Lettere
Denominazione consueta del carteggio privato, che comprende le lettere inviate (un’ottantina) e ricevute (circa 250) tra il 1497 e il 1527. Ne fanno parte, in effetti, anche lettere ‘semiprivate’, cioè inviate a titolo privato pur avendo per oggetto l’attività pubblica (amministrativa o diplomatica).
Le lettere ricevute, conservate nell’archivio personale di M. o recuperate dai suoi destinatari, furono raccolte alla fine del Cinquecento con molti altri suoi documenti dal nipote Giuliano de’ Ricci (→) che, dopo averle trascritte in gran parte nel suo Copiario (oggi BNCF, cod. Palatino E B 15.10), le fece rilegare nei faldoni che costituirono il fondo Machiavelli della famiglia de’ Ricci fino all’inizio dell’Ottocento. Dopo la dispersione parziale e la vendita del fondo a opera di Scipione de’ Ricci, la maggior parte delle carte vennero acquistate dal granduca di Toscana nel 1827 per la Biblioteca Palatina. Smembrate le sei filze originali, le lettere vennero riposte in singole custodie e ripartite nelle sei cassette delle attuali Carte Machiavelli della BNCF. Altri due spezzoni importanti del carteggio, finiti in collezioni private al momento dello smembramento dell’archivio originario, tornarono alla luce nel Novecento e vennero acquistati, grazie all’intervento di Roberto Ridolfi (→), dalla BNCF, per confluire in due fondi: Ginori Conti (prevalentemente sotto il nr. 23, ma anche 28, 29, 79) e Nuovi Acquisti 1004 (Bargagli).
Il notevole squilibrio fra lettere ricevute e lettere inviate (meno di un terzo) è dovuto al fatto che M. non trascrisse mai in un copialettere le proprie missive, contrariamente a quanto avveniva con i carteggi ufficiali di cancelleria; non intendeva infatti, nella maggior parte dei casi, dare uno statuto letterario alle sue missive. Giustamente gli editori moderni le hanno designate con il semplice titolo di Lettere, e non di Familiari, come avviene per i carteggi privati di letterati destinati a un pubblico più ampio. Ciò non significa che non si rifacciano spesso a modelli classici o non ricalchino schemi argomentativi del trattato, forme del comico o strutture narrative e dialogiche della novella e della commedia.
Il carteggio si suddivide in due grandi periodi: quello degli anni di cancelleria (1498-1512) e quello posteriore al ritorno dei Medici a Firenze (1513-27). Degli anni anteriori all’elezione a cancelliere è rimasto ben poco: una bozza di lettera e due missive. Considerando che nel 1498 M. aveva 29 anni e che nei decenni seguenti custodì con cura le lettere private che gli vennero inviate, questa mancanza di documentazione, che ci avrebbe potuto informare sulle sue attività e sui suoi interessi di almeno dieci anni, è sorprendente. Non sappiamo se vada ascritta a una precisa volontà sua o a una selezione di Giuliano de’ Ricci, che ne raccolse gran parte presso parenti e amici, o se si tratti di puro caso. Le lettere superstiti attestano comunque un certo ruolo di Niccolò: lo vediamo scrivere a un cardinale, a nome della famiglia Machiavelli, e informare un destinatario che è stato identificato nel prelato Ricciardo Becchi sul contenuto delle prediche di Savonarola.
Le lettere del periodo 1498-1512 hanno tre tipi di destinatari: i colleghi di cancelleria, i parenti, i personaggi ufficiali. I carteggi del primo e in parte del secondo gruppo sono ascrivibili ai periodi di assenza di M. da Firenze, mentre parte di quelli del secondo e soprattutto del terzo corrispondono ai periodi in cui lavora in cancelleria. Nel primo prevalgono le lettere di Biagio Buonaccorsi (→), che M. considerava non solo un amico, ma addirittura un fratello («tamquam frater»). Buonaccorsi e altri compagni di lavoro come Agostino Vespucci lo informano per lo più dei fatti locali e pettegolezzi dell’ufficio – badando in particolare che l’assenza del cancelliere non venga messa a profitto dai suoi avversari per nuocergli –, e lo aggiornano anche, quando la missione si svolge lontano dall’Italia, sulle mosse di Cesare Borgia, dell’imperatore o del re Spagna, e sull’organizzazione della milizia fiorentina. Sebbene nessuna missiva di M. ai colleghi ci sia giunta, dalle loro risposte si possono desumere non poche informazioni sulla preminenza esercitata da Niccolò in cancelleria, tanto per le sue capacità di funzionario quanto per le sue doti di animatore di una brigata burlona e ciarliera. Se ne può anche dedurre che in quelle lettere soleva usare un registro medio-basso e di gusto comico allusivo, che proseguiva idealmente quello delle conversazioni della brigata; in questo senso, la scrittura privata veniva a costituire una sorta di alternativa al linguaggio diplomatico o cancelleresco usato nei dispacci ufficiali («li motti e facezie usate in esse muovono ogni uno a smascellare delle risa, e danno gran piacere» gli scrive, per es., Bartolomeo Ruffini il 23 ott. 1502, Lettere, pp. 57-58).
Il carteggio con i familiari ruota di solito attorno a due temi: quello degli affari e, ancor più, quello degli affetti. La lettera della moglie che gli annuncia la nascita del figlio nel 1503 è, per es., tutta improntata alla semplicità e all’oralità; quelle del fratello Totto, sempre in cerca di benefici ecclesiastici, abbondano di luoghi, di cifre e di nomi di persone da coinvolgere; quelle del cognato Francesco Del Nero sono dense di riferimenti ad attività commerciali e a possibili ricche prebende.
Le lettere del terzo gruppo potrebbero essere qualificate, per lo più, come semiufficiali, poiché contengono quasi sempre comunicazioni apparentemente private, ma riferite ad attività amministrative e diplomatiche. Ciò spiega la presenza di personalità importanti della vita politica fiorentina del periodo ‘repubblicano’, come il gonfaloniere perpetuo Piero Soderini in primis, il fratello di questi cardinale Francesco, Niccolò Valori, Roberto Acciaiuoli, Pier Francesco Tosinghi. Le missive del gonfaloniere permettono di seguire l’ascesa del segretario, e soprattutto del diplomatico, nelle sue grazie; quelle del cardinale, dei progressi e degli ostacoli che si frappongono al più alto livello alla creazione della milizia fiorentina caldeggiata da M., nonché degli appoggi potenti su cui può contare per contrastare l’ostilità degli ottimati; quelle di Niccolò Valori, sulla fiducia riposta in lui da una parte della classe dirigente, in particolare in ambito diplomatico; quelle di Roberto Acciaiuoli, sui risvolti più segreti delle faccende alla corte di Francia; riguardo a quelle di Pier Francesco Tosinghi, esse danno la misura, nelle richieste di sostegno presso la corte pontificia, del prestigio raggiunto da M. grazie alla sua missione presso Giulio II e alla sua vicinanza al cardinale Francesco Soderini. A questo gruppo appartengono tutte (tranne una al fratello Totto) le lettere private di M. del periodo cancelleresco. Questa dozzina di missive rappresenta infatti il versante privato della sua attività amministrativa e diplomatica che veniva – per contatti personali, notizie segrete, raccomandazioni non ufficiali – ad affiancarsi a quella pubblica in quanto cancelliere dei Dieci di libertà e pace e dei Nove di ordinanza. Tre lettere, tuttavia, si distinguono dalle altre: quella, giuntaci in forma di abbozzo, a Giovambattista Soderini del settembre 1506; quella a Luigi Guicciardini del 9 dicembre 1509; e quella detta Ad una gentildonna del settembre 1512. La prima, nota come Ghiribizzi al Soderino (→), scritta al nipote del gonfaloniere (ma forse non inviata), ha per tema la volubilità della fortuna, di cui M. deve prendere atto di fronte al successo di Giulio II nella conquista di Perugia, e anticipa importanti motivi, ulteriormente approfonditi nel capitolo “Di Fortuna” e nel cap. xxv del Principe. La seconda narra al fratello di Francesco Guicciardini l’incontro con una repellente prostituta veronese: tutta costruita su modelli classici e moderni (Orazio, Marziale, la tradizione comico-realistica del Duecento e del Trecento, Poliziano, Leon Battista Alberti ecc.), costituisce la brillante rivisitazione di un topos letterario, nonché un’ulteriore riflessione sul tema dalla fortuna. La terza, ricollegabile a una più diretta riflessione storica e politica, narra a una nobildonna gli eventi che hanno riportato i Medici al potere a Firenze.
Nella seconda – maggiore – parte del carteggio, la prospettiva cambia profondamente. Cacciato dal suo impiego e allontanato per un certo tempo da Firenze, M. cerca nella scrittura epistolare un sostituto al suo ambiente di lavoro e di relazioni sociali. Attraverso le lettere prosegue idealmente il dialogo con importanti interlocutori e amici intimi. Poi, con il passare degli anni, M. ricostituisce un’ampia rete sociale fra amici e uomini di potere, che lo porterà a tornare – entro certi limiti – in grazia dei Medici. Alcune lettere sono meno ‘private’ delle altre, in quanto destinate a essere lette, al di là del singolo destinatario, da personaggi della corte romana o addirittura dal papa. Diventano insomma un biglietto da visita con il quale M. spera di tornare ad assumere il suo ruolo di consigliere politico, di segretario e di esperto di arte militare. I due nuclei più importanti di carteggi – ricchi di missive di M. – si situano ai due estremi cronologici del periodo: quello con Francesco Vettori ambasciatore a Roma (1513-15) e quello con Francesco Guicciardini, plenipotenziario pontificio in Italia settentrionale (1521-26). Il carteggio con Vettori – che M. aveva frequentato per vari mesi in occasione della missione diplomatica presso l’imperatore nel 1508 – è certamente il più importante da vari punti di vista: per le informazioni sulla vita materiale e sugli stati d’animo di M., per le nuove relazioni che si sta creando, per le sue riflessioni politiche, per le informazioni sulla genesi delle sue opere, per l’ampio ventaglio delle forme espressive e dei livelli linguistici. Sul piano personale le missive cominciano con le notizie che dà all’amico subito dopo la scarcerazione: cioè l’imprigionamento, le torture subite e la liberazione in seguito all’elezione di Leone X (Giovanni de’ Medici), i pochi amici fiorentini rimastigli fedeli, la speranza di riprendere la vita politica al servizio dei Medici o della Chiesa, poi lo sconforto per l’inattività a cui è costretto, la redazione di una prima stesura del Principe, nonché i suoi nuovi amori. In questo gruppo una lettera spicca su tutte le altre, tanto da essere la più ampiamente antologizzata: quella del 10 dicembre 1513, in cui narra all’amico (rifacendosi anche in questo caso a vari modelli classici) la sua giornata in villa, divisa tra il giorno dedicato alla vita attiva, alla lettura della poesia amorosa e alla frequentazione di persone umili, e la notte in cui, rivestito di «panni curiali», conversa idealmente con i grandi personaggi dell’antichità: «mi pasco di quel cibo che solum è mio». In questa stessa missiva esprime la sua speranza di venire impiegato dai Medici per qualsiasi mansione, anche se fosse solo quella di «voltolare un sasso», pur di non rimanere inattivo e sentirsi spregevole («contennendo»). Annuncia, infine, di avere composto un’opera intitolata De principatibus, che intende presentare a Giuliano de’ Medici, seppure ci stia ancora lavorando per ampliarla e perfezionarla:
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a un principe, e massime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indrizzo alla Magnificenza di Giuliano. Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte e della cosa in sé, e de’ ragionamenti ho auto seco, ancor che tuttavolta io l’ingrasso e ripulisco (Lettere, p. 296).
Le lettere a Vettori sono anche un’occasione per proseguire al più alto livello una riflessione sulla politica contemporanea, un’attività che dichiara essere a lui connaturata e a cui non si può sottrarre, come scrive nella lettera del 9 aprile 1513:
perché la Fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta e dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, e mi bisogna o botarmi di stare cheto, o ragionare di questo (Lettere, p. 241).
Al di là del confronto delle analisi politiche con Vettori, M. mirava probabilmente a far conoscere e apprezzare il suo acume di consigliere alla corte di Roma, ciò che spiega l’impegno delle sue argomentazioni e l’elevatezza dello stile; nella stessa lettera aggiunge infatti: «se io potessi [...], io verrei pure anch’io sino costì a domandare se il papa è in casa». Durante il primo anno (1513) tali discussioni hanno per argomento la tregua tra Francia e Spagna. Nel 1514 vertono, invece, sulla politica che dovrebbe attuare il pontefice, con precise convergenze dei capp. xix e xxi del Principe. L’argomento sembra avere interessato il pontefice stesso e i suoi due maggiori collaboratori, i cardinali Bernardo Dovizi da Bibbiena e Giulio de’ Medici (il futuro Clemente VII), dato che Vettori gli scrive il 30 dicembre: «l’una e l’altra lettera vostra, circa e quesiti vi feci, hanno visto il papa e il cardinale di Bibbiena e Medici, e tutti si sono maravigliati dello ingegno e lodato il iudicio» (Lettere, p. 346). Un altro ragionamento politico che riecheggia, non solo per i concetti ma anche per alcune argomentazioni e alcuni stilemi, i capp. vi e vii del Principe compare nella lettera del 31 gennaio 1515, a proposito del progetto di Leone X di conferire al fratello Giuliano la signoria di Parma, Piacenza, Modena e Reggio, considerata come la creazione di un principato nuovo a opera di un principe nuovo. Il suggerimento di accordare a Paolo Vettori, fratello di Francesco, il governatorato del futuro Stato implica probabilmente la speranza di esserne poi assunto quale segretario. Tuttavia, già da qualche settimana Francesco Vettori aveva frustrato le aspirazioni di M., commentando con questa frase l’interesse che pure le sue analisi politiche avevano suscitato presso il papa e i suoi più stretti collaboratori: «io non sono uomo che sappi aiutare gl’amici» (30 dic. 1514, Lettere, p. 346).
Il carteggio con Vettori verte però anche sul motivo amoroso: quello eterosessuale dei due corrispondenti – M. innamorato di una fanciulla conosciuta nei pressi della sua villa («standomi in villa, io ho riscontro in una creatura tanto gentile, tanto delicata, tanto nobile, e per natura e per accidente, che io non potrei né tanto laudarla, né tanto amarla, che la non meritasse più», 3 ag. 1514, Lettere, p. 328), Vettori di una giovane vedova romana – e quello omosessuale di due fiorentini, di cui Vettori racconta le avventure romane e M. quelle fiorentine. Questa doppia tematica, che porta anche alla sperimentazione di due registri diversi, è oggetto di un passo della già citata lettera del 31 gennaio 1515, in cui M. considera come un arricchimento intellettuale questa mutevolezza di motivi che tende a imitare la complessità della natura:
Chi vedesse le nostre lettere, onorando compare, e vedesse le diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, tutti vòlti a cose grandi, e che ne’ petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non avesse in sé onestà e grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, inconstanti, lascivi, vòlti a cose vane. Questo modo di procedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia, e chi imita quella non può essere ripreso (Lettere, p. 349).
Si tratta di una dichiarazione di grande impegno non soltanto tematico, ma anche estetico. Il carteggio con Vettori, sospeso per vari anni, anche in seguito ad altri impegni assunti dall’amico, riprende per alcuni mesi, fra il 1526 e il 1527, poco prima della morte di M. e ha per argomento le implicazioni politiche della guerra che sta imperversando fra le forze della lega di Cognac e gli imperiali, poco prima del sacco di Roma.
Il secondo impoante carteggio del periodo posteriore al 1512 è quello con Francesco Guicciardini e riguarda gli anni 1521 e 1524-26. La condizione di M. è molto diversa da quella degli anni del primo carteggio con Vettori: l’ostilità dei Medici si è attenuata, alcuni potenti mercanti si sono ricordati delle sue doti diplomatiche per la risoluzione dei loro affari. Dopo la pubblicazione dell’Arte della guerra, le sue qualità di esperto militare sono state riconosciute, come pure quelle di storico, con l’incarico ufficiale datogli dal futuro Clemente VII di scrivere le Istorie fiorentine. Nel contempo la sua fama di commediografo si è affermata grazie alle rappresentazioni della Mandragola e, più tardi, della Clizia. Infine – segno decisivo di questa evoluzione – Guicciardini, governatore pontificio della Romagna, lo riporta al lavoro diplomatico (1525-27).
Le lettere del 1521 sono quasi tutte giocate in chiave comico-realistica e mettono in scena una burla orchestrata dai due amici ai danni di Sigismondo Santi. Nonostante la forma scherzosa, Guicciardini esprime rispetto per le qualità diplomatiche dell’amico fiorentino, di cui condivide peraltro i sentimenti antifrateschi. Negli anni 1524-26 tre sono i filoni: quello relativo alle opere storiche e teatrali, quello sulle notizie personali, quello sulla politica e i conflitti militari. Segno della loro reciproca stima, M. esprime il rammarico di non poter consultare l’amico su alcuni punti delicati relativi alla stesura delle Istorie fiorentine (lettera del 30 ag. 1524); qualche mese dopo i due accennano ai preparativi di una rappresentazione della Mandragola a Faenza per il carnevale del 1526, in vista della quale M. spiega alcune espressioni vernacolari oscure per l’interlocutore. Frequenti sono, anche nelle lettere su argomenti di grande impegno, le allusioni alla vita privata dei due e, in particolare, agli amori di M., come quelli con la Mariscotta e soprattutto con la Barbera, delle quali sono vantate le qualità. Storiografia, teatro e amori vengono addirittura a congiungersi in una lettera scritta qualche giorno dopo il 21 ottobre 1525, in cui M. si firma «istorico, comico e tragico»:
Facciamo una volta un lieto carnesciale, et ordinate alla Barbera uno alloggiamento tra quelli frati, che, se non impazzano, io non ne voglio danaio, e raccomandatemi alla Maliscotta, et avvisate a che porto è la commedia, e quando disegnate farla. Io ebbi quello augmento insino in cento ducati per la Istoria. Comincio ora a scrivere di nuovo, e mi sfogo accusando i prìncipi, che hanno fatto tutti ogni cosa per condurci qui (Lettere, p. 411).
Il terzo filone, quello politico-militare, si riferisce sia agli eventi di quegli anni, come la cattura di Francesco I da parte degli imperiali, le mosse di Carlo V, la liberazione del re di Francia, sia alla politica del papa, sia all’attività di M. come cancelliere dei provveditori delle mura di Firenze. In queste lettere spicca l’invocazione rivolta al papa e all’Italia il 17 maggio 1526, che risuona come un’eco dell’esortazione conclusiva del Principe: Liberate diuturna cura Italiam, extirpate has immanes belluas, quae hominis, preter faciem et vocem, nihil habent («Liberate l’Italia da questo lungo tormento, scacciate queste belve feroci che non hanno di umano che l’aspetto e la voce», Lettere, p. 427).
Nel periodo cheepara il carteggio con Vettori da quello con Guicciardini prevalgono le lettere di argomento più strettamente privato. Fra queste figure di familiari, ancor più di quelle dei figli o degli altri parenti, è predominante quella del nipote Giovanni Vernacci (→), residente per affari a Pera nei pressi di Costantinopoli. Del carteggio tra lo zio e il nipote ci sono pervenute quattordici lettere scritte tra il giugno 1513 e il maggio 1521, ma varie devono essere andate perse, dato che M. afferma a metà febbraio 1515 di averne scritte recentemente ben sei, a fronte di due sole conservate. Con Vernacci, di cui cura gli interessi a Firenze come un padre premuroso, M. sembra aprirsi più che con qualunque altra persona, confessandogli le proprie pene e i propri stati d’animo, mentre il nipote, nell’ultima sua, si rivolge a lui con l’appellativo di «onorando in luogo di padre». Ma anche altre lettere, testimonianze isolate di carteggi perduti, recano importanti informazioni – come quella a Lodovico Alamanni, del 17 dicembre 1517, al quale M. confessa il suo cruccio per non essere stato citato da Ludovico Ariosto fra i poeti contemporanei nel canto XLVI del Furioso:
Io ho letto a questi dì Orlando Furioso dello Ariosto, e veramente el poema è bello tutto, et in di molti luoghi è mirabile. Se si truova costì, raccomandatemi a lui, e ditegli che io mi dolgo solo che, avendo ricordato tanti poeti, che m’abbi lasciato indreto come un cazo, e ch’egli ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non farò a lui in sul mio Asino (Lettere, p. 357).
Allo stesso Lodovico, M. racconta di partecipare alle riunioni degli Orti Oricellari insieme a Battista della Palla e Zanobi Buondelmonti. Fra le lettere a M. si ricordano quella di Filippo de’ Nerli, del 22 febbraio 1525, sul successo della rappresentazione della Clizia a Firenze, la cui fama è giunta fino a Modena; quella di Iacopo Sadoleto, segretario di Clemente VII, del 6 luglio 1525, che chiede a M. di soprassedere al progetto di creare un esercito di milizia in Romagna, nonostante l’entusiastica adesione del papa, subito temperata dal freddo scetticismo di Francesco Guicciardini; quella di Giovanni Manetti del 28 febbraio 1525 sul trionfo della Mandragola a Venezia. Seppur riferite a informazioni puntuali, queste singole lettere ci ragguagliano sulla persistenza in M., fino agli ultimi anni, di un quadruplo filone di interessi: la riflessione politica, la storiografia, la milizia e il teatro.
Bibliografia: Edizioni complessive: N. Machiavelli, Lettere diverse, in Id., Opere, 6° vol., Firenze 1782, pp. 1-96; N. Machiavelli, Lettere, a cura di E. Alvisi, Firenze 1883; N. Machiavelli, Lettere, in Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze 1971, pp. 1007-1256; N. Machiavelli, Lettere, a cura di F. Gaeta, Torino 1984; N. Machiavelli, Lettere, legazioni e commissarie, in Id., Opere, a cura di C. Vivanti, 2° vol., Torino 1999, pp. 3-465. Edizioni parziali commentate: N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, a cura di G. Inglese, Milano 1989; N. Machiavelli, Dieci lettere private, a cura di G. Bardazzi, Roma 1992; N. Machiavelli, F. Guicciardini, Carteggio 1521-1527, a cura di M. Fusetti, Lausanne 1997.
Per gli studi critici si vedano: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, Napoli 1958, Bologna 1993; M. Martelli, I Ghiribizzi a Giovambattista Soderini, «Rinascimento», 1969 [ma 1972], 2, 9, pp. 147-80; G. Ferroni, Le «cose vane» nelle lettere di Machiavelli, «La rassegna della letteratura italiana», 1972, 6, 76, pp. 215-64; B. Richardson, La ‘lettera a una gentildonna’, «La bibliofilia», 1982, 84, pp. 271-76; G. Saro, F. Bausi, Per l’epistolario di Niccolò Machiavelli, «Interpres», 1991, 11, pp. 367-89; F. Grazzini, L’autografo di una lettera machiavelliana (Houghton Library, Harvard University, FMs Eng. 1343 [13]), «Interpres», 1992, 12, pp. 327-30; J.-J. Marchand, Gli autografi di otto lettere di Francesco Vettori al Machiavelli (e una lettera inedita a Paolo Vettori), «Interpres», 1992, 12, pp. 223-69; F. Grazzini, Machiavelli, Guicciardini e le regole di un gioco epistolare, in Passare il tempo. La letteratura del gioco e dell’intrattenimento dal XII al XVI secolo, Atti del Convegno, Pienza 10-14 sett. 1991, Roma 1993, pp. 651-64; J.M. Najemy, Between friends. Discourses of power and desire in the Machiavelli-Vettori letters of 1513-1515, Princeton 1993; Niccolò Machiavelli politico, storico, letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 sett. 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996 (in partic. G. Ferroni, La struttura epistolare come contraddizione (carteggio privato, carteggio diplomatico, carteggio cancelleresco), pp. 247-70; F. Grazzini, Spunti di un’autobiografia politica nelle lettere familiari di Machiavelli (1498-1515), pp. 271-96); F. Bausi, G. Masi, Un autografo machiavelliano riapparso: la lettera a Giovanni Vernacci del 18 agosto 1518, «Interpres», 1998, 17, pp. 309-15; G. Masi, Saper «ragionare di questo mondo». Il carteggio fra Machiavelli e Guicciardini, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 sett. 1997, Roma 1998, pp. 487-522; M. Simonetta, Lettere «in luogo di oraculi», quattro autografi dispersi di Luigi Pulci e di (e a) Niccolò Machiavelli, «Interpres», 2002, 21, pp. 291-301; S. Larosa, Nota su ‘maestro Manente’, «Interpres», 2004, 23, pp. 259-64; S. Larosa, La lettera machiavelliana del 25 febbraio 1514: un epilogo annunciato, «Filologia antica e moderna», 2005, 28, pp. 93-124; S. Larosa, Una ‘Metamorfosi ridicola’. Studi e schede sulle lettere comiche di Niccolò Machiavelli, Roma 2008; S. Larosa, Un ‘redentore’ mediceo per l’Italia: dal XXVI del Principe alle lettere familiari, «Interpres», 2009, 28, pp. 180-221.