Lex mitior e giudizio di legittimità
Nell’anno 2015 le Sezioni Unite della Corte sono intervenute con più pronunce generate dalla necessità di raccordare i mutamenti intervenuti nei due anni precedenti, per effetto di declaratoria di incostituzionalità ovvero di modificazioni normative, in particolare con riguardo al regime sanzionatorio edittale previsto per le cd. “droghe leggere” e per la fattispecie di lieve entità di cui all’art.73, co.5, d.P.R. 9.10.1990, n. 309, con le pene irrogate nei giudizi già soggetti al precedente regime; l’occasione si è rivelata feconda perché ancora una volta, come già in passato, la Corte di legittimità ha dovuto interrogarsi sui rapporti, in latenza conflittuali, tra la preclusione ad una decisione nel merito, ordinariamente originata, secondo un canone più volte predicato dalla giurisprudenza, dall’inammissibilità del ricorso, e la necessità di non assoggettare l’imputato a pene non più corrispondenti alla “nuova” previsione normativa.
Le modifiche intervenute, a decorrere dall’anno 2013, nell’ambito della normativa riguardante i reati in materia di sostanze stupefacenti sia per effetto dell’intervento del legislatore che a seguito dell’intervento della Corte costituzionale hanno originato molteplici decisioni delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sostanzialmente incentrate sui requisiti affinché, per effetto di un mutamento in melius, la pena irrogata al momento di commissione del fatto non possa più considerarsi “legale” e soprattutto sulla piena operatività del mutamento pur in presenza di un ricorso per cassazione valutabile come inammissibile e preclusivo dunque di per sé, secondo un costante insegnamento giurisprudenziale, della stessa formazione di un rapporto processuale1.Quanto al primo aspetto si è trattato, in particolare, come noto, di dovere valutare l’applicabilità di norme, diverse rispetto a quelle vigenti al momento del fatto e più favorevoli rispetto a queste ultime (recando le stesse un trattamento sanzionatorio più mite), o perché formulate successivamente ad esso (ed è stato questo il caso delle modifiche normative attuate dai d.l. 23.12.2013, n. 146 e 20.3.2014, n. 36, rispettivamente convertiti nelle leggi 22.2.2014, n. 10 e 16.5.2014, n. 79 con riferimento alla previsione di lieve entità dell’art. 73, co. 5, d.P.R. 9.10.1990, n. 309 con riguardo alle condotte in materia di sostanze stupefacenti) o perché tornate a rivivere per effetto della sentenza della Corte costituzionale 12.2.2014, n. 32, di illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies della l. 21.2.2006, n. 49 in forza dei quali il trattamento penale delle condotte relative alle droghe “leggere” (di cui alle tabelle II e IV), in precedenza differenziato, e assoggettato ad un trattamento più mite, era stato accomunato a quello delle droghe cosiddette “pesanti” (di cui alle tabelle I e III) e inglobato in una cornice edittale decisamente più aspra. In altri termini, mentre nel primo caso, all’esito dell’ultimo dei provvedimenti normativi già citati, la pena, in luogo di quella dapprima compresa tra anni uno ed anni sei di reclusione e tra euro 3.000 e 26.000 di multa, è divenuta quella ricompresa tra sei mesi e quattro anni di reclusione e tra euro 1.032 e 10.329 di multa, nel secondo caso la pena è divenuta quella racchiusa tra due e sei anni di reclusione e tra euro 5.164 e 77.468 di multa in luogo di quella compresa tra sei e venti anni di reclusione e tra euro 26.000 e 260.000 di multa.
Quanto al secondo aspetto, si è trattato di valutare il grado di “resistenza” di pronunce di merito investite da ricorsi inammissibili rispetto alle vicende che hanno condotto, per le ragioni già ricordate, a ritenere non più vigenti, al momento della decisione della Corte di cassazione, le pene che dette decisioni avevano legittimamente applicato con riferimento al tempus commissi delicti.
Su entrambi i profili i contrastanti approdi delle sezioni semplici, indotti dalla problematicità degli aspetti coinvolti, hanno portato dunque necessariamente alle decisioni delle Sezioni Unite.
Si impone anzitutto la rievocazione, sia pure per sommi capi, dei punti principali del ragionamento che la Corte ha svolto nelle ricordate sentenze, in particolare focalizzando l’attenzione sulle due che, più direttamente delle altre, hanno direttamente affrontato il rapporto delle interferenze tra applicazione della lex mitior sopravvenuta e le regole che presiedono alla ammissibilità del ricorso per cassazione.
Un primo profilo, peraltro affrontato in parte anche dalla sentenza n. 22471/2015, occupatasi per vero della illegalità della pena in particolare irrogata a titolo di continuazione per le condotte concernenti sostanze stupefacenti “leggere” e, funditus, invece, dalla sentenza n. 33040/2015, intervenuta direttamente sulla illegalità della pena “patteggiata” sempre per dette sostanze sulla base dei criteri contenuti nella norma dichiarata incostituzionale, ha riguardato il concetto di pena “illegale”: una volta ritenuta venuta meno, per effetto della sentenza di illegittimità della Corte costituzionale già ricordata, la portata abrogatrice, contenuta in particolare nell’art. 4 bis l. n. 49/2006, dell’originario impianto normativo ex art. 14 della l. 26.6.1990, n. 162, tornato dunque a rivivere ex tunc nella sua interezza, si è infatti dovuto stabilire se l’illegalità derivasse dal mero mutamento dei parametri edittali rispetto a quelli a suo tempo previsti per la pena irrogata e non più in vigore, ovvero se fosse necessario che i limiti edittali tornati a rivivere dovessero essere anche superati in concreto dalla pena base individuata dal giudice. La risposta della Corte nel senso che illegale è la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato su limiti edittali stabiliti da norma in vigore al momento del fatto, ma dichiarata successivamente incostituzionale anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione della norma, rivissuta per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità, è stata affidata a due considerazioni: da un lato, il fenomeno prodotto dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, e, dall’altro, la funzione della pena nel rapporto tra i limiti edittali fissati dal legislatore e l’applicazione in concreto da parte del giudice. Quanto al primo aspetto, la Corte ha posto in evidenza, richiamando anche i pronunciamenti del giudice delle leggi2, come la norma dichiarata incostituzionale debba essere considerata come “mai esistita” con conseguente inapplicabilità in toto della stessa ai rapporti giuridici: in tal senso, sembrerebbe dunque la Corte avere affermato l’impossibilità, per ciò stesso, di operare alcun raffronto tra pena applicata dal giudice e parametri edittali tornati a rivivere a seguito della dichiarazione di incostituzionalità proprio in ragione della insuscettibilità della norma illegittima di assumere alcuna funzione, in tal modo pervenendosi alla totale obliterazione della stessa operazione di posologia sanzionatoria a suo tempo effettuata dal giudice; e, se così fosse, va aggiunto, tale primo aspetto sarebbe stato plausibilmente tale da esaurire la questione e da impedire, al di là di ogni altra considerazione, una qualunque diversa soluzione. Ma la Corte, come già detto, andando oltre, ha voluto aggiungere, anche in tal caso richiamando precedenti della Corte costituzionale3, il ruolo giocato dal principio di “proporzionalità” laddove il legislatore, nel fissare i parametri edittali minimo e massimo della pena, opera infatti la propria astratta valutazione sulla gravità del reato dando al giudice la “cornice” entro la quale commisurare, in concreto, la sanzione; di qui, dunque, la conclusione che, mutando la cornice edittale, muta inevitabilmente anche il rapporto tra pena ed offesa così divenendo, in ogni caso, “squilibrata” la sanzione a suo tempo irrogata sulla base di parametri mutati, quand’anche mantenutasi entro il minimo ed il massimo della sanzione tornata a rivivere. Dunque, ed è qui la importanza del principio affermato, “illegale”, secondo la Corte, non è tanto la sanzione in sé quanto l’intero procedimento di commisurazione giudiziale, basato su criteri edittali incostituzionali e quindi mai esistiti, con ciò superandosi la tradizionale concezione di una illegalità fondata sulla diversità della pena, per specie, da quella stabilita dalla legge, ovvero sulla quantificazione in misura inferiore o superiore ai relativi limiti edittali.
Inevitabile, peraltro, che una tale conclusione coinvolga anche la pena applicata a norma dell’art. 444 c.p.p.; a fortiori, anzi, verrebbe da aggiungere, se si considera che, oltre alla presenza, anche in tal caso, di un accordo basatosi su criteri e limiti edittali dichiarati incostituzionali, e, dunque, nullo, nulla essendo anche la sentenza conseguente4, scopo dell’imputato nel patteggiamento della pena è quello di pervenire alla pena più mite seppure nei limiti di adeguatezza della fattispecie5; e non v’è dubbio che la incostituzionalità della norma relativa finisce per contraddire lo stesso presupposto in tal senso del procedimento speciale.
Una volta chiarito dunque il concetto di pena illegale, la Corte è passata poi a decretarne la “rilevanza” pur nell’ambito di un giudizio di legittimità introdotto da un ricorso inammissibile; sul punto, la sentenza ha anzitutto integralmente recepito gli approdi con cui le Sezioni Unite hanno a suo tempo individuato le ipotesi nelle quali l’impugnazione inammissibile non condiziona l’accertamento del giudice e, segnatamente, il caso dell’abolitio criminis e quello della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice: la espressa previsione normativa, contenuta nell’art. 673 c.p.p., della incidenza di tali situazioni sulla stessa cosa giudicata in senso formale, giustifica, infatti, che analoga operatività possa esservi nel caso in cui ci si trovi in presenza, per effetto della proposizione di un ricorso che, in quanto inammissibile, non è idoneo ad introdurre un regolare rapporto processuale, di un giudicato in senso sostanziale6. Ma, se è così, precisa allora la Corte, ad una analoga conclusione, pur in assenza di una previsione che preveda espressamente la persistente rilevanza della “pena illegale” anche oltre la formazione del giudicato, deve giungersi laddove sia in gioco la incostituzionalità della pena, del tutto “contigua”, infatti, a quella di incostituzionalità del precetto normativo, dovendo il reato essere inteso nella sua dimensione globale. Tutto ciò, peraltro, conclude la sentenza, restando ferma l’impossibilità di prendere atto della pena illegale in caso di ricorso inammissibile per tardività, in tal caso infatti il decorso del termine avendo trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale e con ciò attribuito ormai alla fase esecutiva, come chiarito anche successivamente, sempre dalle Sezioni Unite, il sindacato volto a ripristinare il trattamento conforme alla sopravvenuta lex mitior7.
Anche la sentenza 26.6.2015, n. 46653 doveva muovere, nel giudicare specificamente della pena irrogata in relazione al fatto di lieve entità di cui all’art. 73, co.5, cit. e determinata sulla base delle norme successivamente sostituite, come già detto, da disposizione più miti, dal concetto di illegalità della pena espressamente evocato da quelle decisioni che, proprio facendo leva su tale caratteristica, avevano colto la possibilità di neutralizzare il possibile ostacolo dato dalla inammissibilità del ricorso, giacché appunto recessivo di fronte ad una pena illegale; ma, a differenza della sentenza già considerata sopra, si è trovata di fronte a due aspetti sensibilmente caratterizzanti in termini diversi la questione : da un lato non ha potuto, evidentemente, valorizzare, versandosi appunto solo in presenza di modifiche normative sopravvenute, la radicale obliterazione ab imis ed ex tunc che la sola dichiarazione di incostituzionalità comporta (perché, ha ripetuto la Corte, in tal caso «la norma perde efficacia fin dall’inizio ... perché ... è affetta da una patologia che non avrebbe dovuto consentire al legislatore di approvarla») e, dall’altro, ha dovuto prendere atto che, con riguardo all’ipotesi di lieve tenuità, la nuova disciplina (quella, cioè, risultante dalla definitiva modifica attuata con il d.l. n. 79/2014), lungi dal comportare che il “vecchio” minimo edittale venisse a coincidere con il “nuovo” massimo, si è caratterizzata, ben più modestamente, nel sostituire alla forbice edittale, compresa, per restare a quella solo detentiva, tra uno e cinque anni di reclusione, quella compresa tra sei mesi a quattro anni. E questo tutto sommato modesto (se paragonato a quello che invece si stagliava di fronte ai giudici della sentenza n. 33040/2015) mutamento sanzionatorio ha in definitiva impedito alla Corte, se qui non si erra nell’interpretare il ragionamento svolto, di qualificare la pena irrogata dai giudici sulla base della “vecchia” cornice, come pena tout court illegale; è significativo infatti che la stessa sentenza precisi come la mera «sfasatura tra la pena irrogata e quella che dovrebbe essere inflitta in esito al nuovo trattamento sanzionatorio entrato in vigore successivamente … non comporti automaticamente che la pena debba essere ritenuta illegale» essendo una tale qualifica unicamente individuabile (al di là, si intende, del caso classico di pena individuata oltrepassando la soglia del limite massimo edittale) laddove la pena, pur rimanendo nei margini edittali della più favorevole disciplina, «ne stravolga i parametri di riferimento – in particolare il principio di proporzionalità – e sia applicata in modo incompatibile con la disciplina normativa successiva». Sicché, preclusa la via della “illegalità” della pena, era necessario trovare un diverso ma altrettanto legittimo percorso che, tuttavia, garantisse, allo stesso modo, se non la possibilità, anzitutto, di applicare in giudizio il nuovo più favorevole trattamento, soprattutto, però, in seconda battuta, di fare ciò pur a fronte di un ricorso per cassazione inammissibile e, dunque, ordinariamente preclusivo della formazione di valido rapporto processuale unicamente idonea, nella sostanza, a consentire di apprezzare il vizio di violazione della legge penale sostanziale di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p.. È anzi interessante, per certi versi, notare che la sentenza, forse anteponendo, sul piano logico, quella che avrebbe dovuto essere semmai la conclusione del percorso a tappe che qui si illustra, ponga come “prioritario”, pena la incostituzionalità del sistema, l’obiettivo della necessità di far emergere il mutato quadro normativo subito dopo averne chiarito però l’assenza di requisiti di illegalità ed ancor prima di avere esposto le ragioni per le quali un mutamento di ridotta consistenza della sola cornice normativa dovrebbe condurre alla rimozione di una pena legittimamente applicata al momento del giudizio di merito8. Sta di fatto che lo “sbocco” è stato individuato nell’art. 2, co. 4, c.p. laddove, come noto, si prevede che «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile»; la sentenza afferma, infatti, che se la pena viene inflitta con riferimento ad un apparato sanzionatorio che lo stesso legislatore, riformandolo in senso favorevole all’imputato, ha ritenuto non più adeguato per una condotta, verrebbe meno la stessa funzione educativa costituzionalmente garantita oltre a non essere rispettato il principio di proporzionalità e quello della natura individualizzante necessariamente caratterizzante la sanzione. Di qui, infatti, secondo la Corte, l’obbligo per il giudice della cognizione di rimuovere la situazione rappresentata essenzialmente dalla violazione di un principio fondamentale dell’ordinamento quale appunto il diritto dell’imputato di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo. Tanto incisiva è, anzi, tale violazione, da condurre la Corte ad affermare che la stessa possa essere rilevata nonostante nel ricorso che sia stato proposto successivamente alle modifiche normative intervenute (ma, deve, supporsi, sempre che la sentenza impugnata fosse stata pronunciata anteriormente alle modifiche stesse) nessun motivo specifico di doglianza sia stato formulato (posto che si tratterebbe di eliminare le conseguenze di una lesione di un diritto fondamentale della persona). Sicché, ben si comprende come, giunti a questo punto, il profilo della possibile ostatività della inammissibilità del ricorso alla rilevabilità della modifica in melius della cornice sanzionatoria, e, con essa, della pena concretamente irrogata dal giudice, pare perdere significato: se, sembra nella sostanza affermare la sentenza, il giudice di legittimità può cogliere nella sentenza impugnata la violazione attinente il trattamento sanzionatorio pur se non sollevata dal ricorrente, tanto più ciò potrà fare quand’anche inammissibile lo stesso ricorso.
Traendo allora le fila dalla lettura delle pronunce fin qui rievocate, un primo spunto di riflessione sembra meritare l’epilogo dell’apparente razionalizzazione del concetto di pena illegale: emerge inequivoco, come già anticipato sopra, il concetto che pena “illegale” non è solo la pena inferiore al minimo o superiore al massimo edittale stabilito dal legislatore ma anche quella che, da un lato, sia stata determinata sulla base di una legge poi dichiarata incostituzionale (quale che sia, in ogni caso, il regime “sostitutivo” subentrato) e, dall’altro, in caso di modifiche normative del trattamento sanzionatorio, quella che, pur restando nell’ambito della cornice più favorevole “sopravvenuta” (in senso temporale od anche per effetto di reviviscenza di disciplina anteriore riemersa a seguito di incostituzionalità di quella utilizzata dal giudice), sia però stata a suo tempo applicata utilizzando parametri nel minimo e nel massimo “radicalmente” diversi da quelli poi subentrati; allo stesso tempo, e simmetricamente, pare restare chiaro che il frutto di una determinazione di pena intervenuta sulla base di una cornice edittale cui sia semplicemente subentrata una più favorevole, non sia sufficiente a qualificare il risultato applicativo come “illegale” ma, più semplicemente, per così dire, “ingiusto”.
Anche così, tuttavia, l’impressione suggerita dalla lettura delle decisioni ricordate è che, pur pronunciate in un ristretto arco temporale sostanzialmente contenuto, le stesse segnalino, a ben vedere, la progressiva dilatazione di un concetto, quello appunto di pena illegale, che, racchiuso dalla sentenza n. 30040/2015 all’interno dei confini rappresentati dallo “stigma” di incostituzionalità, finisce per trasmutare, nelle argomentazioni della sentenza n. 46653/2015, in un ambito, decisamente più atecnico, di pena “ingiusta”, come tale sempre rilevabile a prescindere dalla sostanziale definitività assunta dal rapporto processuale ancor prima della formale presa d’atto dell’inammissibilità del ricorso. Il che, se si vuole, è forse il comprensibile segnale dell’insofferenza rispetto a regole processuali espressamente dettate dal legislatore (quella della ordinaria non impugnabilità delle decisioni di legittimità) o concepite dalla stessa Corte di cassazione (come appunto la inidoneità del rapporto processuale a permanere pendente in presenza di ricorso inammissibile) per assicurare una tendenziale definitività alle decisioni processuali, di pronunce di condanna che, del tutto legittime, quanto all’irrogazione della pena, al momento della loro adozione, divengono però sostanzialmente extra iure per il fatto che anche solo il parametro normativo considerato in astratto per la determinazione sanzionatoria abbia successivamente a mutare in senso più favorevole per il l’imputato.
Il passaggio appare evidente, va aggiunto, laddove, nella fattispecie considerata dalla sentenza n. 46653/2015, trattandosi di ragionare su un diverso regime sanzionatorio semplicemente determinato da un mutamento normativo, e non potendo dunque più la Corte fare leva, per “superare” la preclusione rappresentata dall’inammissibilità del ricorso, sulla elisione ex tunc della previgente legge meno favorevole per effetto della sentenza della Corte costituzionale, si individua nella violazione del principio di uguaglianza nonché di rieducazione della pena, la chiave che, pur in presenza di una pena che la stessa Corte non appare qualificare come “illegale”, consente in definitiva l’annullamento ex officio della sentenza che abbia determinato una pena muovendo da parametri edittali maggiori rispetto a quelli poi divenuti applicabili.
Ma, se così è, appare intuitivo che l’affermazione secondo cui la rilevabilità d’ufficio della pena in tal senso ingiusta ad opera della Corte è resa possibile dal fatto che si tratti di porre rimedio alla violazione di un diritto fondamentale della persona presenta, nella sua apparente assolutezza, margini di sviluppo non del tutto prevedibili: basti pensare, al riguardo, ai ricorsi che, coinvolgendo la libertà personale quale, anch’esso, diritto fondamentale della persona, sarebbero suscettibili di un esame della Corte di legittimità diretto a scrutinare, anche al di là e nonostante l’inammissibilità basata su motivi manifestamente infondati, anche i vizi di legge non espressamente dedotti, così dilatandosi l’ambito dell’art. 609 c.p.p. al di là dei confini ivi testualmente indicati.
Riesce inoltre non semplice spiegare, sotto un profilo strettamente logico, alla luce del percorso argomentativo praticato, l’epilogo adottato se posto a raffronto con il diverso esito, espressamente ribadito anche dalla sentenza n.33040/2015, e, ancor più recentemente, da altra pronuncia sempre delle Sezioni Unite9, cui si continua a pervenire allorquando, al momento della proposizione del ricorso, la prescrizione del reato, quale causa di estinzione del reato comunque ricompresa nello spettro delle cause di non punibilità dell’art. 129 c.p.p., sia ormai maturata: l’assunto secondo cui non si potrebbe attribuire legittimità ad una estinzione del reato legata al mero scorrere del tempo, non pare escludere come, in definitiva, sia sempre lo stesso decorso del tempo a comportare, in definitiva, che, nella situazione considerata dalla sentenza n. 46653/2015, la diversa valutazione del legislatore (altra cosa, come visto, è la dichiarazione di illegittimità costituzionale) possa rendere illegittima una decisione che, al momento della sua adozione era, invece, perfettamente regolare.
Del resto, proprio le Sezioni Unite, nel riconfermare l’orientamento che esclude la possibilità per la Corte, in caso di ricorso inammissibile, di prendere atto, in assoluto, della prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata e, laddove non eccepita con il ricorso, di quella maturata anche prima, hanno delimitato, riprendendo, anche in tal caso, precedenti assunti10, in termini assai rigorosi il rapporto tra l’inammissibilità e la rilevabilità della cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p. affermando che tale norma “non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, considerato che non attribuisce, di per sé, al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio, svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma si limita a dettare una regola di giudizio, che deve essere adattata alla struttura del processo così come normativamente disciplinata…”; e ha poi aggiunto che la ratio dell’art. 129 c.p.p., che persegue certamente gli obiettivi del favor innocentiae e dell’economia processuale, ciò fa, però, nell’ambito di “ben individuate scansioni processuali”. Risulta inoltre non del tutto agevole assimilare alla abolitio criminis e alla dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice, strettamente intese, in relazione alle quali, come ripetuto anche dalla sentenza n. 46653, l’inammissibilità dell’impugnazione diventa recessiva per diretta voluntas legis manifestata nell’art. 673 c.p.p. (attesa la loro rilevabilità pur successivamente al passaggio in giudicato della sentenza), la mera modifica dei parametri normativi che, come visto, sia tale comunque da non condurre la pena già determinata in precedenza al di fuori della nuova cornice introdotta dalle nuove norme.
Note
1 Si è trattato, complessivamente, delle sentenze Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 22471, in CED rv. n. 263714263717, Sebbar, in tema di applicazione di aumento di pena per la continuazione con condotte attinenti alle “droghe leggere”, Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 33040, in CED rv. n. 264205264207, Jazouli, in tema di patteggiamento per il reato di detenzione di “droghe leggere”, Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 37107, in CED rv. n. 264857-264859, Marcon, in tema di rideterminazione della pena in sede di esecuzione sempre con riferimento al reato di detenzione di “droghe leggere” e, infine, Cass. pen., S.U., 26.6.2015, n. 46653, in CED rv. n. 265110265111, Della Fazia, in tema di effetti sulla pena delle modifiche normative intervenute con riguardo alla c.d. fattispecie di lieve entità dell’art. 73, co. 5, l. n. 309/1990.
2 C. cost., 15.12.1966, n. 127; C. cost., 25.3.1970, n. 49; C. cost., 3.5.1984, n. 139.
3 C. cost., 6.7.1989, n. 409; C. cost., 26.6.1990, n. 313; C. cost., 14.4.2014, n. 105.
4 Così, Cass. pen., 2.12.2014, n. 1409, dep. 14.1.2015, in CED rv. n. 262403, Minardi.
5 Così, Cass. pen., 3.4.2014, n. 21259, in CED rv. n. 259384, Marku Irido.
6 Cass. pen., S.U., 22.11.2000, n. 32, in CED rv. n. 217266, D.L. e Cass. pen, S.U., 22.3.2005, n. 23428, in CED rv. n. 231164, Bracale.
7 Cass. pen., S.U., 26.06.2015, n. 47766, in CED rv. n. 265106265109, Butera e altro, in situazione, peraltro, di pena “illegale” in senso classico.
8 Cfr. pag. 14 della sentenza laddove si dice che la conclusione in ordine alla non illegalità della pena «potrebbe essere messa seriamente in dubbio (quanto meno sotto il profilo della legittimità costituzionale) se il giudice della cognizione non disponesse di alcuno strumento normativo per ricondurre a giustizia una pena irrogata con riferimento ad un quadro normativo mutato in favore dell’imputato».
9 Cass. pen., S.U., 17.12.2015, n. 12602, dep. 25.3.2016, in CED rv. n. 266818266821, Ricci.
10 Cass., S.U., 25.1.2005, n. 12283, in CED rv. n. 230529230531, P.G. in proc. De Rosa.