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Il Libano incarna la frammentazione politica, religiosa ed etnica che contraddistingue l’area mediorientale. La vita politica libanese è infatti stata tradizionalmente influenzata e resa instabile tanto dalle divisioni politiche interne quanto dalle tensioni regionali. Il Libano, una volta definito ‘la Svizzera del Medio Oriente’ per il suo carattere cosmopolita e la sua apertura al mondo esterno, è così precipitato, tra il 1975 e il 1990, in una guerra civile che ne ha modificato gli equilibri interni e i rapporti con la regione. Da allora, il paese è stato infatti al centro della competizione geopolitica dei più importanti attori della regione mediorientale – da Israele e Siria, fino ad Arabia Saudita e Iran – divenendo quasi un oggetto, più che un soggetto, delle dinamiche politiche del Medio Oriente.
Elemento centrale delle relazioni internazionali libanesi è la tradizionale tensione nei rapporti con Israele, con cui il paese non mantiene ufficialmente relazioni diplomatiche, né economiche. Durante la guerra civile, Israele intervenne militarmente in Libano (1982) – rifugio di diverse organizzazioni di resistenza palestinesi, tra cui l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat – mantenendo una presenza militare nel sud del paese fino al 2000, anno in cui l’allora primo ministro israeliano Ehud Barak ne ordinò il ritiro. Terminata la guerra civile, a determinare le tensioni nei rapporti bilaterali israelo-libanesi è stata principalmente la presenza del partito sciita Hezbollah all’interno del panorama politico e istituzionale nazionale. Israele ha infatti ingaggiato due conflitti armati con Hezbollah, in territorio libanese: nel 1996, con l’operazione ‘Grappoli d’ira’, e nel 2006, in quella che è nota come la Guerra del Libano. Ancora oggi, la presenza di Hezbollah in Libano costituisce una delle maggiori minacce alla sicurezza nazionale percepite da Israele, oltre che potenziale e periodico motivo di scontro tra i due paesi. Libano e Israele sono infine divisi da dispute di natura territoriale, frutto delle rivendicazioni di Beirut sull’area delle cosiddette Fattorie di Shebaa, al confine tra Libano, Siria e Israele, ancora sotto occupazione israeliana.
Relazioni controverse intercorrono anche tra il Libano e l’altro vicino e storico interlocutore, la Siria. Damasco ha infatti tradizionalmente considerato il Libano come una propaggine naturale del proprio territorio e ha mantenuto truppe di occupazione nel paese fino a tutto il 2005, quando i due vicini hanno normalizzato le loro relazioni diplomatiche. Ancora oggi, però, sia la Siria che l’Iran – altro fattore di rilievo per le politiche libanesi fin dagli anni Ottanta – mantengono un certo grado di influenza sugli equilibri politici interni, tramite i partiti sciiti Hezbollah e Amal.
A conferma della confluenza degli interessi e dell’influenza dei principali attori mediorientali in Libano, anche l’Arabia Saudita esercita un peso rilevante sugli equilibri interni al paese, sostenendo economicamente e politicamente la fazione sunnita facente capo a Saad Hariri (figlio di Rafiq), soprattutto in funzione anti-iraniana. Negli ultimi anni, Turchia e Qatar si sono imposti come credibili mediatori per la normalizzazione delle tensioni interne. A livello internazionale, il paese mantiene buoni rapporti con il mondo occidentale, in particolar modo con alcuni paesi europei come l’Italia e la Francia – due tra gli stati più attivi all’interno della missione United Nations Interim Force in Lebanon (Unifil).
L’assetto istituzionale libanese nasce dagli Accordi di Ta’if, firmati nel 1989 da tutte le forze politiche del paese nell’omonima città dell’Arabia Saudita, alla fine della guerra civile. Sebbene oggetto di critiche, esso costituisce un paradigma di regolamentazione di un sistema politico caratterizzato da una forte frammentazione interna. Il Libano si presenta infatti come una repubblica parlamentare, in cui gli equilibri istituzionali sono regolati dalla ripartizione del potere su base etnica e religiosa. Secondo tale schema, di norma, il presidente della Repubblica è un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del Parlamento un musulmano sciita. Inoltre, all’interno del Parlamento unicamerale, nel quale siedono 128 membri, i seggi sono assegnati in maniera tale da garantirne sempre 64 alla comunità cristiana e altrettanti a quella musulmana – sciiti e sunniti insieme. Il panorama politico interno è caratterizzato da una cronica instabilità, dovuta soprattutto ai frequenti cambiamenti nella composizione dei due blocchi maggiori (filosciita e filosunnita) e alle influenze esercitate dagli attori esterni.
Secondo l’Accordo di Doha del maggio 2008, il Libano dovrebbe essere guidato da un governo di unità nazionale, in cui 15 ministri sono nominati dalla maggioranza, dieci dalla minoranza e cinque dal presidente della Repubblica. Come risultato delle ultime elezioni del 2009, l’Alleanza del 14 marzo, guidata dal Movimento del futuro di Saad Hariri, ha ottenuto la maggioranza e formato il governo. Nel gennaio 2011 i membri nominati dall’Alleanza dell’8 marzo (tra cui quelli di Hezbollah) si sono dimessi, creando una crisi dell’esecutivo, a seguito della quale è stato nominato primo ministro il miliardario Najib Mikati.
Uno degli elementi caratterizzanti del panorama politico libanese – composto da partiti spesso afferenti a una determinata comunità religiosa – è la presenza del movimento sciita di Hezbollah, in arabo ‘Partito di Dio’. La presenza dell’organizzazione in Libano è comunemente vista come l’espressione più evidente dell’influenza dell’Iran, e in parte della Siria, sulla vita politica nazionale. Hezbollah è infatti nato negli anni Ottanta, durante la guerra civile libanese, grazie anche al sostegno degli iraniani Guardiani della Rivoluzione islamica e, anche dal punto di vista ideologico, ha punti in comune con il pensiero di Khomeini. Iran e Siria si servirebbero di Hezbollah, in questa prospettiva, per modificare a proprio vantaggio e in funzione anti-israeliana gli equilibri libanesi e regionali.
Negli ultimi anni il Partito di Dio è stato protagonista della progressiva trasformazione da mero movimento di resistenza armato a vero e proprio partito politico. D’altra parte, la ‘vittoriosa’ resistenza nei confronti di Israele durante la guerra del 2006, l’impegno nella ricostruzione post-bellica e le numerose attività svolte in campo sociale hanno contribuito ad accrescere la popolarità di Hezbollah tra la popolazione. Il movimento, che è riuscito a portare nella sua coalizione anche il partito cristiano maronita di Michel Aoun (Movimento patriottico libero), costituisce dunque oggi una delle maggiori forze politiche del paese. La circostanza che Hezbollah mantenga un proprio arsenale militare rimane una delle questioni più dibattute all’interno del Libano. Sebbene infatti la dotazione militare dell’organizzazione sia ufficialmente legata alla necessità di difesa nell’eventualità di attacchi israeliani, essa funge nei fatti anche da deterrente contro le forze politiche sunnite del paese. Il controllo del territorio, in maniera peculiare nel sud del Libano, e le funzioni di sicurezza e welfare che esso espleta, hanno fatto spesso parlare della presenza di Hezbollah in Libano come di uno ‘stato nello stato’.
La Siria ha mantenuto truppe di occupazione in territorio libanese sin dai tempi della guerra civile. Giustificata dalla presenza israeliana nel paese, tale ingerenza rispecchiava la più ampia tendenza di Damasco a considerare il Libano alla stregua di una regione siriana. Sotto il dominio ottomano e fino alla nascita del Libano, infatti, la Siria comprendeva anche il territorio libanese (la cosiddetta ‘Grande Siria’). Damasco ha dunque mantenuto i propri soldati nel paese anche dopo la conclusione della guerra civile, non riconoscendo la sovranità del Libano e condizionandone la politica interna tramite l’appoggio ad alcune fazioni sciite - in particolare a quella di Amal.
Nel febbraio 2005 un attentato a Beirut provocò la morte di Rafiq Hariri, ex primo ministro e personaggio di spicco delle correnti antisiriane e filoccidentali libanesi. Tale avvenimento ha scosso il Libano e provocò massicce manifestazioni di piazza, che assunsero presto un connotato antisiriano per le diffuse accuse di coinvolgimento di Damasco nell’attentato. Le proteste, successivamente ribattezzate ‘Rivoluzione dei cedri’, indussero la Siria a ritirare le proprie truppe dal paese. L’episodio ha tuttavia segnato la vita politica attuale, simbolicamente polarizzata attorno ad esso. L’alleanza capeggiata da Hezbollah, infatti, prende il suo nome (Alleanza dell’8 marzo) dal giorno della grande manifestazione promossa da Hezbollah in favore della Siria, mentre il movimento sunnita guidato dal figlio di Rafiq Hariri, Saad, ha creato l’Alleanza del 14 marzo per celebrare il giorno che segnò l’apice delle manifestazioni popolari antisiriane. Sull’assassinio di Hariri sono tuttora in corso le indagini del Tribunale speciale per il Libano, istituito dalle Nazioni Unite.
La popolazione totale del Libano è stimata intorno ai 4,2 milioni di abitanti. Non esistono infatti dati ufficiali aggiornati dal momento che i forti interessi politici, legati a un sistema che spartisce cariche istituzionali e seggi parlamentari su base comunitaria e confessionale, hanno negli anni inibito l’opportunità di aggiornare l’ultimo censimento pubblico, datato 1932.
È verosimile, visto il più alto tasso di fecondità della comunità musulmana, che questa sia cresciuta nei decenni molto più di quella cristiana (più interessata anche dal fenomeno dell’emigrazione) e che oggi possa rappresentare almeno il 60% totale della popolazione libanese. Una stima che, se venisse accertata ufficialmente, potrebbe incrinare il complesso e già precario equilibrio nella rappresentanza sancito dagli Accordi di Ta’if del 1989, che mantiene la parità nella rappresentanza tra cristiani e musulmani. In particolare, la disparità più marcata tra il peso demografico e quello politico si registra per la comunità sciita, che ha diritto solo al 21% dei seggi totali in Parlamento, nonostante si calcola che rappresenti almeno un terzo della popolazione.
Un siffatto sistema politico, costruito secondo uno schema demo-confessionale, alimenta naturalmente clientelismi e rischia di pregiudicare la credibilità di coloro che ricoprono una carica pubblica: un rischio che trova conferma nella circostanza che il Libano si è classificato, nel 2009, 130° su 180 paesi secondo l’indice di trasparenza e corruzione percepita.
Chiamato in causa ogni qual volta in Libano scoppia una crisi o si verificano violenze intestine, il confessionalismo politico appare ormai indissolubilmente legato alle travagliate vicende del ‘Paese dei cedri’, tanto da esser da alcuni descritto come un carattere da sempre proprio della società libanese. Si tratta invece di un fenomeno storico moderno, che ha origine nelle vicende che hanno segnato il Monte Libano dalla metà del 19° secolo, e che da allora si è presentato sotto diverse forme. Il principio che sta alla sua base è che le minoranze confessionali presenti in Libano devono avere la garanzia di essere rappresentate in maniera equa negli apparati istituzionali, amministrativi e militari dello stato. L’appartenenza confessionale ha così finito per assumere un ruolo sempre più preponderante sia nella gestione politica che nelle dinamiche sociali libanesi. Sin dalla propria nascita, ciascun individuo assume di fatto un’identità confessionale che sovrasta, e in certi casi annulla, il senso di cittadinanza. Pensato come principio di garanzia tra le comunità, il confessionalismo è emerso come una delle cause principali della mai risolta ‘questione libanese’.
Il Libano è un paese multiconfessionale ma non multietnico (a parte le esigue comunità armena e curda, e le 18 comunità ufficialmente riconosciute appartengono ai tre grandi monoteismi. Al loro interno si dividono in gruppi più o meno consistenti: tra i cristiani emergono i maroniti, i greco-ortodossi e i greco-cattolici; i musulmani si dividono in sunniti, sciiti e drusi; gli ebrei libanesi, che attorno agli anni Cinquanta del secolo scorso costituivano la più folta comunità giudaica del Levante arabo, oggi contano ormai poche centinaia di persone. Nessuno di questi gruppi può comunque rivendicare un esclusivo rapporto naturale col territorio che oggi è il Libano, e la loro presenza tra l’Antilibano e il Mediterraneo è frutto di una mediazione storica segnata da migrazioni, conversioni di massa e riscrittura a posteriori di una propria storia mitica.
L’inizio della polarizzazione comunitaria nel Monte Libano, allora abitato in prevalenza da drusi e cristiani, coincise con l’introduzione da parte delle autorità ottomane di una serie di riforme, a partire dal 1839. Anche per cedere alle richieste delle potenze europee di poter proteggere direttamente i cristiani dell’Impero, la Sublime Porta istituì il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, indipendentemente dalla appartenenza religiosa, e conferì alle istituzioni comunitarie e alle loro gerarchie locali una delega di autorità sui loro correligionari. La forte rivalità anglo-francese esasperò gli attriti sociali ed economici, che si trasformarono in conflitti inter-comunitari tra i drusi, indirettamente appoggiati da Londra, e i maroniti, ‘protetti’ da Parigi. Seguì una demarcazione sempre più netta in termini confessionali del territorio della Montagna libanese e nel 1841 scoppiarono le prime violenze druso-cristiane, che vent’anni dopo si riproposero in maniera più sanguinosa.
All’indomani di questa ‘prima guerra civile’ e di concerto con le potenze europee, nel 1861 la Sublime Porta stabilì il ‘Regolamento organico’ della Montagna libanese, che ratificava de facto la divisione comunitaria della gestione politica: un governatore cristiano ‘straniero’ veniva affiancato da un consiglio di 12 rappresentanti dei principali gruppi del territorio. L’appartenenza comunitaria diventò così la base della legittimazione politica, screditando l’ordine sociale tradizionale. Basato per secoli su una gerarchia elitaria che trascendeva l’affiliazione confessionale, il vecchio regime dovette cedere il passo al confessionalismo politico sotto i colpi di una riforma modernista che privilegiava il discorso sull’‘eguaglianza religiosa’.
La prima costituzione (1926) del Grande Libano sotto mandato francese riformulò questo principio a favore dei maroniti che, in forza dei risultati del primo (e ultimo) censimento ufficiale condotto nel paese (1932), si assicurarono i 6/5 delle quote di rappresentanza negli organi dello stato rispetto ai musulmani. Il delicato equilibrio si mantenne anche oltre la nascita del Libano indipendente (1943), ma fu messo sempre più in discussione dalla crescente mobilitazione dei musulmani. Il nuovo status si determinò alla fine della guerra civile (1975-90). Causato, tra l’altro, dalla volontà di sunniti e sciiti di riequilibrare a loro favore la bilancia del potere, il conflitto intestino si concluse formalmente con gli Accordi di Ta’if del 1989. L’attuale costituzione libanese, figlia di questi accordi, prevede l’abolizione del confessionalismo politico, senza però indicare un termine temporale. Inoltre, pur introducendo il principio dell’alternanza e della rotazione degli incarichi dei rappresentanti dei diversi gruppi, riproduce di fatto il sistema confessionale, almeno ai vertici delle istituzioni statali, e apporta una sostanziale modifica dell’equilibrio di poteri: le quote sono ora divise a metà tra cristiani e musulmani, e i poteri del Capo dello stato maronita sono ridotti a favore del primo ministro sunnita e del presidente del Parlamento sciita. Il sistema confessionale è ulteriormente protetto dalla legge elettorale, che prevede in ogni circoscrizione l’assegnazione di una quota di seggi parlamentari a ciascuna comunità, a seconda dei locali equilibri demo-confessionali.
Il dibattito sul tema in Libano continua a essere aperto tra chi difende il confessionalismo politico, ancorandosi strenuamente all’originario principio di garanzia, e chi invoca la sua cancellazione in nome di un laicismo di stampo occidentale, difficile da riprodurre all’ombra dei cedri. C’è anche chi propone di superare la logica della ripartizione istituzionale in quote confessionali (con un’assemblea legislativa aconfessionale), garantendo a ciascuna comunità una sua rappresentanza, ad esempio con la creazione di una seconda camera, con poteri consultivi ed eletta su base confessionale.
La libertà d’espressione e quella religiosa sono garantite, così come il pluralismo nei mezzi di informazione: la società civile libanese è particolarmente attiva e registra un intenso fiorire di associazioni e organizzazioni non governative che operano nel paese liberamente.
Sono circa 400.000 i palestinesi che vivono nei 12 campi profughi del Libano gestiti dall’Unrwa, l’Agenzia per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente delle Nazioni Unite. Nonostante siano passati più di sessant’anni e ormai tre generazioni dalla diaspora palestinese del 1948, questi sono scarsamente integrati nella società libanese, non hanno mai ottenuto la cittadinanza e scontano diverse limitazioni nell’accesso ai servizi pubblici (sanità e istruzione in primis), nei diritti sul lavoro, in quelli civili e di proprietà. Significativa è anche la presenza di circa 50.000 iracheni, cui vanno aggiunti più esigui gruppi di rifugiati provenienti dal Sudan e dalla Siria.
La popolazione libanese è molto giovane: secondo le stime dell’Undp ben il 47% dei libanesi ha meno di 24 anni e l’età mediana è bassa, intorno ai 28 anni. Un’imponente diaspora della popolazione, iniziata più di 130 anni fa, ha costantemente caratterizzato tutto il corso del Novecento, ed è stata causata tanto da motivi economici, legati agli interessi che le fiorenti reti commerciali libanesi hanno costruito in tutto il mondo, quanto da quelli politici, in un paese che ha vissuto due guerre civili e si distingue per le forti tensioni interne. Si stima che i libanesi della diaspora e i loro discendenti siano intorno ai 13 milioni di persone e si siano stabilizzati prevalentemente nel continente americano, soprattutto in Brasile, Argentina, Stati Uniti, Canada e Messico, in alcuni paesi del Golfo, come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi o il Kuwait, e in alcune nazioni europee, come Francia e Regno Unito. Il sistema educativo nazionale è uno dei migliori della regione, con tassi di scolarizzazione e alfabetizzazione elevati. Di primo livello anche il sistema d’istruzione secondario e quello universitario, fondamentale visto il gran numero di lavoratori qualificati che l’economia libanese, tanto orientata sul settore terziario, impiega.
Il Libano ha un’economia tradizionalmente connotata dall’apertura al mercato e dalla prevalenza del settore dei servizi. La crescita percentuale del pil libanese è stata molto elevata nell’ultimo decennio, salvo tra il 2005 e il 2006, quando a un rallentamento dell’economia si sono sommati i contraccolpi della guerra contro Israele. Da allora, tuttavia, tutti i principali indicatori danno l’economia in progressivo miglioramento.
Turismo, banche e costruzioni sono i tre pilastri che costituiscono la struttura economica del Libano: proprio l’ultimo settore, quello edilizio, sta guidando la crescita di un paese in fase di ricostruzione postbellica. Anche il turismo è in continua espansione e ha fatto segnare nel 2009 un incremento delle presenze superiore del 60% rispetto a quelle dell’anno precedente – per la gran parte si tratta di turisti provenienti dai paesi arabi e dall’Europa. All’attività turistica è indirettamente legato almeno un quarto della popolazione attiva, oltre che una buona parte della domanda che sta guidando il boom edilizio. Il settore bancario, uno dei tradizionali punti di forza dell’economia libanese, si dimostra solido e beneficia di un progressivo aumento di capitali in entrata. La capacità del sistema bancario di superare indenne tanto la crisi finanziaria internazionale del 2008-09, quanto le croniche tensioni interne ed esterne riposa in gran parte sulla sua stabilità, garantita da un lato dalle rigorose regole che la Banca centrale libanese impone sulle attività finanziarie e, dall’altro, dall’elevata liquidità di cui i depositi delle banche nazionali dispongono grazie ai flussi di rimesse in entrata dai libanesi che vivono all’estero. Buoni anche i trend commerciali degli ultimi anni, con lievi aumenti delle esportazioni (salvo che nel 2009).
Il Libano è storicamente un paese con un elevato grado di apertura agli investimenti esteri e al commercio internazionale e, nonostante la lunga guerra civile ne abbia ridimensionato importanza e centralità rispetto ai decenni precedenti, ancora oggi rappresenta uno degli hub finanziari e dei poli di servizi di riferimento della regionale mediorientale. I più rilevanti partner per esportazioni sono la Siria, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Svizzera, con i quali il Libano commercia principalmente prodotti di gioielleria e oreficeria, apparecchi meccanici, alimentari, tabacco e ancora prodotti chimici, plastica e gomma. Dal punto di vista delle importazioni, invece, il primo partner libanese è la Francia, seguita da Siria, Stati Uniti, Italia e Cina: petrolio raffinato, mezzi di trasporto, prodotti chimici e metallurgici rappresentano i beni più commerciati.
Nonostante i significativi segnali di crescita, l’economia libanese continua ad essere considerata molto vulnerabile, soprattutto in considerazione dell’elevato debito pubblico, eredità degli anni turbolenti passati e arrivato a fine del 2009 a rappresentare il 148% del pil. Benché le stime per il 2010 diano una sua diminuzione di quasi dieci punti percentuali, in linea con i trend segnati dal 2006 in avanti (quando il rapporto debito/pil era pari al 179,9%), il peso del debito libanese rimane ancora il più alto di tutta la regione e uno dei più alti al mondo, tanto che nel 2009, per il suo pagamento, il governo ha dovuto destinare circa i due terzi delle sue entrate. Ecco perché, nonostante la drastica riduzione delle spese correnti e di investimento centrali in cui Beirut si sta impegnando da anni, il deficit di bilancio, seppur in calo, si attesta intorno a percentuali ancora elevate (−8,6% nel 2009).
Il paese è considerato ad alto rischio dalle principali società di ranking internazionale, soprattutto in considerazione della situazione politica interna, sempre in equilibrio precario, e delle tensioni con Israele, costantemente sul punto di sfociare in conflitto. Dal 2007 tanto il Fondo monetario internazionale quanto la Banca mondiale hanno concordato con il Libano importanti progetti di aiuto finanziario, rubricati all’interno dei piani di assistenza di emergenza post-conflitto.
A caratterizzare il settore della difesa e della sicurezza interna libanese è, anzitutto, la presenza sul territorio della missione Unifil, contingente internazionale sotto egida delle Nazioni Unite. La missione conta circa 12.000 soldati, di cui un terzo solo da Francia, Italia, Indonesia e Spagna. La missione, inaugurata nel 1978 a seguito degli scontri tra l’esercito israeliano e le organizzazioni palestinesi, ha attualmente come scopo quello di evitare scontri sulla frontiera libano-israeliana, il confine storicamente più sensibile e instabile del Libano.
Non a caso, il conflitto dell’estate 2006 ha avuto origine proprio da scontri tra Hezbollah e Israele verificatisi nel sud del paese. Nonostante l’obiettivo ultimo delle operazioni israeliane fosse quello di sradicare il ‘Partito di Dio’ dal Libano, il conflitto, durato un mese, ha causato circa 1500 vittime e ingenti danni infrastrutturali, finendo per rafforzare e mettere in luce le capacità operative di Hezbollah, che continua a rappresentare uno dei principali elementi di instabilità nazionale. Se dal punto di vista regionale esso genera infatti una condizione di conflitto latente con Israele, da una prospettiva interna la presenza di Hezbollah e del suo braccio armato è una potenziale fonte di instabilità e di scontri intestini contro le fazioni sunnite. L’esercito nazionale, del resto, ha evitato di prendere apertamente posizione durante gli scontri del maggio 2008, in cui Beirut fu teatro di una contrapposizione armata tra le comunità sciita e sunnita che provocò quasi 100 morti in una settimana e in cui i seguaci di Hezbollah dimostrarono la loro superiorità organizzativa e strategica.
Altro fattore di tradizionale instabilità e minaccia alla sicurezza libanese è costituito dalla presenza dei campi profughi palestinesi, entità di fatto separate dal resto del territorio nazionale e di sovente utilizzate dagli attori esterni come strumento di ingerenza sul Libano. Esempio più evidente di questa tendenza è rappresentato dalla cosiddetta ‘Guerra dei campi’: nel corso della seconda fase della guerra civile libanese, questa costituì una sorta di conflitto nel conflitto, combattuto dalle milizie sciite di Amal che, con il sostegno di Damasco, puntavano a sconfiggere le roccaforti libanesi dell’Olp.
Più di recente, nel 2007, alcuni membri di Fatah al-Islam, un gruppo armato legato al fondamentalismo islamico di ispirazione qaidista, trovarono rifugio in uno dei maggiori campi palestinesi, Nahr el-Bared, ingaggiando una lotta contro l’esercito libanese che provocò la morte di circa 450 persone. A conferma della potenziale carica di instabilità legata alla presenza dei profughi palestinesi all’interno del territorio libanese, nel maggio del 2011 la comunità palestinese in Libano è stata al centro di nuovi episodi di violenza, generati da scontri con le truppe israeliane al confine tra Libano e Israele, che hanno causato la morte di 11 rifugiati palestinesi.