liberalismo
Complesso dei principi in cui si esplica un atteggiamento, etico e politico, che considera centrali i problemi della libertà dell’individuo e della sua difesa, e in cui s’identifica tanta parte della storia moderna. Il l. è il moderno movimento di pensiero e di azione politica che riconosce all’individuo un valore autonomo e tende a limitare l’azione statale, nelle sue varie determinazioni, in base a una costante distinzione di pubblico e di privato. Le origini storiche assegnate al l. variano a seconda delle definizioni di esso, soprattutto in rapporto ad altre correnti e tendenze. Insistendo sul legame del l. col razionalismo laico e antiautoritario, H.J. Laski ha posto nel Settecento francese il centro creatore del pensiero liberale, che si svolse poi nell’arco di due secoli, fino al momento in cui la borghesia, che lo aveva generato, ripiegò su tentativi ed esperimenti autoritari. La scuola italiana, invece, ha preferito distinguere fra l. e democrazia, e chiarirne il reciproco apporto. De Ruggiero ha individuato, sotto il profilo economico-sociale, un l. terriero, che fiorì nell’età della Restaurazione, di Luigi Filippo, della Destra italiana; e un l. di origine industriale, che ebbe le sue manifestazioni più tipiche in Inghilterra. Ma la crisi europea di ideali e di istituzioni, sul piano propriamente politico, si compendia per De Ruggiero nel «trionfo del materialismo storico», cioè nel prorompente conflitto degli interessi di classe e nella «degradazione di tutti i valori morali, giuridici, politici al livello dell’economia». Con accentuazione ancor più decisa dei fattori spirituali, Croce ha parlato di «religione della libertà» che durante la Restaurazione fece proprie le armi intellettuali dello storicismo idealistico nella lotta alle «religioni» concorrenti. Di conseguenza, la crisi dei valori liberali è anch’essa, per Croce, di carattere etico-politico, legata all’affermazione sull’orizzonte europeo del materialismo e del volontarismo del tardo Ottocento.
È nella storia europea a partire dal Rinascimento e dalla Riforma che si possono individuare le premesse del pensiero liberale ottocentesco: cioè nella lotta per la libertà religiosa (la tolleranza ➔ reclamata dalle sette dissidenti della Riforma, e poi quella fondata da Locke e da Bayle sul relativismo dogmatico); nella competizione fra la nobiltà inglese e l’assolutismo degli Stuart, che strappò al potere della corona, attraverso un singolare sviluppo costituzionale, garanzie sul piano giudiziario e più propriamente politico (Petition of right, 1628; Habeas corpus act, 1679; Bill of rights, 1689); nella dottrina della divisione e dell’equilibrio dei poteri, ispirata al modello inglese e teorizzata da Montesquieu; nella concezione di un diritto naturale (➔ giusnaturalismo) fondamento di ogni costruzione giuridica, che da Grozio approda al contrattualismo (➔) di Kant. Altrettanto essenziale è l’individualismo economico dei fisiocratici e della scuola classica inglese, per cui la massima utilità generale è garantita dalla libera competizione, intesa all’utile particolare e svincolata da ogni disciplina (individualismo comune, oltre ogni divergenza contingente, a Quesnay, A.R.J. Turgot, Adam Smith). Le dichiarazioni dei diritti americana (1776) e francese (1789) si pongono, dunque, al vertice di un vasto processo storico, riassumendone i tratti essenziali: libertà di coscienza e di pensiero, di espressione e di associazione; inoltre, eguaglianza di fronte alla legge, diritto di concorrere alla formazione della legge stessa, diritto di proprietà.
Il l. ottocentesco si individua nella doppia opposizione contro l’assolutismo dinastico e la democrazia giacobina, nel confronto con l’esperienza storica della Rivoluzione francese e con la realtà della trasformazione industriale. Nel corso del secolo il l. in pieno sviluppo penetra entro sistemi differenti, dando origine a indirizzi di pensiero in cui la tradizione s’incontra con la modernità: si produce, così, lo sforzo di adeguare il cattolicesimo alle esigenze di libertà individuale e nazionale, mentre nei paesi di cultura tedesca nasce una nuova teologia, che riafferma e accentua il valore del libero esame, e mette a fuoco la genesi storica del dogma.
In Francia il l. nasce con una precisa coscienza della propria originalità, istituendo una netta opposizione fra la libertà com’era concepita in passato, dall’antichità classica fino a Mably e Rousseau, e la libertà moderna: la prima intesa alla divisione del potere sociale fra i cittadini, la seconda alla «sécurité dans les jouissances privées», fra cui essenziale è il diritto di disporre e perfino di abusare della proprietà (Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, 1819). Se Constant conduce una polemica irriducibile contro l’uniformità meccanica, contro qualsiasi potere socio-politico di stampo collettivistico che coarti i cittadini, contro «l’esprit systématique» proprio del dispotismo e della Rivoluzione, Tocqueville, dal canto suo, accetta il dato ineluttabile della democrazia, intesa quale tendenza a lungo termi- ne operante nella storia occidentale. Esaminando l’estensione e i limiti della democrazia in America, Tocqueville apprezza per un verso il decentramento amministrativo, l’autonomia riconosciuta alla società civile, gli enormi spazi di libertà garantiti all’iniziativa individuale; ma per un altro verso teme che l’eguaglianza delle condizioni socio-economiche (in America le classi intermedie sono di gran lunga le più numerose) generi una pericolosa uniformità sociale e culturale, un nuovo conformismo così diffuso da dar vita a una vera e propria «tirannide della maggioranza», con grave pregiudizio per chi non si riconosce in essa, per i dissenzienti. Tale conformismo può favorire disegni autoritari e dar vita a nuove forme di dispotismo. Gli antidoti più efficaci contro queste tendenze sono, per Tocqueville, la libertà di stampa e l’associazionismo, assai diffuso in America. Le speranze e i timori di Tocqueville sono condivisi da J.S. Mill, che del pensatore normanno fu grande ammiratore. Per Mill intorno a ciascun individuo vi è una sfera che a nessun governo è lecito oltrepassare, una sfera di assoluta libertà, su cui né altri individui, né la collettività possono esercitare un controllo (Principi di economia politica, 1848); contro l’arbitrio di una pretesa volontà popolare sono necessarie precauzioni e garanzie, che impediscano la tirannide della maggioranza e che tutelino il dissenso (Saggio sulla libertà, 1859). A partire dalla metà del secolo, tuttavia, non mancano fra i liberali inglesi voci discordanti, come quella dello storico Th.B. Macaulay, che ammette alcune forme di intervento pubblico e insieme respinge l’atomismo degli utilitaristi; successivamente, Hobhouse (Liberalismo, 1911) tenterà una conciliazione del l. con la democrazia e il socialismo democratico, ammettendo alcune forme di tutela delle classi povere.
Meno cospicue le espressioni del l. tedesco e italiano, sebbene il primo possa vantare il saggio di Humboldt (Saggio sui limiti d’attività dello Stato, 1792, pubblicato post. nel 1851) definito da De Ruggiero «il capolavoro dell’individualismo politico dell’età romantica», che anticipa le tesi dei costituzionalisti francesi della Restaurazione. Il l. conosce in Prussia un’intensa stagione, quando K.A. Hardenberg e H.F.K. von Stein elaborano i loro progetti di riforma (entrambi del 1807) intesi all’emancipazione dei contadini, all’abolizione dei privilegi nobiliari nel conferimento degli uffici, nella creazione di istituti rappresentativi; dopo la legge doganale del 1818, ispirata alla libertà del commercio, esso cede il passo alla reazione di Federico Guglielmo, per riaffacciarsi alla politica nazionale col parlamento di Francoforte, animato dalla borghesia intellettuale. Nella seconda metà del secolo il pensiero giuridico tedesco si accosta ai principi liberali attraverso la concezione dello Stato di diritto (R. Gneist, G. Jellineck). Il l. italiano si mostra sensibile soprattutto ai problemi della nazionalità e del rapporto della sfera politica con l’universalismo ecclesiastico. P.S. Mancini fa rientrare risolutamente il diritto di nazionalità nella categoria dei diritti individuali (La nazionalità come fonte del diritto delle genti, prolusione al corso di diritto internazionale, 1851). Contemporaneamente, Cavour attinge a A.-R. Vinet, F. Guizot, Constant le fonti della sua formula ‘libera Chiesa in libero Stato’. Ma solo negli ultimi anni del secolo il l. trova una formulazione teorica nelle opere di G. Mosca, che, partito in gioventù da una contestazione radicale delle istituzioni parlamentari (Teorica dei governi e governo parlamentare, 1884), si volge gradualmente a un l. moderato (Il programma dei liberali in materia di politica ecclesiastica, 1897), per difendere in seguito coerentemente la sua teoria delle classi medie contro i tentativi di ristrutturazione sindacalcorporativa (Stato liberale e Stato sindacale e Il problema sindacale, entrambi del 1925).
Difficile il discorso sul l. americano, cui è mancata una coscienza fisiocratica, mentre l’ascesa industriale, più tarda rispetto a quella inglese, si è servita ai suoi inizi del protezionismo; per di più proprio il Sud schiavista aderiva alle prospettive manchesteriane. La democrazia di Th. Jefferson sostenne che «il governo migliore è quello che governa di meno»; tuttavia, nelle nuove condizioni della società industriale, la tradizione liberal-democratica americana auspicò l’intervento dei poteri pubblici nei contrasti sociali. Un nuovo liberalism si configura, intorno al 1920, nell’interventismo di Th. Veblen e nel democratismo di Dewey, con la sua fiducia nella razionalità creativa dell’uomo e quindi nell’efficacia della programmazione sociale.
Una sistemazione coerente dei problemi economici e politici fu riproposta negli anni della Seconda guerra mondiale dai fortunati lavori di W. Röpke, che esplicitamente si richiamava agli italiani Croce, L. Einaudi, Mosca, C. Antoni; Röpke utilizzava inoltre gli argomenti di Hayek, per il quale la programmazione economica conduce necessariamente al socialismo e alla sua inefficienza, con esiti inevitabilmente totalitari. Anche l’opera di Röpke è un attacco radicale al collettivismo, inteso in senso molto lato, come filosofia sociale che amplia al massimo le competenze e il potere costrittivo dello Stato, e apre, con espressione ripresa da Hayek, la «strada verso la servitù». Ogni forma di economia controllata e di programmazione, anche nei limiti e nelle forme prospettate da J.M. Keynes o da J.A. Schumpeter, equivale al collettivismo; se pure la proprietà privata dei mezzi di produzione continua a sussistere nominalmente, essa è spogliata di ogni significato quando è sottoposta a un ordinamento economico che toglie al proprietario il diritto della libera disponibilità e della libera decisione; inoltre, il controllo dell’economia e la sua pianificazione distruggono il meccanismo creativo del mercato nel quale devono confrontarsi liberamente le nuove iniziative economiche, le nuove formule organizzative, i nuovi ritrovati tecnici, ecc. In un’economia controllata il mercato, gravemente distorto, non dà più indicazioni valide per l’allocazione delle risorse e per la validità delle nuove intraprese industriali e commerciali: sicché il danno che ne viene alla società (anche sul piano della ricerca e della innovazione) è enorme. La «terza via» di Röpke si svolge fra gli scogli della degenerazione monopolistica e del collettivismo; essa concede allo Stato un «interventismo liberale», conforme al principio generale del sistema economico di mercato.
Anche se l’area politica rappresentata dal l. è in genere più ampia di quella coperta dai partiti liberali, si è parlato a ragione, per il 20° sec., di crisi del liberalismo. L’affermazione dei movimenti di massa e l’accentuarsi delle pressioni sulla sfera del governo hanno evidenziato già dai primi anni del Novecento il forte ruolo che si attendeva dall’intervento statale nell’economia e in altri campi. Nel secondo dopoguerra, dopo il crollo dei totalitarismi fascisti e nella lotta delle forze liberali contro il totalitarismo comunista, hanno ripreso forza le idee del l., le quali poi hanno trionfato dopo la dimostrata inferiorità delle economie collettivistiche, che ha determinato il crollo dell’URSS e del suo impero.