilevante è senza dubbio l’architettura funzionale dell’epistola mercantile: in essa, rispetto alla produzione colta, minore spazio è dedicato al carattere formulare e agli artifici retorici, maggiore alle sezioni informative. Ciò non impedisce che la lettera mercantile acquisti nel tempo una scansione stabile delle parti, caratterizzata da un nucleo centrale, propriamente informativo, preceduto e seguito da una cornice pragmatica contenente in apertura l’invocatio, formule allocutive di apertura e informazioni meta-epistolari (per es., rassicurazioni sulla ricezione della missiva precedente dell’interlocutore, con una breve sintesi del suo contenuto, rammarico per la lentezza della risposta e simili), in chiusura formule di congedo. Alcune di queste sezioni potevano essere sacrificate per scarsa padronanza testuale dai mittenti meno colti (Palermo 1994).
Le sezioni informative potevano riguardare sia informazioni sull’azienda (resoconti sul suo andamento, ordini, disposizioni e quant’altro necessario a gestire imprese commerciali già ramificate in filiali in Italia e all’estero) sia informazioni extra-aziendali: il mercante voleva essere aggiornato su guerre, carestie, cambi di alleanze politiche, percorribilità delle vie di comunicazione e sulle possibili ripercussioni di tali accadimenti sulla propria attività. Nelle lettere si trovano così anche «previsioni di avvenimenti economici di ogni sorta, [...] narrazioni efficaci e gustose di intrighi di corti, di signori laici ed ecclesiastici, fino al pettegolezzo intorno a persone secondarie» (Sapori 1983: 11). Per questo aspetto le lettere mercantili vanno considerate come antesignane della stampa periodica.
Veri e propri topoi della scrittura mercantile sono il riferimento alla frenesia del processo di scrittura e l’ossessione per la chiarezza del dettato grafico, spia evidente di una bassa qualità media delle grafie, soprattutto quelle adoperate dai corrispondenti locali. All’iperattivismo scrittorio, di cui è testimonianza diretta la dimensione dell’Archivio Datini di Prato (150.000 lettere, 500 registri e libri di conti, migliaia di documenti commerciali), fa riferimento Francesco Datini in una lettera alla moglie: «Iersera [non] mi sentia molto bene della persona per lo molto scrivere che ò fatto questi due dì, senza dormire né di dì né di notte» (Origo 1979: XIX). Lo stesso Datini biasima la trascuratezza della scrittura di un suo agente fiorentino e il suo consocio Domenico di Cambio si preoccupa di inviare il ragazzo da un precettore privato, che lo metta in grado di scrivere comprensibilmente (Melis 1972: 26).
Le lettere mercantili costituiscono una preziosa documentazione della lingua non letteraria, con interessanti fenomeni di ibridazione fra dialetti dovuti alle situazioni di contatto linguistico tra parlanti eterogenei innescate dalle necessità dell’azienda. La varietà degli scriventi si traduce in diversi livelli di elaborazione linguistica. Fra le testimonianze più interessanti quelle degli scriventi meno colti (in genere famigli e fattori di aziende agricole locali) la cui scrittura mostra segni di trasferimento sulla carta di fenomeni dell’oralità. Si tratta di scriventi «ovviamente alfabetizzati, ma incolti quanto basta per ‘vivere’ la comunicazione scritta in modo formalmente e sostanzialmente non diverso da quella orale» (De Blasi 1982: 9). Proprio da studi su carteggi di questo tipo ha preso le mosse negli scorsi decenni il filone di studi sull’italiano dei semicolti, che anche in epoche successive avrebbero affidato le proprie testimonianze scritte principalmente al mezzo epistolare (D’Achille 1994).
Fra XIV e XV secolo si registra la presenza di autrici femminili, sia come scrittrici in proprio sia come dettatrici. Tra le prime si ricordano alcune mogli di mercanti, come Margherita Datini, che imparò a scrivere da adulta proprio per intrattenere corrispondenza col marito, e la fiorentina Alessandra Macinghi Strozzi, moglie di Matteo, autrice di un interessante carteggio in cui si mescolano disbrigo di affari e affetti privati; tra le seconde santa Caterina da Siena, che dettò il proprio epistolario prevalentemente ad alcune consorelle. Allo stato degli studi sembra che le testimonianze emergenti dalle scritture epistolari femminili tre-quattrocentesche, sia di laiche sia di religiose, sfuggano a precise catalogazioni, tanto per le abitudini di scrittura quanto per la codificazione retorica (Miglio 2008).
Le artes dictandi (il nome si deve all’abitudine del tempo a dettare a un segretario il testo delle missive), composte a partire dall’XI secolo, insegnavano l’arte di comporre lettere in latino. Da Bologna, prestigiosa sede universitaria e fondamentale centro di cultura giuridica, letteraria e retorica, provengono quasi tutte le artes dictandi del XIII secolo; in questa città «il volgare, diventando lo strumento dell’epistolografia ufficiale, si nobilita: si libera cioè dei suoi tratti dialettali più spinti e, modellandosi sul latino, acquista forme stabili e regolari» (Dardano 1999: 277). A Guido Faba, notaio attivo a Bologna nei primi decenni del Duecento, si deve l’iniziativa di adattare al volgare l’apparato retorico, formulare e stilistico della tradizione mediolatina. Nacque così, con la redazione della Gemma Purpurea (1239-1248) e dei Parlamenta et epistole (1243), un importante filone della prosa d’arte italiana, legato anche al progetto di nobilitare la corrispondenza in volgare delle pubbliche autorità, progetto di importanza strategica per lo sviluppo della civiltà comunale.
L’importanza riservata alla stesura delle lettere ufficiali è testimoniata dall’altissimo profilo culturale delle personalità chiamate a dirigere le cancellerie e dalla cura formale dedicata al processo di elaborazione dei documenti: stesura di una minuta, revisione, redazione della copia definitiva, conservazione di una copia di essa in appositi registri, denominati appunto copialettere (➔ cancellerie, lingua delle).
L’apparato dei modelli di lettera in volgare inseriti in queste opere non era soltanto al servizio di importanti relazioni politiche o diplomatiche, ma prevedeva anche esempi per usi quotidiani. Nella lettera seguente uno studente fuori sede, dovendo chiedere al padre di inviargli dei soldi, scomoda un imponente apparato retorico e metaforico:
Andato sono al prato della Filosofia bello, delectevole e glorioso, e volsi cogliere flore de diversi colori, aço ch’eo fecesse una corona de merevegliosa belleça, la quale resplendesse in lo meo capo, et in la nostra terra a li amisi e parenti reddesse odore gratioso. Ma lo guardiano del çardino contradisse, s’eo non li facessi doni placeveli et onesti. Unde in per quello che no v’è che despendere [= poiché non ho da spendere], sì la vostra liberalità vole che vegna a cotanto onore, vogliatime mandare pecunia in presente, scì che in lo çardino in lo quale sono intrato, possa stare e cogliere fructo pretioso (Guido Faba, Parlamenta et epistole, in Segre & Marti 1959: 17).
Si notino le metafore imperniate sull’immagine iniziale del prato della Filosofia, con la brusca discesa al piano letterale solo per avanzare la richiesta (vogliatime mandare pecunia), l’apparato di dittologie (doni placeveli et onesti) e terne (prato [...] bello, delectevole e glorioso), le anastrofi (andato sono), il chiasmo (una corona [...] la quale resplendesse in lo meo capo, et in la nostra terra [...] reddesse odore gratioso).
Sul versante letterario della produzione epistolare spicca l’esperienza di ➔ Francesco Petrarca, che con le sue raccolte di lettere latine (le Familiares, le Seniles, le Sine nomine, l’incompiuta Epistola posteritati, le Epystolae in esametri) fonda un nuovo genere letterario superando le consuetudini mediolatine e riallacciandosi direttamente alla tradizione classica, in particolare al modello ciceroniano.
La grande novità, che fece delle raccolte petrarchesche un modello a cui avrebbero guardato gli intellettuali europei per tutta l’età moderna, consiste nella concezione dell’epistolario non come regesto casuale di materiali autobiografici, ma come opera letteraria, cui l’autore dedica le medesime cure che alle opere maggiori e in cui lascia la propria impronta autoriale attraverso la selezione, gli interventi correttivi, l’inserimento delle singole tessere in raccolte organiche organizzate cronologicamente o tematicamente. Il sentiero segnato da Petrarca sarebbe poi stato seguito da Coluccio Salutati, per confluire nella tradizione dell’epistola latina umanistica. Il distacco dalla retorica mediolatina si rileva dal punto di vista formale nell’abbandono del cursus e del rigido apparato formulare delle artes dictandi, sul piano grafico nell’imitazione della grafia corsiva antiqua.
Nel Cinquecento la produzione epistolare entra in tipografia, sia nel senso che scrittori di fama iniziano a pubblicare i propri epistolari (esempi fortunati quelli di Pietro Aretino e di Annibal Caro) sia perché, sulla scorta dei formulari di epistolografia precedenti, nasce un nuovo genere, il Segretario, che prende per antonomasia il nome dall’opera di Francesco Sansovino, pubblicata nel 1564. Un topos, ricorrente anche nella trattatistica successiva, riguarda l’attenzione alle circostanze comunicative e ai rapporti di ruolo tra scrivente e destinatario.
Come ricorda il Sansovino, adattando alla corrispondenza epistolare un noto passo del Cortegiano: «dobbiamo aver in mente chi scrive, a chi si scrive, ciò che noi semo rispetto a colui al qual si scrive, e ciò che sia colui in sé medesimo cui noi scriviamo» (citato in Matt 2005: 25). Nasce così un nuovo e fortunato filone editoriale, che porta alla ridefinizione e all’ammodernamento anche dei modelli di lettera privata (Quondam 1981).
Gli epistolari trasferiti sulla carta stampata, pur raggiungendo un pubblico più ampio, perdevano preziose informazioni sulla disposizione delle parti sullo spazio bianco del foglio di carta; supplirono parzialmente a questa lacuna edizioni pregiate recanti modelli grafici di soprascritte, formule d’esordio, tratti ornamentali, monogrammi: si trattava di volumi con abbondanti esemplificazioni di tali realizzazioni stampati non coi caratteri mobili, ma con apposite lastre di rame incise, alla stregua delle riproduzioni di opere d’arte. L’educazione grafica e l’addestramento alla mise en page del testo scritto a mano viene invece sempre più spesso affidata ai maestri delle scuole, pubbliche o religiose, sviluppatesi in Italia a partire dal periodo post-tridentino.
Lo sviluppo degli scambi epistolari nel periodo compreso tra la rivoluzione francese e il primo conflitto mondiale, a buon diritto definito civilité de la correspondance (Chartier 1991) ha consentito la diffusione presso le fasce di popolazione alfabetizzata di un italiano dell’uso medio sempre più condiviso e consolidato nelle sue strutture portanti, contribuendo così a delineare la fisionomia di quella lingua comune che potesse trasferire sulla pagina scritta la conversazione colta di cui ➔ Alessandro Manzoni, nella celebre lettera a Claude Fauriel del 1821, lamentava ancora la mancanza.
Lo scambio epistolare, da sempre considerato un sostituto della comunicazione faccia a faccia, una modalità comunicativa caratterizzata da una dialogicità asincrona (come si direbbe oggi), sviluppa un’articolazione testuale tesa a inserire nella tessitura linguistica diversi segnali dell’oralità. A questa caratteristica di fondo sono riconducibili molte caratteristiche linguistiche delle lettere ottocentesche, come il forte tasso di espressività e il ricorso frequente a strutture elative ed esclamative.
L’impiego di un lessico di carattere familiare anche in scrittori sorvegliati e ossequenti alla norma alta fa sì che la scrittura epistolare di questo periodo si presenti come «zona franca rispetto alle proibizioni puristiche» (Antonelli 2001: 125). Rientrano in quest’ambito il ricorso consapevole a inserti dialettali (balla, scarafone «scarabocchio, sgorbio», sturbare «sconvolgere»), l’uso di espressioni colorite mirate a descrivere caratteristiche psicologiche di una persona (barbogio, gonzo, minchione, oca «donna frivola», orso «persona poco socievole»), una fraseologia brillante in cui si trovano le tracce di termini ancor oggi caratteristici dell’italiano colloquiale: a passo di formica, a tempo perso, chiudere bottega, darsi la zappa sui piedi, prendere due piccioni con una fava (esempi tratti da Antonelli 2001).
Durante tutto il XIX secolo prosegue la fortuna dei trattati di scrittura, versioni aggiornate e rivisitate dei segretari cinquecenteschi. Fondamentale in questa produzione la riflessione sul rapporto fra testo e paratesto, fra spazi bianchi e spazio per la scrittura, in una retorica
ancora nel primo Ottocento fondata su un galateo che fissa con rigore il comportamento dello scrivente rispetto a una serie di tratti, molti dei quali esterni alla stesura vera e propria del testo [...] in un quadro di semantizzazione completa del gesto comunicativo (Antonelli 2003: 32).
Sul versante degli aspetti materiali della scrittura e del confezionamento della missiva si registra un progressivo adeguamento alle esigenze di rapidità e uniformazione dei nascenti sistemi postali pubblici; a partire dal 1850, sul modello di quanto avvenuto un decennio prima in Inghilterra, i vari stati italiani introdussero il francobollo: una tariffa di spedizione unica, pagata alla spedizione dal mittente e non all’arrivo dal destinatario, indipendente dalla distanza, ma variabile in base al peso del contenuto.
Quest’ultimo aspetto incentivò l’uso di carta più leggera, che già in precedenza in alcune zone d’Italia costituiva una variabile significativa: ➔ Giacomo Leopardi scrive nel 1825 alla sorella Paolina da Milano: «scrivetemi in carta piuttosto fina, perché se il foglio è un po’ grosso, qui si raddoppia subito il prezzo della lettera» (citato in Antonelli 2003: 35). Da ricordare inoltre la diffusione del pennino d’acciaio, che rendeva più fluida e veloce l’operazione di scrittura, e la nascita intorno al 1870 della cartolina, che consentiva di ridurre i costi di spedizione sacrificando però la riservatezza del contenuto.
Dal punto di vista della conservazione e dell’accesso alla documentazione, parallelamente a un aumento esponenziale degli epistolari editi su carta, è da registrare negli ultimi anni la creazione di archivi digitali consultabili in rete. Fra le iniziative in tal senso si ricordino il corpus contenente una porzione del carteggio Datini (http://aspweb.ovi.cnr.it), l’AITER (Archivio Italiano della Tradizione Epistolare in Rete: http://aiter.unipv.it, attivo dal 2008) e il CEOD (Corpus Epistolare Ottocentesco Digitale, www.unistrasi.it/ceod, attivo dal 2003). Quest’ultimo, attualmente composto da circa 1300 lettere di 73 scriventi diversi, in massima parte inedite, offre un significativo campione della produzione epistolare ottocentesca (Antonelli, Chiummo & Palermo 2004; Antonelli et al. 2009).
Se ai piani alti della cultura gli epistolari novecenteschi hanno contribuito a tracciare la storia delle idee (per citare solo alcuni nomi eccellenti si pensi a ➔ Benedetto Croce, Antonio Gramsci, Elio Vittorini, Cesare Pavese), lo strumento epistolare ha costituito sovente l’unica modalità di accesso alla scrittura per le classi subalterne, testimoni involontarie di eventi della grande Storia: l’emigrazione italiana (sulla lingua delle lettere degli emigrati, ➔ interferenza), le migrazioni interne conseguenti all’industrializzazione del nord Italia, i due conflitti mondiali.
Sul versante delle condizioni materiali prosegue la rincorsa all’innovazione tecnologica con l’introduzione del telegrafo, del telefono, della macchina per scrivere, che hanno progressivamente confinato l’uso della scrittura a mano su carta nel recinto degli scambi di natura privata e affettivo-sentimentale.
In anni recenti ha acquisito sempre più peso la comunicazione commerciale in forma epistolare: in questo genere di missive le convenzioni sociali che per secoli hanno governato la pratica dello scriversi secondo norme di cortesia linguistica implicitamente o esplicitamente codificate sta lasciando spazio a una diffusa informalità in nome di una presunta vicinanza alle esigenze del destinatario-cliente. Se ne osservano gli effetti nell’uso generalizzato del tu e di un tono confidenziale (senza la precondizione di ciò, cioè che ci sia confidenza tra gli interlocutori) nelle lettere circolari che periodicamente le aziende fornitrici di servizi pubblici o privati inviano agli utenti.
L’avvento dell’era digitale ha spazzato via in appena un quarto di secolo abitudini millenarie. Dapprima il personal computer ha soppiantato l’uso della macchina per scrivere negli uffici; subito dopo, l’avvento della comunicazione telematica di massa ha fatto entrare nelle nostre case strumenti di comunicazione sempre più evoluti. La loro diffusione, oltre a determinare nuove forme di analfabetismo tecnologico, sta avendo effetti linguistici rilevanti: primo fra tutti l’integrazione e l’ibridazione di modalità proprie della comunicazione orale e di quella scritta (Pistolesi 2004; Antonelli 2009). Ci si può chiedere se la lettera cartacea nell’epoca di Internet (➔ Internet, lingua di; ➔ posta elettronica, lingua della) sia destinata a scomparire o a evolversi secondo nuove forme, e cercare di individuare cosa rimanga della partitura testuale della lettera nell’e-mail.
Ad oggi si può affermare che la posta elettronica costituisce lo strumento linguisticamente più duttile nell’ambito della comunicazione trasmessa con supporti tecnologici (sms, chat, forum, social network, ecc.): il registro e il grado di formalità possono oscillare tra impieghi spiccatamente informali, in cui si usa l’e-mail come alternativa al messaggino telefonico (la possibilità di gestire col telefono cellulare anche la posta elettronica favorisce la fusione e confusione tra i due ambienti) e usi ufficiali ed elaborati in cui l’e-mail può assumere quasi tutte le caratteristiche formali della lettera su carta.
Quanto all’organizzazione del testo la lettera elettronica può abbandonare molte delle convenzioni a cui ha soggiaciuto per secoli il genere epistolare: in un messaggio di posta elettronica perfino i due segnali ‘estremi’ della partitura testuale – l’apertura e la chiusura assolute – sono resi ridondanti dalle modalità di trasmissione del messaggio, che può iniziare senza alcuna delle tradizionali formule allocutive e terminare senza la firma, dato che il destinatario sa comunque da chi sta ricevendo il messaggio. Inoltre la possibilità di incollare nella risposta il contenuto del messaggio precedente sta cambiando quella che per secoli è stata una caratteristica fondante della comunicazione epistolare, cioè il riferimento sintetico alle questioni poste dall’interlocutore nella lettera precedente mediante l’uso di appropriati strumenti anaforici.
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