LIBERALISMO (XXI, p. 36)
Negli anni che seguirono al 1870 il liberalismo europeo parve in declino non soltanto come movimento politico, costretto quasi sempre alla difensiva di fronte agli attacchi dei movimenti avversarî, ma anche come dottrina politica e ideale morale. Esso non riscaldava più i cuori degli uomini, divenuti sensibili ad altri ideali o piuttosto immaginazioni, tutte riconducibili al romanticismo morboso che aveva già fatto le sue prove nella prima metà del secolo e che in codesta sua derivazione o rinnovamento è stato definito attivismo. Con sempre maggiore fortuna contendevano il campo al liberalismo il socialismo e il nazionalismo, nelle loro varie tendenze e scuole, per allora disgiunti, ma non tanto da celare le loro radici in parte comuni e la congiunta possibilità di confluire in una sola dottrina e in un unico movimento politico, come accadde in tempi più recenti e tuttora accade, dando luogo al Giano bifronte della tirannide moderna. Quando poi, nel declino delle forze morali che seguì la prima Guerra mondiale, quegli ideali si irrobustirono e prosperarono e i sistemi e regimi liberali crollarono in molte parti di Europa e nuovi e più feroci assolutismi piegarono gli uomini in una nuova e più triste servitù, i teorici delle novissime dottrine si affrettarono a dichiarare il liberalismo "superato" o addirittura "inverato" da concezioni che del liberalismo erano il contrario e la negazione.
Senonché, proprio in quegli anni, il liberalismo veniva sottoposto a revisione da parte di uomini che credevano nella libertà e questa tenevano per religione e avvertivano la necessità di ragionare meglio codesto loro ideale e di porlo in grado di resistere agli attacchi degli avversarî. L'indispensabile indagine storica, sollecitata dalla rinnovata passione della libertà, si rivolse non tanto al pensiero illuministico del Settecento, quanto agli ideali liberali dell'età della Restaurazione, allorquando i cosiddetti "dottrinarî" francesi concepirono la storia come libertà e la libertà posero al centro della vita morale, unica e sola fonte di civiltà e di progresso. Già fin da allora le costituzioni contenute nei Bills of rights americani del 1776 o nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789 non erano parse modelli immutabili da serbare e imitare a ogni costo, ma ora con chiarezza maggiore si consideravano, gli uni espressione della particolare situazione delle colonie inglesi dell'America settentrionale, l'altra figlia dell'astrattismo razionalistico del "secolo dei lumi". Non colse mai nel segno la critica mossa con siffatti riferimenti al liberalismo, perché esso non si contiene né si esaurisce in particolari istituzioni giuridiche, e le contraddizioni che è agevole rintracciare in quelle dichiarazioni o carte non possono essere proposte come contraddizioni del liberalismo con sé medesimo.
Codesta nuova e ansiosa sollecitudine per la libertà avvertita come bene supremo, condizione e fondamento di ogni altro, e l'indagine teorica che ne è conseguita, hanno avuto ragione delle critiche mosse al liberalismo, che si sono rivelate, a giudizio dei liberali, tutte prive di fondamento. Così quella che il liberalismo non sarebbe mai riuscito a sanare l'antinomia tra individuo e stato e si sarebbe anzi inutilmente travagliato e alla fine esaurito nello sforzo di conciliazione, perché individuo e stato, o, ch'è lo stesso, libertà e autorità, sono termini indissolubili di un'unica realtà, e possono essere distinti, ma non divisi, dato che codesta divisione sarebbe generatrice di morte, come generatrice di morte sarebbe non già la distinzione, ma la separazione della vita morale dalla vita economica, alimentandosi la prima della seconda e crescendo su essa. Il che non toglie che possa sorgere e sorga contrasto tra individuo e stato, ma appunto di questo contrasto si intesse il dramma della vita morale; un contrasto che al limite estremo genera le rivoluzioni e gli urti violenti, ma che è ineliminabile o si può eliminare, e soltanto in apparenza e per breve tempo, con la soppressione di uno dei due termini: la libertà.
Riducibile a questo di cui si è discorso, è il contrasto tra liberalismo e democratismo, combattendo il primo la concezione, propria del secondo, degli uomini come eguali nel diritto e nel fatto e difendendo, invece, l'eguaglianza ideale o giuridica e proteggendo la persona nella sua concretezza individuale contro la tirannia del numero. Il liberalismo si oppone alla concezione atomistica della società che esso configura organicamente nella sua multiforme differenziazione di gruppi, associazioni e autonomie, di governati e di governanti. In pratica, peraltro, quel contrasto si è venuto riducendo e appianando nel corso stesso del sec. XIX, man mano che l'allargato suffragio, abolendo il privilegio elettorale, sostituiva alle ristrette classi politiche liberali, classi politiche nuove, espressioni di più vasti e mobili interessi. Il suffragio universale è ormai alla base degli ordinamenti dello stato liberale, e il liberalismo lo difende come un tempo lo difesero e lo invocarono i democratici, e l'esigenza liberale della tutela dell'individuo contro il prepotere della cosiddetta "volontà generale", portata per sua natura a farsi dittatoriale e tirannica, è soddisfatta in primo luogo con l'opera quotidiana di educazione liberale dei cittadini e, in secondo luogo, mediante accorgimenti tecnici di varia natura, quali la bicameralità dei parlamenti o il carattere, come dicono i giuristi, rigido delle carte costituzionali o con altrettali che si potranno ritrovare e adottare o potranno essere suggeriti dalle circostanze.
Di ben diversa natura il contrasto tra liberalismo e religione rivelata, specialmente nella formulazione cattolica, perché qui il contrasto è teorico e di due fedi contrastanti, cioè della trascendenza e dell'immanentismo che si è poi chiarito sempre più come storicismo assoluto. Ciò non ha impedito che pel secolo scorso cattolici diventassero liberali e il partito dei moderati o neoguelfi partecipasse con efficacia al moto di liberazione nazionale, né che in tempi recenti paesi e regimi liberali combattessero accanto alla chiesa cattolica la medesima battaglia contro il totalitarismo moderno. Ma nel campo più strettamente politico la soluzione liberale del problema dei rapporti tra Stato e Chiesa che si esprime nella separazione dei due istituti, non può essere tacciata di "agnosticismo" o "indifferenza", come fu spesso affermato, perché quella soluzione era concreta e piena di significato, in quanto coronava un lungo travaglio storico durante il quale Chiesa e Stato si erano di volta in volta e reciprocamente sopraffatti e umiliati, avanzando ora l'una ora l'altro sistemi giuridici contrastanti. Quella soluzione stava a indicare la volontà dei tempi nuovi, nei quali lo Stato, spezzando i residui vincoli di soggezione verso la Chiesa, rinunziava da parte sua a valersi di essa quale instrumentum regni e, libero, si faceva alla Chiesa garante di libertà e, in coerenza col suo animo liberale, voleva che anche la fede religiosa fosse un atto di libertà, una adesione individuale, non sollecitata direttamente o indirettamente da interventi estranei. L'esperienza successiva ha mostrato, a giudizio dei liberali, come quella posizione reciproca di Chiesa e Stato non possa essere abbandonata senza danno dell'una e dell'altro e come quell'abbandono e il passaggio ad altri e diversi sistemi coincida con la perdita e l'abbassamento della libertà.
Agnostica o indifferente non può nemmeno dirsi la posizione dello stato liberale nei confronti della scuola, poiché in questo campo (così legato con l'altro dei rapporti tra Chiesa e Stato), la tesi liberale è che i compiti dello Stato sono di garantire ai cittadini nella più vasta misura possibile un'istruzione che li renda autonomi e spiritualmente indipendenti, capaci di seguire per virtù propria la legge della vita morale, che è legge di libertà; e insomma sostituzione del metodo critico al metodo dell'autorità.
Dove il liberalismo appariva disarmato era sul terreno dell'economia. Il liberismo era stato a metà del sec. XIX quasi una religione e, nell'animo di molti, l'ideale politico morale della libertà si era confuso e identificato con l'altro puramente utilitario della libera concorrenza e del non intervento statale nelle materie e nei problemi dell'economia. Ma già nel secolo scorso la scuola manchesteriana che aveva rappresentato codesto ideale, era venuta declinando; la stessa Inghilterra non assumeva più, con la stessa intransigenza di un tempo, la difesa del libero scambio, e lo stato liberale interveniva (come, del resto, nel fatto, era sempre intervenuto) nelle cose dell'economia, non soltanto a difesa dei lavoratori mediante la legislazione che fu detta sociale, ma anche a garanzia di interessi ora più ora meno vasti, ora più ora meno legittimi, della produzione nazionale, non cessando naturalmente con ciò di essere liberale. E codesta prassi che dimostrava coi fatti come i due sistemi di uno statalismo assoluto e di un assoluto liberismo non fossero attuabili mai nella loro interezza, e come altresì non vi fosse identità tra liberalismo politico e liberismo economico, venne poi ragionata filosoficamente, o teorizzata, quando si affermò che il liberalismo, come ideale morale e come concezione della storia intesa come libertà, apparteneva a una sfera diversa da quella propria del liberismo che è dell'utilità e della pratica convenienza. La libertà, che è la motrice della storia, si crea di volta in volta gl'istituti giuridici ed economici più idonei per celebrare sé stessa, e in essi vive concretamente, ma non si identifica con essi, cosicché cadendo e scomparendo questi, debba anch'essa cadere e scomparire. Si è conseguito così un più alto e preciso concettodella libertà e si è fatta più salda la fede relativa, mentre è possibile considerare con maggiore spregiudicatezza le cose economiche e le cosiddette riforme sociali che sono da accettare o da respingere secondo che giovino o nocciano alla libertà e ne garantiscano o neghino l'avanzamento e l'accrescimento. In questi termini il liberalismo conduce la polemica contro il socialismo, non già in quanto questo si proponga di promuovere l'elevamento delle classi più umili e di dare voce e coscienza a strati sociali prima silenziosi e lontani dalla luce degli ideali morali e politici, perché in tal forma è anch'esso creatore di libertà ma in quanto, facendosi rivoluzionario e utilitario, e unificandosi e confondendosi col comunismo oppone alla concezione idealistica e morale liberale quella materialistica e di mera forza, sicché per esso la società si riduce a un inerte meccanismo che riceve vita e movimento dall'esterno e nelle forme della dittatura. Tutto ciò non toglie che il liberalismo, in quanto dottrina politica e movimento pratico, non abbia un programma economico, diverso da quello degli altri partiti soprattutto per il fatto che esso non pretende di essere definitivo e immobile, capace di risolvere e placare una volta per tutte le varie e sempre cangevoli istanze economiche e sociali. Il liberalismo economico non è rimasto inerte o indifferente di fronte al fatto che l'economia di concorrenza ha espresso verso la fine del secolo scorso dal suo stesso seno le varie forme del monopolismo, privato o statale, che eliminano la gara nel campo della produzione e rendono diseguali le condizioni di partecipazione alla lotta. E da più parti si sono invocati i rimedi contro questo degenerare dell'economia di mercato (il che non significa punto abbandono e condanna di tutto il sistema), e si è esortato e si esorta lo stato non a farsi unico produttore e distributore, ma ad intervenire, con appropriata legislazione, contro il monopolismo e la grossa industria e ad assicurare l'eguaglianza di ciascuno nelle posizioni di partenza nella lotta della vita: ciò esige tutto un complesso di norme e di interventi statali, sempre più frequenti nello stato moderno, che vanno dalla legislazione cosiddetta sociale, a una legislazione che dall'oggetto al quale si rivolge, può ben essere qualificata "economica", la quale non mira, o mira solo indirettamente, alla tutela dello sfortunato o dell'incapace o del debole, ma alla difesa del cittadino considerato come produttore e consumatore, perché possa svolgere per intero le sue attitudini e vocazioni e spiegare in pieno la propria personalità. E per quel che riguarda i contrasti tra categorie e classi economiche, la dottrina liberale non stima possibile la loro cessazione per opera di un informe ed opaco "corporativismo" o "solidarismo", ma li giudica essenziali e connaturali con la vita economica, così come giudica essenziali il contrasto e la lotta nella vita politica, e li vuole condotti e risolti con metodo liberale, senza violenze né sopraffazioni, e anche qui non rifiuta né respinge i necessarî interventi normativi dello stato.
Analogo ragionamento il liberalismo tiene nei confronti delle istituzioni propriamente politiche e giuridiche, nelle quali la libertà concretamente vive ed opera ma con le quali non può identificarsi. Il liberalismo considera ancora oggi le istituzioni parlamentari (con le quali esso nacque ad un parto in quanto concreto movimento politico) idonee a garantire la libertà e pertanto le difende. Sembrano falliti i tentativi, sperimentati in Europa negli ultimi decennî, di sostituire alle rappresentanze politiche altre e diverse rappresentanze. I consigli economici o come altrimenti si sono chiamati o si potranno chiamare in avvenire, limitati alla rappresentanza degli interessi di particolari categorie, non possono esercitare la funzione, che è propria delle rappresentanze politiche, di mediare gli interessi particolari o di gruppi con gli interessi generali. La loro funzione può essere utile se mantenuta nei giusti confini, ma non può estendersi senza danno al campo prettamente politico che non è il loro. E insomma, non è ancora dato vedere quale altro sistema possa sostituire nella società moderna quello dei liberi parlamenti politici che accesero di speranza il cuore dei popoli nel secolo scorso.
Le difficoltà che il meccanismo parlamentare mostra nel suo pratico funzionare e le critiche che così esso si attira, non riguardano tanto le istituzioni quanto gli uomini e vanno perciò superate con un più saldo amore e con un più chiaro sentimento della libertà, che pone essa stessa a sé stessa i suoi limiti.
Così rinnovato nei suoi fondamenti ideali e perciò più sicuro e cosciente di sé, il liberalismo - quali che possano essere le particolari formazioni politiche che gli si ispirano o a lui s'intitolano e delle quali qui non è da fare parola - conduce ancora una volta la battaglia per la libertà che ogni giorno si rinnova sotto forme diverse e si rinnoverà sempre, fin quando la storia intesserà il suo dramma grandioso. Declinati o indeboliti gli antichi avversarî, oggi contro di lui si erge lo stato totalitario che si alimenta degli implacabili avversarî del liberalismo: il nazionalismo e il socialismo, il primo divenuto imperialistico e razzistico, il secondo trapassato nelle sue pratiche attuazioni in capitalismo di stato e perciò in pianificazione totale della produzione e della distribuzione. Né, per ora, è possibile dire quale sarà l'esito della lotta. Si può soltanto affermare che, prima o poi, sarà la libertà a trionfare, perché, essa, come scrisse il Filosofo, ha per sé l'eterno.
Bibl.: Fondamentali sono gli scritti di Benedetto Croce: Storia d'Europa nel sec. XIX, 6ª ed., Bari 1943; La storia come pensiero e come azione, 3ª ed., Bari 1939; Principio, ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà in Il carattere della filosofia moderna, 2ª ed., Bari 1945. Si possono ancora vedere con profitto: B. Constant, Cours de politique constitutionnelle ou Collection des ouvrages publiés sur le gouvernement représentatif, Parigi 1961; le opere di A. de Tocqueville, i Discorsi di Cavour (1ª ed., Firenze 1836-77; 2ª ed., Firenze 1932-41, non completa); l'Aeropagitica di John Milton, Oxford 1904. Sulle dottrine liberali nell'età della Restaurazione cfr.: A. Omodeo, La cultura francese nell'età della Restaurazione, Milano 1946. Ottime informazioni in G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, 4ª ed., Bari 1946. Sul nuovo atteggiamento dell'economia liberale, oltre L. Mises, Liberalismus, Jena 1927, si vedano: W. Röpke, La crisi sociale del nostro tempo (trad. ital., Torino 1946); F. A. Hayek, The road to serfdom, Londra 1944.
Il Partito liberale italiano.
Prima dell'avvento del fascismo, sarebbe più esatto parlare non di un Partito liberale italiano, ma di partiti liberali, benché ci fosse anche un partito e un gruppo parlamentare che si dicevano "liberali", senz'altra specificazione (e vi appartennero uomini come A. De Viti-De Marco, E. Finocchiaro-Aprile, G. Bevione, G. Olivetti, D. Philipson, T. Benedetti, ecc.; cioè uomini che seguirono poi vie molto diverse); ma non perciò erano meno liberali gli altri partiti e gruppi che si denominavano: costituzionali moderati, costituzionali progressisti, liberali moderati, liberali democratici e democratici liberali, e le molto varietà di radicali, ecc. Nessuno dei capi parlamentari che avevano tenuto la presidenza del governo negli ultimi anni (da Giolitti e Salandra a Facta), benché fossero tutti dei liberali, apparteneva al partito o gruppo liberale; nemmeno Giolitti, che ora è considerato come il continuatore del liberalismo cavouriano. Gli è che tutte queste denominazioni, ivi comprese quella "liberale" senz'altro, riproducevano ancora nel 1919, anno del primo esperimento di elezioni col sistema proporzionale, e poi nel 1921, posizioni politiche personali e locali, residuate dal collegio uninominale ed insensibili ancora all'esigenza di una organizzazione di partito su base nazionale. L'avvento del fascismo e la nuova legge elettorale del 31 dicembre 1923, col suo Collegio unico nazionale e 15 circoscrizioni elettorali, col largo favore dato dalla legge stessa alla lista governativa (fascista) di maggioranza (356 seggi, contro 179 alla minoranza, che poi scesero, difatto, a 161) costrinsero queste varie denominazioni liberali a ridursi in più ragionevoli limiti, ad organizzarsi su base nazionale; senza dire poi che già allora molti liberali si presentarono nella lista di maggioranza o nella lista bis fiancheggiatrice. La crisi politica successiva al delitto Matteotti (10 giugno 1924), il movimento dell'Aventino, il deciso orientamento dittatoriale fascista dopo il discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925, chiarirono le posizioni in campo liberale: mentre alla fine di maggio 1925 il gruppo fiancheggiatore filo-fascista di "opposizione alle opposizioni", capeggiato da V. Scialoia e da G. Sarrocchi, si costituiva in Partito liberale nazionale per finire poi in breve nel fascismo; mentre i gruppi liberali di sinistra, sotto la guida di G. Amendola, di C. Sforza, ecc. costituivano l'Unione nazionale democratica, i liberali di centro e centrosinistro (con l'adesione di B. Croce, di G. Fortunato, di G. Giolitti, di V. E. Orlando, di A. Salandra, di G. Mosca, di A. Casati, di L. Einaudi, di F. Ruffini, ecc.) nel giugno 1925 stringevano le file del partito liberale e cercavano con gli altri partiti di opposizione di arginare il dilagante totalitarismo fascista. Nonostante la bella difesa che, finché fu possibile, nella stampa e dalla tribuna della Camera e del Senato, opposero le migliori penne e i parlamentari più insigni del liberalismo italiano, fu una battaglia perduta: le leggi eccezionali fasciste del 1925-1926 stroncarono ogni probabilità organizzativa di partito, ogni libertà di stampa; i giornali che, come il Corriere della Sera, La Stampa, ecc., avevano largamente contribuito a formare e a ravvivare una corrente di opinione pubblica in lato senso liberale, passavano via via in proprietà fascista. Le elezioni plebiscitarie del 1929 eliminarono gli ultimi deputati liberali dalla vita pubblica; dopo il dibattito sui patti concordatarî al Senato (1929) furono ridotte al silenzio anche le poche voci dei senatori non conformisti. Per quasi un ventennio (1926-43) non si può più parlare di un partito liberale, ma solo di latenti tendenze e fedi liberali, sorrette dall'insegnamento a cui B. Croce e pochi altri suoi amici e discepoli, possono dar voce, sotto veste di considerazioni teoriche e storiche, di osservazioni critiche, solo indirettamente attinenti, benché chiaramente allusive, alla realtà italiana contemporanea. Dal finire del 1942, via via che il regime fascista volge al tramonto, sulla scia dell'insegnamento crociano, da Napoli a Torino, da Milano a Roma, da Firenze a Bari, si formano gruppi di fedeli dell'idea liberale, che soltanto la progressiva liberazione del paese dai nazi-fascisti potrà coordinare in partito, prima con centro a Napoli, poi Roma. Il P. L. entrò, fin dall'origine, nella formazione dei CLN ed ebbe una parte notevole nel congresso di Bari delle opposizioni antifasciste del gennaio 1944. Ha un giornale a Napoli, La Libertà, e varî organi clandestini di stampa nelle terre occupate; fra cui Il Risorgimento liberale di Roma, che dopo la liberazione della città, divenne l'organo ufficiale del partito e mantenne (fino alla sua estinzione, ottobre 1948) una parte notevole nella stampa politica italiana; e per un anno anche una rivista di pensiero politico, La città libera (1945-46). Uomini del P. L. entrano nei varî governi via via costituitisi dall'aprile 1944 in poi, o in rappresentanza del Partito o a titolo personale (così nel 2° e 4° ministero De Gasperi; il 3° ministero De Gasperi non comprese liberali), e cercarono di mantenere salvi i principî basilari del liberalismo contro quelle che essi giudicano minacce sia alla laicità e unità dello stato, sia all'economia liberale e alla costituzione sociale italiana (specie con l'apporto della probità e della competenza tecnica di uomini come M. Soleri, L. Einaudi, E. Corbino). Insofferente della paralisi che il governo sulla base dei 6 partiti del CLN ingenera nella vita statale, il P. L. si fa promotore della crisi che porterà alle dimissioni del gabinetto Parri (novembre 1945) e più tardi alla fine di quel sistema. Ma esso stesso attraversa crisi non lievi. Si agitano nel suo seno correnti monarchiche e correnti repubblicane, correnti conservatrici di destra e correnti innovatrici di sinistra. Agnosticità o piuttosto libertà ai suoi iscritti sul problema istituzionale è la posizione del P. L. fino al referendum dal 2 giugno 1946; ma non è un mistero che in esso le correnti monarchiche prevalgono, specie nelle regioni meridionali che rappresentano il grosso del partito; e lo dimostra il congresso nazionale tenuto a Roma alla fine di aprile 1946. Nello stesso mese ha luogo una prima scissione degli elementi repubblicani democratici di sinistra che fanno carico alla maggioranza di compromessi ed alleanze con elementi "reazionarî". Il partito si presenta alla prova delle urne nella formazione di un'Unione democratica nazionale, capeggiata da B. Croce, V. E. Orlando, F. S. Nitti e I. Bonomi e in cui confluiscono, con i democratici del lavoro, altri gruppi o aderenti di quei vecchi uomini politici. Le elezioni del 2 giugno 1946, commisurate, sia pure nel modo imperfetto che è solo possibile, ai successi che il liberalismo italiano, sotto le sue varie denominazioni, era solito conseguire nell'epoca prefascista, rappresentano una grave sconfitta: l'Unione democratica nazionaleebbe solo il 6,8% di voti e 41 eletti (di cui solo 19 del P. L.); il liberalismo ha dovuto cedere il passo ai partiti di massa (socialisti, comunisti, democrazia cristiana), non è più in grado di farsi guida politica della nazione. L'insuccesso elettorale aggravò la crisi del P. L., ripropose il problema della funzione di un P. L. nella vita italiana; mentre per B. Croce e per i suoi più fedeli seguaci esso deve mantenersi puro da contaminazioni con altri partiti, specie se sospetti nelle loro genuinità liberale, anche a costo di più gravi perdite nella gara elettorale, per altri, specie dell'Italia meridionale, in cui particolarmente si era affermato il Partito dell'uomo qualunque, si proposero problemi di tattica elettoralistica, di contingenti ed utili alleanze. Nel settembre 1946 il P. L., pur mantenendo il suo nome, si fuse col Partito democratico italiano, che fino allora si era trovato più a destra, anche sul problema istituzionale, e alcuni elementi progettarono perfino di allargare la fusione al Partito dell'uomo qualunque; ma B. Croce pose fine alla manovra con una netta dichiarazione (23 settembre 1946). Ma alla vigilia della consultazione elettorale del 18 aprile 1948 la questione, che già aveva provocato nuove scissioni di gruppi del centro-sinistro, fu ripresentata: infatti il P. L., sotto il nome di Blocco nazionale, presentò, sia per la Camera sia per il Senato, liste in unione coll'Uomo qualunque e con alcuni indipendenti. Ma il connubio non giovò: il momento di fortuna dell'U. Q. era passato, oramai, e le sue reclute eterogenee si polarizzarono ora attorno ad altri partiti. La lista si piazzava al quarto posto, con oltre un milione di voti, ma a grandissima distanza dai partiti di mezzo; e portava alla Camera 15 deputati e 10 senatori a Palazzo Madama. Questo secondo più grave insuccesso ha portato il P. L. ad una crisi della quale non è ancora possibile intravedere gli sviluppi.