Liberalizzazione dei servizi nell’Unione Europea
Premessa
Il tema della liberalizzazione dei servizi all’interno dell’Unione Europea ha destato rinnovato interesse all’inizio del nuovo secolo con il varo da parte del Parlamento europeo della direttiva 2006/123/CE, la cosiddetta direttiva Bolkenstein, il cui procedimento di adozione ha avuto inizio proprio nel 2000.
Prima di procedere nell’analisi dell’attuale quadro comunitario della liberalizzazione dei servizi, è bene ricordare, in termini generali, cosa si intenda per liberalizzazione, e per liberalizzazione dei servizi pubblici in particolare, anche al fine di differenziarla rispetto a fenomeni a essa contemporanei e complementari ma non coincidenti, come quello della privatizzazione e della deregolamentazione o deregulation. Solo successivamente si richiameranno i principi normativi dei trattati comunitari e in specie del Trattato di Roma del 1957, con il quale è stata istituita la prima Comunità economica europea (CEE), per poi esporre i contenuti della nuova direttiva del 2006.
Il termine liberalizzazione si è imposto agli inizi degli anni Novanta ed è da allora prevalentemente utilizzato per indicare l’apertura del mercato attraverso la progressiva riduzione dei vincoli al suo funzionamento e la rimozione di barriere all’entrata dello Stato, soprattutto per quanto riguarda lo svolgimento di attività di carattere economico. Più nel particolare, tale processo ha profondamente interessato i servizi di pubblica utilità, ma anche altri settori fondamentali per la competitività delle imprese europee e che, in diversa misura, necessitavano di estese riforme. Tra questi possiamo annoverare le banche, le assicurazioni, i servizi professionali, la distribuzione commerciale, il settore farmaceutico.
La liberalizzazione è, quindi, un insieme di misure, adottate già dagli inizi degli anni Novanta, dirette a provocare la creazione di un libero ed efficiente mercato quando fosse riscontrabile la presenza di barriere legali di fatto limitanti fortemente la libertà di prestazione. Pertanto la liberalizzazione mira alla creazione di un mercato contendibile, a una situazione cioè in cui la semplice possibilità di ingresso nel mercato di un possibile concorrente induce imprese e individui a comportarsi in modo competitivo.
Più specificamente, poi, quando si parla di liberalizzazione dei servizi pubblici – intendendosi i servizi che rispondono alle esigenze fondamentali della collettività – non solo ci si deve riferire alla graduale apertura dei mercati monopolistici dei vari Stati membri in determinati settori di public utilities, quindi precipuamente all’abbattimento di quelle barriere monopolistiche imposte dalle leggi statali nel mercato dei servizi pubblici, quanto anche ai fenomeni, contemporanei ma differenti, della privatizzazione e della regolazione.
Infatti, spesso, a livello statale più che comunitario, le misure di liberalizzazione sono state accompagnate da misure di privatizzazione. Con ciò a volte intendendosi la mera trasformazione di enti e imprese pubbliche in società per azioni disciplinate dal diritto privato (privatizzazione formale), altre volte in particolare la vendita a privati imprenditori di imprese prima gestite in monopolio, come, per es., quelle che svolgono servizi pubblici di energia elettrica, trasporto, telefonia. Tali operazioni comportavano quindi il passaggio della titolarità della proprietà e del relativo potere di controllo dalla mano pubblica a quella privata (privatizzazione sostanziale).
Tuttavia, a livello comunitario l’indirizzo politico di liberalizzazione di interi settori economici, tra cui quelli che interessano i servizi pubblici ma non solo, non è stato accompagnato da disposizioni che impongono agli Stati membri di vendere le proprie partecipazioni nelle imprese. In realtà si deve evidenziare come il diritto comunitario sia rimasto indifferente rispetto al regime proprietario delle imprese presenti sul mercato dettando a un tempo per il settore pubblico e quello privato discipline di liberalizzazione più o meno incisive.
Inoltre, il perseguimento di un mercato concorrenziale dei servizi pubblici conseguente alla liberalizzazione degli stessi può, o certe volte deve, rimanere soggetto al rispetto di regole fissate dalla autorità pubblica, autorità che, secondo il diritto comunitario, dovunque recepito dagli Stati membri dell’Unione, dovrebbe essere caratterizzata da una posizione di indipendenza dai governi. Ecco, quindi, l’importanza delle autorità amministrative indipendenti diffuse largamente anche nel nostro Paese. A ciò si aggiunga che quando l’ordinamento comunitario non chiede l’istituzione di un organismo a sé stante impone comunque obblighi di trasparenza, obiettività, proporzionalità, terzietà del soggetto regolatore.
Quindi, da un lato, la liberalizzazione comporta la deregolamentazione, ovvero l’eliminazione di tutte quelle disposizioni che garantivano diritti speciali ed esclusivi a pochi soggetti. Infatti, è vero che insieme alle liberalizzazioni si è manifestata l’insofferenza per regimi regolatori statali che, in diverso modo, opprimevano la libera iniziativa imprenditoriale e che si è avuta quindi una revisione a volte molto pesante delle regole esistenti, come nel caso della deregolamentazione dei servizi di trasporto aereo. Dall’altro lato, però, è anche certo che nei settori di servizi liberalizzati sono intervenute nuove regolamentazioni o sono rimaste le vecchie, come indica l’esempio delle discipline assai rigide fissate per la protezione degli utenti e dei consumatori.
Quanto alla puntuale definizione di che cosa si intenda per regolazione, in questa sede ci si limita a ricordare le prese di posizione dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development), secondo cui, sebbene non sembri esistere «una definizione comunemente accettata di regolamentazione applicabile ai diversi sistemi normativi dei paesi», in ogni caso poi riconosce che «per regolazione si intende l’insieme diverso degli strumenti mediante i quali i governi stabiliscono gli obblighi ai quali sono assoggettati i cittadini e le imprese. […] Le regolamentazioni includono le leggi, i provvedimenti formali e informali e le norme delegate emesse da tutti i livelli governativi e da organismi non governativi o di autoregolazione ai quali i governi hanno delegato i poteri di regolazione».
Il termine liberalizzazione indica, quindi, il venir meno di condizioni di ordine legislativo e amministrativo vincolanti per lo svolgimento di un’attività soggetta al controllo preventivo dell’amministrazione nazionale. Di fatto, partendo dal diritto comunitario, attività che necessitavano di concessioni o autorizzazioni per il loro svolgimento possono oggi in linea di principio essere liberamente esercitate da chiunque, pur rimanendo ferme alcune condizioni necessarie al funzionamento del mercato interno quali, per es., la sussistenza dell’essere cittadino di uno degli Stati membri.
Ciò, tuttavia, non ha certo fatto venir meno l’apparato dei controlli necessari a garantire la qualità del servizio fornito e, quindi, in ultima analisi a tutelare il consumatore finale tramite forme essenziali di regolazioni. E il controllo ritenuto necessario non è quello del Paese in cui si svolge la prestazione, in quanto l’ordinamento comunitario ha ritenuto sufficiente il controllo del Paese d’origine (home country control), che già veniva svolto.
La nascita della CEE e i servizi di interesse economico generale
In termini generali, lo scopo per il quale furono istituite negli anni Cinquanta le prime Comunità europee era prevalentemente quello di agevolare la nascita di un mercato comune all’interno del quale gli Stati membri potessero scambiare l’offerta dei servizi.
Con la firma del Trattato di Roma nel 1957 nasceva la Comunità economica europea (CEE), che affiancava la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e l’Euratom (la Comunità europea dell’energia atomica). Successivamente, con la firma del Trattato di Maastricht nel 1992, la CEE è stata trasformata in Comunità europea (CE), oggi Unione Europea (UE).
Pur non avendo un carattere esclusivamente economico, le principali funzioni della CEE venivano svolte all’interno dei cosiddetti settori economici attraverso interventi necessari a consentire la progressiva apertura dei mercati degli Stati nazionali concorrendo alla creazione del mercato unico europeo.
Sin dall’inizio, si è pervenuti alla formazione del mercato unico attraverso tre strumenti. In primo luogo, il Trattato di Roma ha fissato le cosiddette quattro libertà di circolazione: circolazione di servizi, di persone, di merci e di capitali. Funzionalmente a queste, sono state affiancate la disciplina della concorrenza e la limitazione degli aiuti statali alle imprese.
Più nel particolare, pur non entrando in questa sede nelle implicazioni giuridiche degli strumenti posti, le quattro libertà di circolazione trovano il loro fondamento all’interno dell’art. 14.2 del Trattato di Roma, secondo cui «il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali».
Il Trattato, negli articoli da 43 a 50, dedica ai lavoratori autonomi e alle persone giuridiche un duplice regime, a seconda del tipo di rapporto e di servizio che viene prestato nello Stato membro diverso da quello di origine del prestatore. Infatti, in proposito viene disciplinato il cosiddetto diritto di stabilimento, in base al quale è diritto dei cittadini di un Paese membro svolgere la loro attività indipendente, in modo continuo e permanente, stabilendosi in un altro Paese membro. Viene, poi, disciplinato il diritto del cittadino comunitario di esercitare la propria attività in uno Stato membro diverso da quello di provenienza in maniera temporanea e occasionale, senza carattere di stabilità.
A questo proposito, in primo luogo, è necessario circoscrivere e meglio definire la nozione di servizio, in quanto non vi è una totale coincidenza tra quanto inteso nel Trattato e le più diffuse definizioni del concetto, che vanno dai servizi di interesse economico generale, in ambito comunitario, ai servizi pubblici o servizi essenziali in seno all’ordinamento nazionale. In secondo luogo, occorre ricordare che l’ordinamento comunitario ha voluto sin dall’inizio identificare due diverse modalità di erogazione di una prestazione, come si specificherà in seguito.
Innanzitutto, quindi, seppur in termini molto generali, al fine di poter individuare la nozione di servizio presa a riferimento dalle norme del Trattato, che ne disciplinano la circolazione e la libera prestazione, si deve far necessariamente riferimento al concorso di diversi indici identificativi. Il servizio di cui stiamo trattando, come risulta dagli artt. 49 e 50 del Trattato, è quella attività non subordinata fornita, dietro remunerazione economica, da un prestatore stabilito in uno Stato membro diverso da quello in cui la prestazione viene eseguita. Per il Trattato le caratteristiche essenziali del servizio sono, dunque, di essere retribuito e transfrontaliero.
Quanto alle due modalità con le quali il Trattato ha sin dall’inizio perseguito la liberalizzazione del mercato interno, in primo luogo si deve tener presente che la libertà di prestazione dei servizi si applica solo ai cittadini comunitari stabiliti all’interno della Comunità. Pertanto, la liberalizzazione intrapresa a oggi vale unicamente all’interno dello stesso mercato unico e non anche verso i Paesi terzi. A questo riguardo il diritto comunitario riconosce al soggetto la possibilità di prestare la propria opera in uno Stato membro diverso da quello dove è stabilito, senza per questo risiedere nello Stato ove la prestazione viene offerta. Anzi, la differenza tra il diritto di stabilimento e la libertà di prestazione risiede proprio nel fatto che quest’ultima sia dotata di carattere transfrontaliero.
Peraltro, la stessa Corte di giustizia della Comunità europea ha costantemente statuito che la differenziazione tra diritto di stabilimento e libertà di prestazione di servizi deve essere effettuata caso per caso tenendo conto non solo della durata, ma anche della frequenza, periodicità o continuità della prestazione. Di conseguenza, non possono essere fissati limiti di tempo generali per distinguere tra stabilimento e prestazione di servizi.
Infatti, più nello specifico, il diritto di stabilimento, disciplinato dagli artt. 43-48 del Trattato, riguarda qualsiasi attività economica che, come già accennato, venga esercitata in modo stabile ma non in regime di subordinazione. Pertanto si differenzia sia dalla libertà di circolazione dei lavoratori, i quali sono in questo caso intesi unicamente come lavoratori subordinati, sia, come si spiegherà meglio in seguito, dalla libertà di prestazione dei servizi, che attiene invece a quelle attività economiche svolte in modo saltuario e non stabile.
In sostanza riguarda i casi in cui un cittadino dell’Unione Europea, o anche una persona giuridica, decida di esercitare stabilmente la propria attività in un Paese membro diverso da quello di origine.
Più specificamente si deve considerare che l’applicazione del diritto di stabilimento viene ristretta dal Trattato a due diverse ipotesi: per l’esercizio di attività economiche in uno Stato membro diverso da quello di origine; per l’apertura di un centro di interessi secondario di attività in un Paese comunitario diverso da quello di origine.
Il principio cardine della disciplina della libertà di stabilimento è quello del trattamento nazionale. Tale regola comporta, ai sensi dell’art. 43 del Trattato, che la libertà riconosciuta vada poi realizzata alle medesime condizioni definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini. Pertanto ciò comporta il divieto di qualsiasi discriminazione tra i cittadini dello Stato e i cittadini di altra provenienza ivi stabiliti.
In generale, quindi, la regola del trattamento nazionale vuole evitare che una misura nazionale, pur non prevedendo espressamente un regime di discriminazione nei confronti dello straniero, conduca in sede applicativa a creare una situazione sfavorevole per quest’ultimo. Nella pratica, alcune discriminazioni potrebbero realizzarsi attraverso la richiesta di specifici requisiti per lo svolgimento di una data attività economica, quali l’obbligo di residenza all’interno del Paese di stabilimento o la dimostrazione di essere provvisto di particolari titoli di studio o professionali; così pure potrebbero pretendersi particolari requisiti in capo alle persone giuridiche, requisiti tuttavia non richiesti nel Paese di origine.
Anche questa regola subisce, comunque, alcune eccezioni, soprattutto laddove il tipo di attività che si prevede sia svolta attenga all’esercizio dei pubblici poteri. Ma in questi casi non sono tanto le norme del diritto comunitario, quanto la giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia della Comunità europea ad avere, caso per caso, ricostruito il sistema delle eccezioni.
Il regime della libertà di prestazione del servizio, diversamente da quanto sopra esposto in tema di stabilimento, comporta che il suo utilizzo sia circoscritto ad attività economiche non esercitate stabilmente ma solo occasionalmente. In altre parole, ci si riferisce a quei servizi che vengano svolti senza che ricorrano le condizioni del rapporto di lavoro stabile e subordinato. Anche in questo caso la disciplina della libera prestazione dei servizi si oppone a qualsiasi misura discriminatoria sulla base della nazionalità che uno Stato membro possa mettere in atto al fine di ostacolare lo svolgimento del servizio.
Per il perseguimento degli obiettivi posti sia dal diritto di stabilimento sia dalla libertà di prestazione, gli strumenti messi in campo dall’ordinamento comunitario sono riconducibili al ravvicinamento e all’armonizzazione delle normative statali, promosse attraverso il diritto comunitario derivato (prevalentemente mediante regolamenti e direttive), e quello del controllo del Paese di origine insieme al mutuo riconoscimento. Il primo consiste essenzialmente nella sostituzione delle scelte legislative statali riducendo, quindi, la normazione nazionale a favore di regole uguali all’interno di tutta la Comunità. Il secondo, invece, consiste nel riconoscimento, all’interno di un ordinamento di uno Stato membro, di un soggetto o di attività derivati da altro ordinamento e sottoposti alla disciplina del controllo di quest’ultimo.
Quindi l’ordinamento comunitario, da un lato persegue l’armonizzazione delle normative nazionali, attraverso il loro ravvicinamento dettato mediante regole valevoli per tutti gli Stati membri, e dall’altro lato, attraverso il mutuo riconoscimento, mira al mantenimento delle discipline nazionali imponendo a ciascuno Stato di considerare valido quanto posto in essere dallo Stato di origine. In questo caso, viene coadiuvato dal principio del controllo del Paese di origine, in base al quale il prestatore è sottoposto unicamente alla legislazione del Paese in cui è stabilito. Gli Stati membri non devono, quindi, imporre restrizioni ai servizi forniti da un prestatore stabilito in un altro Stato membro.
Pertanto, attraverso tali principi, il diritto comunitario derivato ha dato attuazione a quelle disposizioni del trattato istitutivo che mirano, sin dalla metà del Novecento, alla liberalizzazione del mercato dei servizi. Disposizioni che non hanno, peraltro, subito modificazioni con l’avvento dei più recenti trattati europei.
La direttiva servizi
Nonostante l’apparente razionalità del disegno voluto dal trattato, le analisi svolte dalla Commissione europea all’inizio del 21° sec. hanno messo in luce il permanere di numerosi ostacoli che rendono ancora oggi difficoltoso per i prestatori di servizi espandersi oltre i confini nazionali e sfruttare le potenzialità del mercato unico europeo. Le principali difficoltà sono individuate come derivanti da restrizioni normative imposte a livello statale soprattutto relativamente a procedure amministrative opache e poco trasparenti.
Le autorità comunitarie hanno quindi reagito e, a partire dal marzo del 2000, il Consiglio europeo di Lisbona ha adottato un programma di riforme economiche inteso a fare dell’Unione Europea, entro il 2010, un’economia basata sulla conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo. Pertanto, in quell’occasione la Commissione è stata invitata ad adottare una strategia che agevolasse l’eliminazione degli ostacoli ancora presenti alla libera circolazione dei servizi. Di conseguenza, nel dicembre 2000 la Commissione ha definito Una strategia per il mercato interno dei servizi, con la quale sostanzialmente viene avanzata la proposta di un nuovo approccio al tema della liberalizzazione.
Infatti, fino a quel momento il diritto comunitario aveva proceduto secondo un approccio di tipo verticale attraverso l’adozione di discipline settoriali volte ad affrontare il problema dell’abbattimento delle barriere all’entrata di specifici mercati. Così è avvenuto con le diverse generazioni di direttive per il sistema bancario e creditizio e per quello assicurativo, per es., oppure per le disposizioni in materia di singole professioni. Diversamente, però, la nuova strategia elaborata all’inizio del 21° sec. ha innovato con un approccio che attraversa tutti i settori dell’economia. Essa comprende due diverse linee da seguire: la prima è quella di prendere nuove iniziative legislative non limitate a specifici e individuati settori di mercato; la seconda è quella di assumere un approccio orizzontale in merito alla libera circolazione dei servizi.
Nel luglio 2002 la Commissione presentava, quindi, una relazione su Lo stato del mercato interno dei servizi, che completava la prima fase della strategia compilando un inventario il più completo possibile degli ostacoli ancora presenti nel mercato interno dei servizi. Nel 2006 il Parlamento europeo ha approvato la direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. La direttiva, più nota come direttiva Bolkenstein, dal nome dell’allora commissario europeo al mercato interno Frits Bolkenstein, contiene disposizioni di carattere orizzontale in merito alla libera prestazione dei servizi all’interno del mercato comune.
Infatti, come definito nella relazione di accompagnamento, la direttiva-quadro sulla liberalizzazione dei servizi non mira a dettare norme specifiche per la regolamentazione della materia dei servizi, ma tratta le questioni fondamentali in un approccio orizzontale al fine di gettare le basi per una completa armonizzazione della materia. I quattro obiettivi principali della direttiva sono: facilitare la libertà di stabilimento e la libertà di prestazione di servizi all’interno dell’Unione Europea; rafforzare il diritto dei destinatari dei servizi in quanto utenti degli stessi; promuovere la qualità dei servizi; stabilire una cooperazione amministrativa effettiva tra gli Stati membri.
Per concludere questi richiami ai contenuti della direttiva 2006/123/CE, si deve precisare che la stessa mutua dal Trattato la sua impostazione distinguendo, almeno nella struttura, due tipi di discipline a seconda che si tratti di diritto di stabilimento o di libertà di prestazione.
Quanto al primo insieme di disposizioni relative al diritto di stabilimento (artt. 9-15), esse si applicano a tutti i casi in cui un operatore economico intenda stabilirsi in uno Stato membro, a prescindere dal fatto che il prestatore intenda avviare una nuova impresa di carattere primario o secondario. In particolare, le disposizioni mirano a modificare, all’interno degli Stati membri, i regimi autorizzatori oggi presenti per facilitare lo svolgimento intracomunitario delle prestazioni. In merito invece al regime della libera prestazione dei servizi, il cardine della disciplina è quello fissato dall’art. 16, secondo cui tale attività non può essere soggetta a restrizioni ingiustificate. Pertanto, viene imposto agli Stati membri, in sede di attuazione, di astenersi dall’imporre i propri requisiti ai prestatori di servizi non stabiliti.
Trattandosi di una direttiva-quadro, essa non intenderebbe fissare norme dettagliate o armonizzare direttamente il complesso delle norme degli Stati membri applicabili alle attività di servizi. Un approccio di questo tipo avrebbe comportato una regolamentazione eccessiva e l’uniformazione delle specificità dei sistemi nazionali che disciplinano i servizi. L’atto tratta invece esclusivamente le questioni fondamentali per il regolare funzionamento del mercato interno dei servizi, privilegiando le disposizioni che prevedono un’armonizzazione mirata di punti specifici, la definizione di chiari obblighi di risultato – a prescindere dalle tecniche giuridiche utilizzate per realizzarli – e le disposizioni volte a chiarire i rispettivi ruoli dello Stato membro d’origine e dello Stato membro di destinazione del servizio.
Pur stabilendo un quadro giuridico generale, la direttiva riconosce le specificità di ogni professione o settore d’attività. Essa riconosce segnatamente la specificità delle professioni regolamentate e il ruolo particolare svolto dall’autoregolamentazione. Per es., sono stabilite una serie di deroghe al principio del Paese d’origine direttamente legate alle particolarità di determinate attività (art. 17); sono previste inoltre disposizioni specifiche per alcune attività, come quelle relative alle assicurazioni e garanzie professionali (art. 27), alle comunicazioni commerciali delle professioni regolamentate (art. 29) o alle attività pluridisciplinari (art. 30); si rimanda infine ai metodi di regolamentazione propri di alcune attività come i codici di condotta per le professioni regolamentate (art. 39).
Pertanto la direttiva delinea un quadro giuridico generale per qualsiasi servizio fornito dietro corrispettivo economico, assumendo così quel carattere di orizzontalità a cui prima si accennava.
Tuttavia vi sono numerosi e importanti settori espressamente esclusi dall’ambito di applicazione della stessa direttiva, quali i servizi di interesse generale ma a carattere non economico, e cioè sostanzialmente quelli dove non è possibile individuare una retribuzione a fronte della prestazione erogata; i servizi finanziari come, per es., le banche e le assicurazioni; i servizi di comunicazione elettronica, il settore dei trasporti, i servizi delle agenzie di lavoro interinale, i servizi sanitari, i servizi audiovisivi, le attività di azzardo, i servizi privati di sicurezza, i servizi forniti da notai o ufficiali giudiziari, alcuni servizi sociali e infine quelle attività che risultano connesse all’esercizio di poteri pubblici.
La direttiva mira, poi, a incrementare le misure di semplificazione amministrativa all’interno degli Stati membri soprattutto attraverso l’istituzione di sportelli unici e di procedure elettroniche.
Per rafforzare inoltre la libera prestazione temporanea dei servizi transfrontalieri, la direttiva richiede che gli Stati membri debbano assicurare il libero accesso a un’attività di servizi, nonché il suo libero esercizio sul loro territorio. Al contempo la direttiva mira a rafforzare i diritti dei consumatori in quanto utenti di servizi e a garantire la qualità dei servizi prestati incoraggiando, per es., la certificazione volontaria delle attività o l’elaborazione di carte di qualità e i codici di condotta europei. Infine, viene ulteriormente rafforzato l’obbligo di cooperazione tra gli Stati membri e lo sviluppo di un sistema elettronico di scambio di informazioni tra gli stessi.
La direttiva contiene, dunque, come principio cardine della creazione del mercato unico, disposizioni generali volte alla rimozione degli ostacoli normativi e amministrativi alla libertà di stabilimento.
È disposta, poi, una serie di principi che dovranno essere rispettati dai regimi d’autorizzazione applicabili alle attività di servizio, segnatamente le condizioni e le procedure di rilascio delle autorizzazioni. Tra questi principi si annoverano il divieto di alcune prescrizioni giuridiche particolarmente restrittive che possono ancora sussistere nelle legislazioni di taluni Stati membri e quello dell’obbligo di valutare la compatibilità di un certo numero di altre prescrizioni giuridiche con le condizioni stabilite nella direttiva, in particolare la loro proporzionalità.
La direttiva, infine, punta a ribadire e rivalorizzare i principi cardine delle discipline di liberalizzazione quale quello del controllo del Paese di origine, quello del diritto dei destinatari di utilizzare servizi di altri Stati membri senza che questo venga impedito da misure restrittive del loro Paese o da comportamenti discriminatori di autorità pubbliche o di operatori privati. In merito al primo principio, si deve constatare come questo permetta al prestatore di fornire un servizio in uno o più Stati membri diversi da quello d’origine senza essere sottoposto alle normative di questi ultimi. Esso permette inoltre di responsabilizzare lo Stato membro d’origine obbligandolo a garantire un controllo efficace dei prestatori di servizi stabiliti sul suo territorio anche qualora questi ultimi forniscano servizi in altri Stati membri. Le deroghe al principio del Paese d’origine, in particolare all’art. 17, sono necessarie per tenere conto delle disparità nel livello di tutela dell’interesse generale di alcuni settori, dell’intensità dell’armonizzazione comunitaria, del grado di cooperazione amministrativa o di determinati strumenti comunitari.
Sotto altro profilo, per stabilire la fiducia reciproca tra Stati membri necessaria al fine di eliminare tali ostacoli normativi e amministrativi, la direttiva ha stabilito l’armonizzazione delle legislazioni allo scopo di garantire una tutela equivalente dell’interesse generale su questioni essenziali, come la tutela dei consumatori – in particolare per quanto riguarda gli obblighi d’informazione del prestatore, l’assicurazione professionale, le attività pluridisciplinari, la composizione delle controversie, lo scambio di informazioni sulla qualità del prestatore. A ciò si aggiunga un’assistenza reciproca rafforzata tra autorità nazionali per garantire un controllo efficace delle attività di servizi in base a una ripartizione chiara dei ruoli tra Stati membri e a obblighi di cooperazione e la previsione di misure volte a promuovere la qualità dei servizi, come la certificazione volontaria delle attività, l’elaborazione di carte di qualità o la cooperazione tra camere di commercio e dell’artigianato e la promozione di codici di condotta elaborati dalle parti interessate a livello comunitario in merito a determinate questioni, in particolare le comunicazioni commerciali delle professioni regolamentate.
Nell’ottica più generale della liberalizzazione del mercato, la direttiva non mira solo a facilitare l’erogazione delle prestazioni, ma anche a garantirne maggiormente i fruitori, ovvero i destinatari e consumatori dei servizi resi all’interno di detto regime.
La liberalizzazione dei servizi pubblici
Discorso a parte deve essere svolto per il servizio di pubblica utilità o servizi di interesse generale la cui liberalizzazione, come accennato in premessa, tanto in ambito comunitario quanto nazionale, ha trovato una specifica disciplina dettata dalle caratteristiche pubbliche del servizio e dalla presenza prevalente in tutti gli Stati membri di mercati monopolistici anche direttamente partecipati e gestiti dallo Stato.
Anche il processo di liberalizzazione di tali particolari servizi ha avuto inizio negli anni Novanta a seguito di un forte impulso comunitario nei settori delle telecomunicazioni, dei trasporti, dell’energia elettrica e del gas, dei servizi aeroportuali, dei servizi postali. Infatti, è dalla fine degli anni Ottanta che i servizi pubblici sono espressamente considerati parte integrante del mercato interno e, in quanto tali, soggetti alle politiche di liberalizzazioni intraprese dall’Unione Europea.
Inizialmente, tuttavia, l’intervento del diritto comunitario si limitava alla pretesa, come per tutti gli altri settori, di abolizione di diritti speciali ed esclusivi che limitassero, quando addirittura non vietassero, l’entrata di nuovi operatori, anche non appartenenti allo Stato membro, nei diversi settori di mercato.
Di fatto la liberalizzazione di questi settori è stata progressivamente prodotta dal diritto comunitario e recepita negli ordinamenti degli Stati nazionali comportando la limitazione, quando non anche la totale soppressione, del precedente regime di riserva e monopolio, in virtù del quale era un solo operatore, spesso direttamente lo Stato, a svolgere quel determinato servizio. Soprattutto laddove si tratta di servizi pubblici di carattere economico (di servizi di interesse economico generale, quali quelli di telecomunicazione, energia elettrica, gas, postale, trasporti ecc.), le misure di liberalizzazione messe a punto dall’Unione Europea hanno riguardato l’abrogazione dei diritti speciali ed esclusivi, consentendo l’accesso libero al mercato con la rimozione delle barriere legali.
Solo successivamente l’intervento comunitario ha preso la forma di una strategia più complessa per la disciplina di quei servizi di interesse economico generale. Infatti, è stato il Trattato di Amsterdam del 1997 che ha introdotto principi volti alla garanzia delle missioni di interesse generale proprie di tali servizi.
All’inizio del 21° sec., infatti, il mutato assetto ordinamentale dettato dal nuovo Trattato ha permesso l’introduzione di discipline di settore più complete anche nell’ambito della liberalizzazione dei servizi pubblici. A titolo esemplificativo si pensi all’adozione del pacchetto di direttive in materia di comunicazioni elettroniche e, comunque, alla nuova approvazione di pacchetti di direttive di seconda o terza generazione per gli altri settori. Tutte queste innovazioni si sono basate su un aggiornato approccio in materia di servizi di interesse economico generale, processo ancora in atto e in parte incompiuto dato che gli svariati settori presentano diversi gradi di apertura e di liberalizzazione. Si va, infatti, dalla totale apertura dei mercati delle comunicazioni elettroniche e del trasporto aereo e, ora, anche dell’energia elettrica, a quella parziale dei settori postale e del gas, a quella appena abbozzata dei servizi di trasporto ferroviario.
D’altra parte, come si è inizialmente accennato, il Trattato di Roma aveva a suo tempo affiancato alle disposizioni in merito alle quattro libertà di circolazione le discipline funzionali relative alla concorrenza e al divieto di aiuti di Stato. Tali previsioni attenevano prevalentemente alla realizzazione di mercati concorrenziali nei settori delle public utilities. La particolarità della disciplina di liberalizzazione di questi settori di mercato era data dalla sua duplicità di orientamento: da un lato intendeva aprire il mercato alla concorrenza e, quindi, alla partecipazione di più di un operatore, abbattendo così il regime monopolistico del passato; dall’altro pretendeva di continuare a garantire alla collettività la fruibilità di questi servizi.
Ma tali misure in questo caso non si sono rivelate sufficienti, in quanto proprio in quest’ambito le misure di privatizzazione e di riesame dell’inevitabile regolamentazione sono complementari a quelle di liberalizzazione. In proposito, infatti, la nuova regolamentazione di tali attività comporta l’alleggerimento e la semplificazione degli adempimenti e dei vincoli amministrativi. Essa introduce inoltre misure maggiormente compatibili con una struttura aperta di mercato, anche attraverso una forma di regolazione asimmetrica che permetta di bilanciare chi è in posizione di forza e monopolistica e chi invece ha intrapreso solo recentemente attività di questo tipo.
Con l’apertura dei mercati dei servizi si è permesso a operatori diversi dall’originario monopolista nazionale di intervenire laddove prima esisteva un regime riservato, prescindendo peraltro dalla natura pubblica o privata dello stesso. Pertanto, con l’avvento della liberalizzazione, l’offerta di un servizio pubblico non è più soggetta a una concessione in esclusiva a un’unica impresa ma, al contrario, vengono rilasciate singole licenze o autorizzazioni di carattere generale indicanti le condizioni di esercizio di una determinata attività rivolte a tutti gli operatori che ne abbiano fatto richiesta. In questi casi l’amministrazione nazionale è tenuta unicamente alla verifica dei requisiti in capo ai soggetti richiedenti senza poter esercitare alcuna discrezionalità nella scelta degli stessi.
Potrebbe, quindi, dirsi che per merito delle politiche comunitarie di liberalizzazione del mercato interno, con specifico riferimento ai settori dei servizi pubblici, alla fine gli stessi siano stati quasi integralmente sottoposti alle discipline della concorrenza.
Ma, come già accennato, la liberalizzazione dei servizi pubblici non determina soltanto l’assoggettamento a discipline proconcorrenziali, quanto anche l’inevitabile introduzione di interventi di regolazione e, di conseguenza, la trasformazione di primitive regolazioni o l’introduzione di nuove con la finalità di assicurare un corretto funzionamento del mercato. Tali misure sono inoltre dettate, prevalentemente, con il preciso intento di tutelare gli utenti e i consumatori. Questo cenno mira a ribadire come non sia affatto inconciliabile il concetto di liberalizzazione con quello di regolazione.
Dal punto di vista pratico, le misure di liberalizzazione di accesso al mercato sono il frutto di normative comunitarie disposte attraverso regolamenti e direttive di armonizzazione dei diritti esclusivi.
Nella complessità degli strumenti preordinati dalla disciplina comunitaria spicca come principale caratteristica di tali interventi la separazione della rete, intesa quale infrastruttura non duplicabile, dal servizio. Si pensi, per es., alle difficoltà che potrebbero sorgere in Italia se si dovesse costruire una nuova e parallela linea ferroviaria per consentire a un altro operatore di fornire il servizio di trasporto passeggeri o merci. La competitività tra fornitori di servizi viene, quindi, assicurata imponendo al proprietario della infrastruttura di consentire a tutti i fornitori del servizio sia l’accesso alla rete sia l’interconnessione fra tale rete e le reti degli stessi fornitori. Unitamente all’affermazione del principio del diritto di accesso e di interconnessione di tutti gli operatori a una determinata rete, la separazione fisica dei servizi di rete da quelli di fornitura del servizio è stata quindi prevista per le telecomunicazioni, il trasporto ferroviario, l’energia elettrica e il gas.
Altra caratteristica della disciplina comunitaria è data dalla previsione nelle direttive di liberalizzazione dell’obbligo di istituire all’interno dell’amministrazione appositi organismi di garanzia, indipendenti dal potere politico, dotati di poteri precettivi di regolazione e di controllo a fini di garanzia nel settore specifico, definiti comunemente autorità amministrative indipendenti. Tali autorità sono in particolare viste come presidio per gli utenti e i consumatori.
In un’altra direzione, come già detto, le misure di regolazione mirano alla tutela degli utenti e dei consumatori attraverso la previsione dei cosiddetti obblighi di servizio universale o pubblico, che vengono imposti alle imprese operanti in un determinato settore affinché siano garantiti livelli essenziali di fornitura della prestazione. Tali misure implicano l’imposizione della accessibilità dei prezzi, l’assicurazione di determinati livelli qualitativi, la garanzia della continuità del servizio offerto. Per quanto riguarda la loro attuazione nell’ordinamento italiano basti pensare, per es., all’adozione delle carte di servizio e alla disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali.
In pratica è pacificamente accettato che liberalizzazione non significa assenza di regole. Quindi si può dire che la presenza di centri di decisione preposti ad assicurare la funzionalità, trasparenza ed equilibrio del mercato dei servizi sia del tutto in linea con i principi condivisi dall’Unione e dagli Stati.
In termini molto generali, quindi, quando si parla di regolazione ne vengono individuati tre tipi: amministrativa, sociale ed economica, tenendo presente l’analisi di quegli interventi che possano migliorare la qualità del quadro regolamentare in vista proprio della liberalizzazione, o che conducano a forme di eliminazione completa o parziale di un regime amministrativo di settore al fine di migliorarne la resa economica (deregulation).
Sempre in termini generali, deve notarsi che le funzioni di regolazione delle autorità sono orientate a soggetti pubblici e privati che operano in un determinato settore, e che vengono variamente indirizzati, vigilati, ma anche tutelati e sostenuti, da parte di nuove entità organizzative distinte e autonome rispetto all’amministrazione convenzionale dello Stato, e tendenzialmente indipendenti dall’indirizzo degli organi politici.
Tali entità sono viste come centri di potere ‘neutro’ rispetto agli interessi coinvolti. Esse hanno come scopo la soddisfazione degli interessi attribuita loro dalle diverse leggi istitutive utilizzando un ampio fascio di possibilità, dalla formazione di regole all’applicazione di sanzioni in caso di accertate violazioni, che sono tutte riconducibili al proposito ultimo di ‘gestire’ il settore loro assegnato. Conseguono quindi gli obiettivi voluti dal legislatore nazionale e comunitario, ma godono al contempo di notevole discrezionalità e autonomia nel definire in concreto le modalità di intervento, tenendo conto delle esigenze che via via si presentano, dei dati della comune esperienza, delle diverse prassi. In Italia quando oggi si parla di regolazione, ci si riferisce in particolare all’attività svolta dalle autorità amministrative indipendenti come l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Conclusioni
Il tema della liberalizzazione dei servizi all’interno dell’ordinamento comunitario attiene sia, in termini generali, all’apertura dei normali mercati di servizi quali quelli bancario, assicurativo, professionale, sia, più specificamente, ai mercati delle public utilities, cioè dei servizi di interesse economico generale, per i quali, in virtù di quanto preteso dai trattati, si sono rese necessarie ulteriori discipline regolatorie.
In ogni caso, in entrambi gli ambiti di intervento, il processo di liberalizzazione, quanto all’applicazione dei principi già presenti nel trattato istitutivo della CEE nel 1957, e sempre ribaditi nei successivi atti pattizi, ha fatto perno sul diritto di stabilimento e su quello della libertà di prestazione dei servizi. Tali principi si fondano sulle affermazioni delle quattro libertà di circolazione, sulla disciplina della libera concorrenza, sul divieto di aiuti di Stato.
Il diritto comunitario derivato ha poi perseguito l’attuazione di tali principi prima con un approccio di tipo verticale, attraverso l’emanazione di discipline settoriali, e poi, all’inizio del 21° sec., con un nuovo approccio di tipo generale e orizzontale per tutti i settori interessati.
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