Libertà di associazione sindacale dei militari
Il contributo ha ad oggetto la sentenza della Corte costituzionale 13.6.2018, n. 120, intervenuta in tema di libertà di associazione sindacale dei militari e resa nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1475, co. 2, d.lgs. 15.3.2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) promossi da Consiglio di Stato e TAR Veneto, collocando l’analisi all’interno del dibattito giurisprudenziale e dottrinale in materia, segnalando i profili d’interesse della decisione, con precipuo riguardo ai parametri interposti utilizzati, ed evidenziando alcune criticità che emergono nel percorso argomentativo della Consulta.
Con la sentenza di parziale accoglimento 13.6.2018, n. 120 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1475, co. 2, d.lgs. 15.3.2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui prevede che «I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali», anziché stabilire che «I militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali».
La pronuncia segna un evidente revirement nella giurisprudenza della stessa Corte, che, con la decisione 17.12.1999, n. 449, aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità, sollevata in riferimento agli artt. 3, 39 e 52, co. 3, Cost., dell’art. 8, co. 1, l. 11.7.1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina militare), di analogo tenore e abrogato dal d.lgs. n. 66/2010. Revirement propiziato, a valle, in una prospettiva di tutela multilivello dei diritti, specie dall’evoluzione dei rapporti fra Carta costituzionale e Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), che si traduce nella progressiva integrazione tra gli orientamenti interpretativi delle Corti garanti del loro rispetto (v. infra, § 2.1); a monte, dalla netta inversione di tendenza della giurisprudenza amministrativa. Quest’ultima, infatti, a cominciare dalla celebre decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 4.2.1966, n. 5 e fino ai giorni nostri – come dimostra la sentenza del TAR Lazio 23.7.2014, n. 8052, pronunciata in primo grado nella vicenda approdata alla Corte costituzionale1 – si era espressa a favore della legittimità della disciplina preclusiva della libertà di associazione sindacale nell’ambito in esame: nel 1966
– considerato ancora vigente il d.l. lgt. 24.4.1945, n. 205, che vietava al personale militare e civile dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza di appartenere a partiti politici o ad associazioni sindacali, anche se a carattere apolitico – invocando la natura politicizzata dell’azione sindacale, con conseguente assimilazione della fattispecie a quella regolata dall’art. 98, co. 3, Cost.; nel 2014 – nonostante il richiamo, operato dal ricorrente, agli artt. 11 e 14 CEDU – facendo appello a quelle «esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività che distinguono le Forze armate dalle altre strutture statali» già evocate dalla Corte costituzionale nella ricordata sentenza n. 449/1999 e ritenute insuperabili anche alla luce delle previsioni della Convenzione di Roma. Faceva eccezione, per l’appunto, l’ordinanza del Consiglio di Stato 2.6.1998, n. 837 con cui era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale respinta l’anno seguente, la quale, abbandonando l’impostazione adottata nel 1966, e ampiamente stigmatizzata2, aveva comunque negato che le ragioni di efficienza dell’organizzazione e di rispetto della gerarchia e disciplina militari potessero giustificare la negazione della libertà sindacale, configurandosi piuttosto una disparità di trattamento con le Forze di polizia ad ordinamento civile, che di tale libertà godono pur se in regime “separato” (artt. 8283, l. 1.4.1981, n. 121). Né poteva dubitarsi dell’inidoneità, quale sostituto funzionale, del sistema di tutela degli interessi introdotto dalla legge del 1978, e consolidato dal d.lgs. n. 66/2010, la cui articolazione in CoCeR, al centro, CoIR, presso gli alti comandi, e CoBaR, presso le singole unità, avrebbe sacrificato i principi di libertà organizzativa e di pluralismo sindacale, perché la rappresentanza militare resta vicenda interna all’apparato pubblico/datoriale, nei confronti del quale detti organi si pongono in posizione (non già antagonista, ma) collaborativa: non a caso, i loro membri, in occasione delle riunioni, percepiscono i compensi previsti dal d.P.R. 11.1.1956, n. 5, in quanto le stesse sono espletate nell’esercizio di funzioni istituzionali, e le loro competenze sono fondamentalmente consultive, con esclusione di dinamiche negoziali e di contrapposizione degli interessi. Non erano, peraltro, mancate fondate critiche alla pronuncia di rigetto della Consulta3: invero, l’abbandono, almeno a partire dalla sentenza 23.7.1987, n. 278, della «logica istituzionalistica dell’ordinamento militare» – anch’esso da ricondursi al generale ordinamento statale garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini, militari compresi – non le aveva comunque impedito di ritenere assorbente, rispetto al rapporto d’impiego con l’amministrazione, il servizio reso in tale ambito speciale (art. 52, co. 12, Cost.), con i suoi caratteri di «coesione interna e neutralità». Tanto che, secondo la Corte, dirimente al fine di escludere ogni pretesa disparità di trattamento era il fatto che il riconoscimento di una pur circoscritta libertà sindacale al corpo della Polizia di Stato si fosse accompagnato alla smilitarizzazione dello stesso. Che l’insoddisfazione circa l’esito a cui era pervenuto il Giudice delle leggi fosse diffusa lo confermano anche le svariate proposte legislative di modifica del sistema di rappresentanza dei militari, presentate in anni più recenti4, alcune delle quali orientate al superamento di un modello esclusivamente istituzionale/corporativo, con ingresso di elementi di libertà sindacale nel quadro di una più organica riforma capace d’investire altresì la definizione dei contenuti del rapporto d’impiego di tale personale; proposte, tuttavia, sempre abortite, malgrado le novità intervenute – in primis il processo di professionalizzazione delle Forze armate – ne rendessero maggiormente urgente l’approvazione. Come accennato, il 2017 segna l’anno di svolta nella giurisprudenza amministrativa, più attenta a cogliere l’evoluzione dei percorsi interpretativi elaborati in seno alla Corte di Strasburgo, la quale, con le sentenze del 2.10.20145, rese nei casi Adefdromil e Matelly, aveva dichiarato incompatibile con l’art. 11 CEDU – il cui co. 1, senza esclusioni di tipo soggettivo, riconosce «il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire a essi per la difesa dei propri interessi» – il divieto di associazione sindacale dei militari, allora vigente nell’ordinamento francese e poi modificato con l. n. 2015917 del 28.7.2015. In effetti, è proprio a seguito dell’impulso dato da queste pronunce, che, come si vedrà, matura l’aliquid novi rinvenibile nella posizione assunta dal Consiglio di Stato e dalla Corte costituzionale nella decisione commentata.
È, dunque, sull’iter argomentativo seguito dalla sentenza n. 120/2018 che occorre ora soffermarsi, con particolare riguardo all’utilizzazione dei parametri interposti e ai limiti che la Consulta ritiene comunque di dover individuare in relazione all’esercizio della libertà sindacale da parte dei militari, in attesa dell’intervento, ormai indifferibile, del legislatore.
Quanto al primo profilo, è noto come, a partire dalle famose sentenze “gemelle” del 20076, la Corte costituzionale abbia riconosciuto alla CEDU la qualità di fonte interposta, in ragione del richiamo agli «obblighi internazionali» operato in via generale dall’art. 117, co. 1, Cost., che realizza un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente. Inoltre, poiché, come chiarisce il Consiglio di Stato nell’ordinanza di rimessione del 4.5.2017, n. 111 sulla scorta di quanto affermato nelle citate sentenze del 2007, «per gli Stati firmatari…il diritto convenzionale vivente non è quello rappresentato dal testo della Convenzione (ossia dalle relative disposizioni), bensì quello risultante dall’esegesi dei Giudici di Strasburgo, unico plesso giurisdizionale attributario della competenza a risolvere “tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione” (…art. 32) e, dunque, a ricavare da tali disposizioni le vere e proprie norme giuridiche, le regulae juris», l’art. 11 CEDU è assunto quale parametro interposto non nella lettera del testo, ma, per l’appunto, nell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte EDU, ossia quale norma. La Consulta si allinea così alla ricostruzione del Consiglio di Stato (e del TAR Veneto nell’ordinanza di rimessione del 3.11.2017, n. 198 che a quella si uniforma), tesa a valorizzare la portata delle pronunce Matelly e Adefdromil. Queste, del resto, sono definite dalla sentenza n. 120/2018 – in coerenza con la dottrina sui vincoli derivanti per il giudice interno dal «‘diritto consolidato’, generato dalla giurisprudenza europea», compiutamente formulata dalla Corte costituzionale nella decisione 26.3.2015, n. 497 – «espressione di un approdo giurisprudenziale stabile», che riafferma principi già enunciati nella pronuncia 12.11.2008 (Demir e Baykara c. Turchia) e poi richiamati nella sentenza 21.4.2015 (Junta Rectora Del Ertzainen Nazional Elkartasuna c. Spagna). Con la dichiarazione d’incompatibilità, rispetto all’art. 11 CEDU, del divieto di associazione contenuto nell’allora vigente art. L. 41214 Code de la Défense – quantunque accompagnato da un assetto della rappresentanza dei militari non dissimile da quello italiano –, la Corte di Strasburgo respinge l’interpretazione dell’art. 11, co. 2, secondo periodo (che ammette «restrizioni legittime…all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato») come di per sé idoneo a fondare limitazioni alla libertà di associazione delle categorie ivi indicate, così rivedendo le soluzioni ermeneutiche accolte in passato dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo8. Piuttosto, alla luce di una lettura unitaria del co. 2, è da ritenere che le condizioni fissate dal suo primo periodo – il quale impedisce «restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla protezione dei diritti e delle libertà altrui» – valgano anche per i vincoli posti alla libertà del personale militare. Pertanto, fermo restando l’ampio margine di apprezzamento del legislatore nazionale nella disciplina della materia, rimane che, come afferma il punto 75 della sentenza Matelly (e, analogamente, il punto 60 della sentenza Adefdromil), «l’interdiction pure et simple de constituer un syndicat ou d’y adhérer porte à l’essence même de cette liberté une atteinte prohibée par la Convention». Invero, il divieto generale e inderogabile di associarsi per fini sindacali, sebbene motivato da legittime esigenze di tutela della coesione dell’ordinamento militare, priverebbe la libertà di associazione del suo nucleo essenziale, concretizzandosi in una restrizione destinata a incidere non già sull’esercizio della medesima, ma sul suo stesso fondamento, ossia sulla sua titolarità; restrizione in quanto tale non proporzionata, né necessaria in una società democratica. Di qui, rompendo l’equazione fra smilitarizzazione e sindacalismo finora invalsa, l’affermazione del contrasto tra l’art. 1475, co. 2, d.lgs. n. 66/2010 e l’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 11 CEDU (nonché all’art. 14, secondo il quale il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere assicurato senza discriminazione alcuna, ma i cui profili di censura sono dichiarati assorbiti).
In entrambe le ordinanze di rimessione, peraltro, emerge, quale parametro interposto, anche il riferimento all’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea, oggetto di revisione nel 1996: su tale, innovativo richiamo, tuttavia, si tornerà in seguito (v. infra, § 3), stanti gli aspetti problematici evidenziabili in proposito.
Se la preoccupazione per il vuoto che si sarebbe originato dall’eventuale dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 8, co. 1, l. n. 382/1978 – con conseguente «piena estensione della libertà sindacale, concepita sia come potere di costituire autonome associazioni professionali…sia come facoltà di adesione ad associazioni già esistenti, sia come principio pluralistico di concorrenza fra le associazioni stesse» – era già percepibile in sottofondo nella decisione n. 449/1999, ancor più chiaramente la Consulta si esprime nella sentenza in esame. I valori sottesi alla disciplina costituzionale della materia, invero, «sono di tale rilevanza da rendere incompatibile con la disciplina stessa un riconoscimento non specificamente regolamentato del diritto di associazione sindacale. La previsione di condizioni e limiti all’esercizio di tale diritto, se è infatti facoltativa per i parametri internazionali, è invece doverosa nella prospettiva nazionale, al punto da escludere la possibilità di un vuoto normativo, vuoto che sarebbe di impedimento allo stesso riconoscimento del diritto di associazione sindacale», dovendo quest’ultimo bilanciarsi con le esigenze richiamate dalla Corte nel 1999 a giustificazione dell’assetto normativo allora vigente, e a tutt’oggi pienamente valide. Poiché, dunque, nella visione di tipo sistemico più volte affermata dalla sua giurisprudenza, il rispetto degli «obblighi internazionali» deve conciliarsi con altri valori costituzionalmente rilevanti9, nelle more di un intervento legislativo ormai improcrastinabile, la Consulta assume un ruolo di supplenza, individuando nelle pieghe dell’ordinamento limiti a suo giudizio idonei a preservare tutti i principi in gioco, in modo da non rinviare oltre l’adeguamento alle norme CEDU. Così, la previsione dell’art. 1475, co. 1, d.lgs. n. 66/2010, a mente della quale «la costituzione di associazioni o circoli fra militari è subordinata al preventivo assenso del Ministro della difesa», è ritenuta applicabile anche ai futuri sindacati come strumento di un controllo che dovrebbe estendersi a verificare la democraticità degli statuti e dell’associazione, presupposta tanto dall’art. 52 Cost. quanto dall’art. 39 Cost., e funzionale altresì a garantire la neutralità di un apparato pubblico quale quello militare, evocata in linea generale dagli artt. 97 e 98 Cost.; ciò che implica procedere all’esame della struttura organizzativa e delle sue modalità di costituzione e di funzionamento, con specifico riguardo alla trasparenza del sistema di finanziamento. Sul versante dell’azione, confermato il perdurante divieto di esercizio del diritto di sciopero, adeguata garanzia è recuperata nelle disposizioni dettate per i diversi organismi della rappresentanza militare e in particolare nell’art. 1478, co. 7, d.lgs. n. 66/2010, che sottrae alla competenza degli stessi «le materie concernenti l’ordinamento, l’addestramento, le operazioni, il settore logistico-operativo, il rapporto gerarchico-funzionale e l’impiego del personale», ossia il «cuore delle istituzioni militaresche»10. Sempre in relazione alle specificità dell’ordinamento militare la Corte giustifica «l’esclusione di forme associative ritenute non rispondenti alle esigenze di compattezza ed unità degli organismi che tale ordinamento compongono», rigettando la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 1475, co. 2, d.lgs. n. 66/2010, nella parte in cui proibisce l’adesione ad altre associazioni sindacali, senza rinvenire impedimenti a ciò nelle fonti internazionali evocate come parametri interposti. Da tale ultimo divieto consegue, pertanto, «la necessità che le associazioni in questione siano composte solo da militari e che esse non possano aderire ad associazioni diverse», così sostanzialmente parificandosi la situazione a quella disciplinata dagli artt. 8283, l. n. 121/1981 a proposito delle Forze di polizia ad ordinamento civile, per le quali è contemplata l’unica (finora) forma di sindacalismo di mestiere imposta per legge11. E, tuttavia, permane un rilevante profilo di disparità di trattamento di cui il legislatore, chiamato direttamente in causa dalla sentenza in commento, non potrà non farsi carico: quello, cioè, relativo alle procedure delineate dal d.lgs. 12.5.1995, n. 195 per regolare i contenuti del rapporto d’impiego del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate12. Ferma restando, infatti, in ambedue i casi la sottrazione al regime della contrattualizzazione (art. 3 d.lgs. 30.3.2001, n. 165), nell’ambito dei differenti procedimenti previsti per addivenire alla disciplina di tale rapporto i rappresentanti sindacali delle Forze di polizia ad ordinamento civile (Polizia di Stato, Corpo della polizia penitenziaria e Corpo forestale dello Stato) e la rappresentanza (le diverse sezioni del CoCeR) del personale delle Forse armate, nonché delle Forze di polizia ad ordinamento militare (Arma dei carabinieri e Corpo della guardia di finanza), svolgono un ruolo, rispettivamente, di negoziazione e di concertazione, che non potrà non essere rivisitato in un’ottica unitaria e omogenea, in ragione della nascita di organizzazioni sindacali anche laddove finora ne era preclusa la costituzione.
Peraltro, per quanto prevedibile, la conclusione, cui accede la Corte a proposito del divieto, per i futuri sindacati, di aderire ad associazioni diverse, non sembra tenere in adeguata considerazione i dubbi di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 39, co. 1, Cost., già sollevati in dottrina sulla l. n. 121/1981 e ancora più acuiti – sul piano della disparità di trattamento ex art. 3 Cost. – dopo la smilitarizzazione, con l. 15.12.1990, n. 395, del Corpo degli agenti di custodia, divenuto Corpo di polizia penitenziaria, per il quale tale limitazione non è stata ribadita13, evidentemente sul presupposto che al dipendente appartenente a detto corpo (ma solo ad esso?) non può richiedersi un livello d’imparzialità differente rispetto a quello esigibile dagli altri pubblici impiegati. È, tuttavia, un profilo ulteriore a meritare maggiore attenzione, per la sua valenza generale destinata a riverberare effetti ben al di là dell’ambito qui specificamente considerato. Ci si riferisce a quel passaggio del percorso argomentativo della sentenza n. 120/2018 che finalmente riconosce expressis verbis alla Carta sociale europea (CSE) il ruolo di fonte interposta ex art. 117, co. 1, Cost. (v. supra, § 2.1), in ragione degli «spiccati elementi di specialità rispetto ai normali accordi internazionali» che l’avvicinano alla CEDU, della quale costituisce un completamento sul piano della tutela dei diritti sociali. In tale ottica, poiché il suo art. 5 presenta un contenuto affine a quello dell’art. 11 CEDU, consentendo agli Stati firmatari, fra l’altro, di determinare il «principio dell’applicazione» della libertà di associazione sindacale ai militari, nonché la «misura» di tale applicazione, la Corte dichiara l’incompatibilità dell’art. 1475, co. 2, d.lgs. n. 66/2010 pure con la previsione de qua, che autorizzerebbe non la radicale negazione delle garanzie sindacali, ma solo l’introduzione di limitazioni ad esse. Interpretazione similare dell’art. 5 è accolta nella pronuncia del Comitato europeo dei diritti sociali pubblicata il 4.7.2016 (Conseil Européen des Syndicats de Police c. France), che offre alla Corte l’occasione per precisare la propria posizione sulla “giurisprudenza” di tale organo, cui è rimessa anche la decisione nelle procedure di reclamo collettivo, circa un’attuazione insoddisfacente della Carta, riservate a sindacati e ONG, a conferma della propensione della stessa a tutelare interessi collettivi14. Al riguardo, tuttavia, la condivisibile apertura a proposito del ruolo di quest’ultima come fonte interposta di rilievo analogo alla CEDU – apertura sostanzialmente inedita, sol che si consideri lo scarso utilizzo che, malgrado le sollecitazioni dottrinali, di essa era stato finora fatto dalla Corte costituzionale e dai giudici rimettenti15 – appare dimidiata da una meno comprensibile (stanti le premesse) chiusura.
Invero, poiché nessuna norma assegna a detto Comitato la competenza esclusiva a interpretare la CSE, né il Protocollo addizionale, che istituisce e disciplina il sistema dei reclami collettivi, introduce una disposizione simile all’art. 46 CEDU, il quale fonda l’autorità di res iudicata delle sentenze rese dalla Corte di Strasburgo relativamente agli Stati in causa e alle controversie decise, sbrigativamente la Consulta conclude nel senso che «le pronunce del Comitato, pur nella loro autorevolezza, non vincolano i giudici nazionali nella interpretazione della Carta». Né la Corte valorizza la loro valenza nel quadro delle regole sull’esegesi dei Trattati contenute nella Convenzione di Vienna del 1969, pure adombrata nell’ordinanza del Consiglio di Stato, collocandole fra gli strumenti ai quali va attribuito rilievo ermeneutico. Oltre che di portata generale, il profilo appare altresì di stretta attualità, perché la CSE – e, segnatamente, il suo art. 24, nell’interpretazione fornita in più occasioni dal Comitato suddetto – è invocata, come parametro interposto, anche nell’ordinanza del 26.7.2017, con cui il Tribunale di Roma ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 7, lett. c), l. n. 10.12.2014, n. 183 e degli artt. 2, 3, 4, d.lgs. 4.3.2015, n. 23, per contrasto, tra gli altri, con l’art. 117, co. 1, Cost.; sì che ne è intuitiva la rilevanza. Pur non potendo approfondire oltre misura il tema nel limitato spazio di questo commento, vale, tuttavia, rimarcare come la Corte sembri sottostimare sia la funzione “quasi giurisdizionale” svolta dal Comitato specie in sede di decisione sui reclami collettivi – in ragione della sua composizione (esperti indipendenti), nonché del carattere processuale del contraddittorio tra le parti e del giudizio finale – sia, soprattutto, il fatto che le sue statuizioni trovano fondamento in un trattato ratificato dall’Italia, la cui corretta applicazione sono chiamate a garantire in virtù del mandato espresso a verificare, sul piano giuridico, il rispetto del medesimo da parte degli Stati contraenti16. Sicché, una volta collocata correttamente la Carta fra le fonti interposte, sembra difficile negare che la stessa s’imponga nel significato precisato dall’organo di controllo da essa istituito17, il quale, in quanto strumento di attuazione dei principi ivi sanciti, concorre alla specificazione del contenuto degli obblighi internazionali derivanti in capo agli Stati, su cui grava, per converso, un dovere di leale cooperazione col Comitato medesimo. Dovere che si traduce anche nel riconoscimento alle pronunce di quest’ultimo di un valore determinante a fini interpretativi, che pare implicare, per la Corte costituzionale, l’obbligo di prendere in considerazione tali decisioni e di motivare adeguatamente l’eventuale scostamento da esse18. L’auspicio, pertanto, è che – sul modello dell’interazione virtuosa che si sta sviluppando tra Comitato e giudici di Strasburgo19 – il fecondo dialogo fra Carte, di cui la sentenza n. 120/2018 costituisce espressione, trovi, nella futura giurisprudenza della Consulta, un approdo più soddisfacente anche in quello fra “Corti”, pur se latamente intese, così da non privarsi del prezioso contributo interpretativo dell’«unico presidio sovranazionale a tutela dei diritti sociali presente nella “vecchia Europa”»20.
1 V. pure Tar Lazio, sez. I bis, 20.1.2016, n. 586.
2 Pera, G., Una grave decisione sul diritto di associazione sindacale del personale della pubblica sicurezza, in Boll. Scuola di perfezionamento e specializzazione dir. lav. sic. soc. Trieste, 1966, n. 3536; Mancini, F.G., Equivoci e silenzi sul sindacato di polizia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 286 ss.
3 D’Elia, G., Sotto le armi non tacciono le leggi: a proposito della libertà sindacale dei militari, in Giur. cost., 2000, 553 ss.; Di Rollo, M., Nota, in Lav. pubbl. amm., 2000, II, spec. 354 ss.; Baldanza, A., Il commento, in Giorn. dir. amm., 2000, 260; Lambertucci, P., Verso la rappresentanza sindacale dei corpi militari?, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2016, 622 ss.; in tema anche Fara, V., La partecipazione politica e sindacale dei militari nella giurisprudenza europea. Spunti di riflessione per uno studio dell’ordinamento militare nazionale, in Dir. pubbl. comp. eur., 2013, 585.
4 Cfr. Lambertucci, P., op. cit., 629 ss.; Guella, F., Libertà di associazione sindacale e coesione delle forze armate: i margini di apprezzamento nel bilanciare diritti individuali e interessi pubblici, tra Corte costituzionale e Corte Edu, in Riv. AIC, 2015, n. 1, 28 ss.
5 Su cui Turazza, M., Dall’Europa l’ennesimo monito per il riconoscimento dei diritti sindacali ai militari, in Forum quad. cost., 20.3.2017; Furlan, F., Corte EDU e libertà sindacale nelle Forze armate, in Quad. cost., 2015, n. 1, 216 ss.; Guella, F., op. cit., 18 ss.
6 Sulla svolta rappresentata da C. cost., 24.10.2007, nn. 348 e 349, di recente Randazzo, A., La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Milano, 2017,109 ss.
7 Amplius Randazzo, A., op. cit., 171 ss.
8 Sul punto, Guella, F., op. cit., 2930.
9 Panzera, C., Rispetto degli obblighi internazionali e tutela integrata dei diritti sociali, in Consulta online, 2015, 489.
10 Martone, M., «Vedette insonni sul confine» (a proposito della sindacalizzazione del Corpo della Guardia di Finanza), in Argomenti dir. lav., 2008, 458.
11 Bellocchi, P., Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, in Proia, G., a cura di, Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, in Tratt. Persiani-Carinci, II, Padova, 2014, 137.
12 Di Rollo, M., Le relazioni sindacali nel comparto sicurezza, in Lav. pubbl. amm., 1999, II, 685 ss.
13 Menghini, L., Le articolazioni del «diritto sindacale separato»: polizie, carabinieri, forze armate, in Riv. giur. lav., 1992, I, 386 ss.; Nicolosi, M., Libertà sindacale separata e Polizia di Stato, in Lav. giur., 2012, 1059-1060; Lambertucci, P., op. cit., 623-624; Falsone, M., Organizzazione sindacale e conflitto collettivo nella Polizia di Stato: a metà del cammino verso la libertà, in Famiglietti, G.Nisticò, M.Falsone, M.Albi, P., Libertà politiche e sindacali nella polizia di Stato tra limiti normativi, etica e responsabilità, Milano, 2016, 72 ss.
14 Sciarra, S., Pluralismo sindacale multilivello nella crisi. Gli orizzonti della Carta sociale europea, in Studi integr. eur., 2014, 239; su tali procedure, per tutti, Panzera, C., Diritti ineffettivi? Gli strumenti di tutela della Carta sociale europea, in Riv. AIC, 2017, n. 1, 12 ss.
15 Spadaro, A., Sull’aporia logica di diritti riconosciuti sul piano internazionale, ma negati sul piano costituzionale (nota sulla discutibile “freddezza” della Corte costituzionale verso due Carte internazionali: la CSE e la CEAL), in Consulta online, 2015, 508 ss.; Liberali, B., Un nuovo parametro interposto nei giudizi di legittimità costituzionale: la Carta Sociale Europea a una svolta?, in federalismi.it, 2017, n. 17, 5 ss.; Sturniolo, S., Una porta prima facie aperta ma in realtà ancora “socchiusa” per la Carta sociale europea, in Forum quad. cost., 13.7.2018, 3 ss.
16 Speziale, V., Il problema della legittimità costituzionale del contratto a tutele crescenti, in Aa.Vv., La normativa italiana sui licenziamenti: quale compatibilità con la Costituzione e la Carta sociale europea?, in Forum quad. cost., 2018, 52 ss.; Forlati, S., Corte Costituzionale e controllo internazionale: quale ruolo per la “giurisprudenza” del Comitato europeo per i diritti sociali nel giudizio di costituzionalità delle leggi, ivi, 74 ss.; Cozzi, A.O., Sull’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e sulla Carta Sociale Europea come parametro interposto, ivi, 108 ss.; Russo, D., La definizione del parametro di costituzionalità fondato sulla Carta Sociale Europea: il valore delle pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali, ivi, 131 ss.; contra Cavino., M., Il contratto di lavoro a tutele crescenti al vaglio della Corte Costituzionale, ivi, 18.
17 Guiglia, G., Il ruolo del Comitato europeo dei diritti sociali al tempo della crisi economica, in Riv. AIC, 2016, n. 2, 17; Calvellini, G., Insufficienze e potenzialità della Carta sociale europea in tempo di crisi, in Dir. lav. merc., 2018, 96.
18 Forlati, S., op. cit., 79; Amoroso, D., Sull’obbligo della Corte Costituzionale italiana di “prendere in considerazione” le decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, in Aa.Vv., op. cit., 81 ss.; Borlini, L.Crema, L., Il valore delle pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali ai fini dell’interpretazione della Carta Sociale Europea nel diritto internazionale, ivi, 104105.
19 Mola, L., Brevissime osservazioni sull’interpretazione della Carta Sociale Europea. A margine della sentenza n. 120/2018 della Corte Costituzionale in prospettiva di una prossima pronuncia, in Aa.Vv., op. cit., 120-121.
20 Fontana, G., La Carta Sociale Europea e il diritto del lavoro oggi, in Work. paper Massimo D’Antona.INT, 2016, n. 132, 15.